La paura di una nuova morale collettiva. Uomini di Stato, discorso pubblico, identificazione di valori: ben oltre l’unpolitically correct Trump ha infranto il dover-essere e l’ufficialità non sta a guardare
Nel suo corso al Collège de France Sullo Stato (1), Pierre Bourdieu riflette anche sul tema dell’ufficialità e del discorso pubblico. Partendo dalla questione cardine che può essere sintetizzata nella domanda che cos’è lo Stato? – una serie di principî che consentono un dominio, il detentore della violenza legittima sia fisica che simbolica (riconosciuta come tale, e dunque basata anche su un consenso dei cittadini), un’illusione radicata nelle nostre menti, che dunque esiste essenzialmente perché crediamo che esita… – il sociologo francese analizza la contrapposizione tra pubblico e privato e la conseguente natura del concetto di ufficialità.
Sintetizzando il ragionamento, il pubblico è innanzitutto ciò che si oppone al privato, che è il singolare, il particolare, il personale ma anche il nascosto e l’invisibile; il pubblico dunque è il collettivo ma anche ciò che si mostra quando ci si trova davanti agli altri, divenendo ciò che è ufficiale. Da qui la conseguente riflessione di Bourdieu sulla nozione di morale, se ne possa esistere una privata: “Un uomo invisibile, ossia sottratto alla pubblicità, al divenire pubblico, allo svelamento davanti a tutti, davanti al tribunale dell’opinione, può rendere possibile una morale? Detto altrimenti, non esiste forse un nesso indissolubile tra visibilità e moralità?”. Se è così, l’effetto dell’ufficialità porta con sé sia una universalizzazione (il collettivo) che una moralizzazione (il pubblico).
Il delegato dunque, figura ufficiale che un gruppo elegge o incarica per essere rappresentato pubblicamente, esprime nei suoi discorsi la morale collettiva del gruppo che rappresenta – bene/male, giusto/sbagliato, diritti/doveri ecc. La possiamo definire una condivisione di valori, che non si possono rinnegare senza negare se stessi, poiché il singolo si identifica con il collettivo in quanto membro di quella comunità che si riconosce in quella morale. L’ufficialità è quindi la messa in scena pubblica, la rappresentazione dell’immagine che il gruppo ha di se stesso, davanti agli altri ma anche allo specchio; è ciò che si deve-essere.
Gli uomini di Stato esprimono la morale in cui i cittadini di un Paese si identificano. Una morale considerata collettiva in quanto pubblica opinione, un’entità continuamente invocata che non è affatto, chiaramente, l’opinione di tutti e nemmeno della maggioranza, ma quella di “coloro che sono degni di averne una”, scrive Bourdieu. “L’opinione pubblica è l’impressione su qualsiasi argomento manifestata e prodotta dalle persone più informate, intelligenti e morali della comunità. Tale opinione è gradualmente diffusa e adottata da tutti gli individui”. Ne consegue che “la verità dei dominanti diviene quella di tutti”, grazie alle sfere mainstream dell’informazione e della cultura che si fanno carico della sua diffusione dall’alto al basso.
Se la facciamo risalire alla nascita del Wto nel 1995 – per quanto già prima erano stati avviati processi di delocalizzazione produttiva, accordi commerciali come il GATT e politiche neoliberiste – la globalizzazione è il concetto centrale su cui la classe dirigente ha costruito il discorso pubblico negli ultimi vent’anni. Un disegno economico a misura del Capitale è stato rivestito di valori morali positivi, perché potesse divenire pensiero dominante: apertura, abbattimento delle barriere mentali e fisiche, libertà di movimento, mescolanza di culture, arricchimento intellettuale, espansione dei diritti umani e civili, connessione con il mondo; in una parola, progresso dell’umanità verso un benessere condiviso da tutti i popoli, economico e culturale. Nel mondo occidentale la narrazione ha retto finché la disoccupazione e la povertà, l’abbassamento dei salari e lo sfruttamento lavorativo, non sono diventati parte del quotidiano della maggioranza delle persone, e per la prima volta dal dopoguerra i figli hanno iniziato a vivere in condizioni peggiori dei padri. Sempre più individui hanno smesso di identificarsi nella morale collettiva, ma i delegati – e ancor di più i maître à penser – non hanno percepito quanto profondo e diffuso fosse il cambiamento in atto, e non hanno modificato la narrazione etica con cui avevano infiocchettato la globalizzazione. La caduta è stata libera: prima la Brexit e poi Trump.
Chi ha letto nel referendum britannico e nelle elezioni Usa una rivolta anti-establishment, ha ragione in questo senso: è stata una rivolta contro il discorso pubblico, un rifiuto che ha fagocitato, purtroppo, anche i concetti di destra e sinistra. La situazione americana sarà da seguire, per comprendere se Trump si rivelerà portatore di una diversa ufficialità, e dunque di una nuova morale collettiva, o se resterà qualcosa di completamente differente. Perché al momento la classe dominante – politica, economica e culturale – che si erge ancora a rappresentante di valori positivi, difende la globalizzazione; il protezionista Trump dunque rappresenta l’immorale, la rottura con il dover-essere, ed è perciò il privato elevato a pubblico, il personale, il censurato, il nascosto che si mostra – in una dinamica profondamente postmoderna e nella quale la definizione unpolitically correct affibbiata da più parti al nuovo presidente Usa è estremamente riduttiva. Quanto l’establishment non intenda rinunciare alla propria patente morale è evidente nella reazione dura e immediata, e nella scelta delle parole chiave che – non senza arroganza e spocchia – ha inserito nel suo discorso: ignoranza, populismo, post-verità.
Già il 20 maggio 2016 il Washington Post pubblica un articolo intitolato: “Dobbiamo sradicare gli americani ignoranti dall’elettorato” (2). Un paio di settimane prima, il 3 maggio, con il ritiro degli ultimi due competitor rimasti in corsa, Trump è divenuto formalmente il candidato Repubblicano alla presidenza Usa – poi ufficializzato nella convention di luglio. Lo shock nelle file delle élite, sia Conservatrici che Democratiche, è enorme. “Mai così tante persone ignoranti hanno preso decisioni che avranno conseguenze su tutti noi”, scrive David Harsanyi.
E prosegue: “Se non avete idea di cosa diavolo sta succedendo, avete anche il dovere civico di evitare di sottoporre il resto di noi alla vostra ignoranza. Purtroppo, non possiamo fidarci di voi. Ora, se il voto è un rito consacrato della democrazia, come i liberal sostengono spesso, sicuramente la società può pretendere che i suoi partecipanti rispettino determinate aspettative minime”. L’articolo propone un test di educazione civica per poter accedere alla cabina del voto, e non perdona l’ignoranza di cui accusa gli elettori americani perché oggi, scrive Harsanyi, tutti hanno accesso alle informazioni, e quindi, “se rinunci a informarti, non ti puoi alzare in piedi a dire al resto di noi come vivere la nostra vita. Non votare”. E conclude: “Alcuni di voi mi accuseranno di spacciare rozzo elitismo. Ma io dico che è vero il contrario. A differenza di molti che dipendono dagli elettori ignoranti per esercitare e garantire il loro potere, io mi rifiuto di credere che la classe operaia o le persone più svantaggiate siano meno in grado di comprendere il significato della Costituzione o i profili della governance rispetto all’altezzoso 1% dei cittadini”.
Il 23 giugno 2016, tre giorni dopo il referendum sulla Brexit, Ilya Somin, professore di Legge alla George Mason University, scrive sul Washington Post: “Dopo il voto della scorsa settimana, sono emerse nuove evidenze che suggeriscono che il risultato è stato influenzato da una diffusa ignoranza politica. Nel periodo immediatamente successivo al voto si è registrato un picco in Gran Bretagna nelle ricerche su internet di domande come: Che cosa è l’Unione europea? e Che cosa significa lasciare l’Unione europea? Ovviamente, gli elettori ragionevolmente ben informati avrebbero dovuto sapere le risposte a queste domande prima di andare alle urne, invece che dopo”. “Purtroppo – continua Somin – l’ignoranza degli elettori britannici sui problemi della Brexit è solo un esempio del fenomeno, più ampio, di ignoranza politica razionale […] comune in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, e in tutto il mondo”. E conclude citando il professor Jason Brennan, definendolo uno dei maggiori esperti accademici mondiali sul tema votazioni e conoscenza politica, il quale “sostiene che il caso Brexit suggerisce che non dovremmo permettere che tali decisioni siano prese con un referendum popolare” e che “forse sarebbe stato meglio se la questione Brexit fosse stata decisa dal Parlamento, i cui membri, in media, hanno più conoscenza rispetto agli elettori, e tuttora si oppongono in modo schiacciante alla Brexit” (3).
In casa nostra, subito dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca, Massimo Gramellini su La Stampa se ne esce con “L’ignoranza al potere” (4), e scrive che l’ignoranza è una brutta bestia, che oggi suo nonno, come tanti elettori di Trump, non si vergognerebbe affatto di avere studiato poco, che “anzi trasformerebbe il suo complesso di inferiorità in una forma di orgoglio, non considerando più la cultura uno strumento di crescita economica e sociale, ma il segnale distintivo di una camarilla arrogante di privilegiati”, e conclude che nel voto americano ha dominato il rancore, la ricerca di un capro espiatorio e di un vendicatore per la condizione di disagio che l’ignorante vive.
A ruota Michele Serra, su Repubblica (5), definisce la vittoria di Trump “sintomo solo in parte di nuovi disagi, e in parte molto cospicua della revanche anti-Obama del peggior vecchiume reazionario di una tragica, deprimente, America bigotta, ignorante e maniaca delle armi”.
Il popolo, dunque, è ignorante. Dietro la scelta di questa accusa si muove un piano sapiente e preciso: ignorante è una persona che va educata, non qualcuno a cui si riconosce un legittimo, seppur diverso, punto di vista; l’ignorante non sa, ma una volta istruito, saprà riconoscere la bontà della globalizzazione. Parallelamente, e infilando in un unico pentolone le realtà più disparate, ogni figura politica che si oppone alla globalizzazione è un populista. L’accoppiata ignoranza-populismo vuole produrre l’effetto di una presa a tenaglia, dal basso e dall’alto, al fine di squalificare sia la domanda che l’offerta di un qualsivoglia programma politico critico verso la globalizzazione. Una manovra che trova la sintesi nel concetto di post-verità, che l’ufficialità rappresenta come una trappola infida da cui il popolino, per il suo bene, deve essere paternalisticamente protetto, al pari di un bambino lasciato solo davanti allo schermo televisivo; perché nella Brexit e nelle elezioni Usa si è espresso a tal punto preda delle sue emozioni e personali (ignoranti) convinzioni da mettere in secondo piano la realtà oggettiva, e dirottato da fake-news che non è stato in grado di riconoscere come tali.
La nozione di post-verità dunque, portando all’interno del discorso pubblico una auto-assoluzione per la classe dominante – non ha alcuna colpa nell’essere stata rifiutata, non ha errori su cui riflettere – e una colpevolizzazione dei cittadini-bambini, apre la porta alla pubblica legittimazione della censura dello schermo considerato pericoloso: la rete.
A dicembre sono iniziate le prime mosse preparatorie. Dalla dichiarazione di Mark Zuckerberg che Facebook debba oggi essere considerata una media company, ossia una società con responsabilità editoriale, e non una semplice piattaforma veicolo di contenuti caricati dagli utenti, con la conseguente adozione di un sistema di controllo sui post pubblicati; da Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, che in una intervista al Financial Time ha proposto la creazione di un network europeo anti-bufale coordinato da Bruxelles, “pronto a intervenire rapidamente se l’interesse pubblico viene minacciato” – e non è difficile immaginare che cosa possa essere ritenuto ‘interesse pubblico’ dal potere di Bruxelles – perché “la postverità è uno dei motori del populismo ed è una minaccia che grava sulle nostre democrazie”; per arrivare, nel nostro piccolo giardino, ad Andrea Orlando, ministro di Giustizia, secondo il quale “qui non parliamo di Facebook, qui parliamo del futuro della nostra democrazia […]. Al momento non esiste una legge che renda Facebook responsabile [dei contenuti veicolati sulla piattaforma] ma di questo discuteremo in sede europea prima del G7, per mettere a tema il problema senza ipocrisie”.
Ora: non si tratta di negare l’esistenza dell’ignoranza in parte della popolazione. Il livello culturale è precipitato negli ultimi tre decenni, ed è sotto gli occhi di tutti anche senza scomodare gli studi che parlano della diffusione drammatica dell’analfabetismo funzionale, ossia l’incapacità a capire un testo che si legge. Il punto è come la classe dirigente intende cavalcare l’esistenza dell’ignoranza per mantenersi al potere, proteggere gli interessi del Capitale e preservare le dinamiche della globalizzazione.
Perché finché l’ignorante ha creduto alla sua narrazione, non rappresentava un problema. Anzi: un popolo bue è più facilmente governabile di un popolo istruito. Oggi infatti non intende affatto istruirlo, ma solo rinchiuderlo in un recinto, fare in modo che non abbia possibilità di accesso a un pensiero politico critico verso l’esistente, che diffondendosi, e trovando delegati, possa divenire una nuova morale collettiva.
Da sinistra, la questione fondamentale è una: fare in modo che la nuova morale non sia di destra (6).
1) Cfr. Pierre Bourdieu, Sullo Stato. Corso al Collège de France, Volume 1 (1989-1990), Feltrinelli
2) David Harsanyi, We must weed out ignorant Americans from the electorate, The Washington Post, 20 maggio 2016
3) Ilya Somin, Brexit, Regrexit, and the impact of political ignorance, The Washington Post, 26 giugno 2016
4) Cfr. M. Gramellini, L’ignoranza al potere, La Stampa, 11 novembre 2016
5) Cfr. M. Serra, L’Amaca, La Repubblica, 11 novembre 2016
6) Cfr. Giovanna Cracco, Krisis. Il rifiuto da destra che interroga la sinistra, Paginauno n. 50/2016