Il pensiero unico di un’informazione politica divenuta watchdog dei poteri forti trascina la società civile a dividersi pro o contro Berlusconi e non pro o contro un sistema economico che la sta sempre più impoverendo
“Un giornalista politico, nel nostro Paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell’aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana: è l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene”.
Era il 1959 e Enzo Forcella così iniziava il suo articolo Millecinquecento lettori, pubblicato sulle pagine di Tempo presente, la rivista diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. Da quel giugno di fine anni Cinquanta è trascorso un abbondante mezzo secolo, tra stragi di Stato, il crollo di un Muro, Tangentopoli, neoliberismo privatizzazioni e svuotamento dello stato sociale, fine del sistema proporzionale, fine del Pci, avvento del bipolarismo e di Berlusconi – giusto per restare nel campo politico. Molto insomma è cambiato, ma immutato è rimasto il solido legame familistico tra la politica e l’informazione ‘che conta’, quella che passa per i canali principali e che crea e dirige l’opinione pubblica. Solo il palcoscenico è un altro: il teatro in cui va in scena la recita non è più la carta stampata ma il piccolo schermo.
L’ultimo sondaggio di Demos & Pi su Gli italiani e l’informazione (ottobre 2010) rivela che l’82,9% dei cittadini si tiene quotidianamente informato attraverso la televisione e appena il 33,9% leggendo i giornali; tra i cosiddetti ‘programmi d’informazione’ Ballarò riscuote la più alta percentuale di fiducia (il 53,2%), a seguire Report (48,4%) e Annozero (46,8%). Tralasciando il buon programma di Milena Gabanelli – che fa giornalismo d’inchiesta e non analisi politica – sul podio troviamo due talk show che prevedono la presenza in studio di giornalisti, chiamati a dibattere sulla situazione del Paese in un confronto con esponenti della politica, dei sindacati, del mondo imprenditoriale. Non sarebbe necessario analizzare nel dettaglio nominativi e frequenza di apparizione per comprendere che sono sempre gli stessi editorialisti politici a partecipare ai due programmi – è sufficiente guardare qualche puntata – ma i numeri sono comunque rivelatori.
Prendendo a esame i primi quattro mesi del 2011, Maurizio Belpietro (direttore di Libero) colleziona cinque presenze ad Annozero; Mario Sechi (direttore de Il Tempo) quattro a Ballarò; Massimo Giannini (vicedirettore di Repubblica) cinque da Floris e una da Santoro; Nicola Porro (vicedirettore de Il Giornale) tre a Ballarò e quattro ad Annozero. Senza dimenticare che i conduttori, Giovanni Floris e Michele Santoro, sono anch’essi giornalisti.
I dati relativi a Porta a porta, Matrix, Otto e mezzo e L’infedele – programmi meno seguiti, per quanto dotati di un loro peso nell’influenzare i cittadini – non modificano il panorama: Belpietro e Sechi dibattono anche a Porta a porta, Porro anche a Otto e mezzo (che tuttavia sembra prediligere giornalisti ‘confindustriali’ – Massimo Franco del Corsera e Stefano Folli de Il Sole 24ore sono di casa da Lilli Gruber), non manca Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, presente un po’ dappertutto e via di questo passo. Un ristretto numero di giornalisti, insomma. D’altra parte, la famiglia è un luogo chiuso per antonomasia, e al suo interno sviluppa legami caratterizzati da rapporti di do ut des: i pochi lettori che contano del giornalista sono gli stessi che lo accreditano a scrivere, parlare, dibattere di politica. Non è far torto ai personaggi principali della recita dire che non si arriva ad avere quel ruolo per capacità critica, spiccate doti di analisi e ancora meno perché si è in grado di leggere gli avvenimenti da angolature insolite e controcorrente; i giornalisti-protagonisti sono sotto gli occhi di tutti i telespettatori, a ognuno il suo giudizio.
Tra il 1959 di Forcella e oggi, tuttavia, esiste una differenza politica di non poco conto. L’articolo del giornalista nasceva in seguito a una vicenda personale, ampiamente nota: inviato dal quotidiano La stampa a seguire il congresso del Psi a Napoli, egli manda regolarmente i suoi testi alla redazione, la quale regolarmente li censura. Nei suoi articoli Forcella interpreta positivamente la corrente autonomista di Nenni, che vuole allontanarsi dal Pci e aprire la via a un governo di centro-sinistra con la Dc; eventualità politica non gradita alla direzione del giornale (ossia alla proprietà, gli Agnelli) che quindi vuole mostrare il Psi come incapace di sganciarsi dal partito comunista. Al ritorno in redazione, dopo quattro giorni di congresso e quattro articoli non pubblicati, Forcella rassegna le dimissioni.
Sei mesi dopo pubblica la sua ‘denuncia’ – Confessioni di un giornalista politico era il sottotitolo del pezzo – che provoca un ampio dibattito. Antonio Ghirelli, noto giornalista dalla lunga carriera istituzionale, la definirà una testimonianza dalla “carica catastrofica” perché “la deposizione contro la scarsezza di ideali del mondo occidentale o contro l’immoralismo inerte dell’ambiente italiano […] rimbalza come una prova a favore del comunismo”.
Il ‘pericolo rosso’ imbavagliava quindi, o costringeva all’autocensura, il giornalismo politico; non era permesso fare informazione al di fuori delle ‘due chiese’, la Dc e il Pci. Ma almeno esistevano due chiese, ed è questa la differenza di non poco conto rispetto all’oggi.
Belpietro, Sechi e Porro sono a favore di Berlusconi, Giannini, Floris e Santoro sono contro Berlusconi. Le alternative possibili sono sempre solo due, ma non rappresentano più due chiese, bensì una. Sostenere il ‘dio’ o abbattere il ‘mostro’ non significa infatti essere portatori di ideologie politiche tra loro contrapposte, destra e sinistra, capitale e lavoro, come un tempo la Dc e il Pci. Anzi, l’antiberlusconismo è funzionale a coprire il salto della barricata operato dal Pci a partire dai primi anni Novanta, quando ha abbracciato il neoliberismo e buttato a mare i lavoratori per proporsi ai poteri economici del Paese come affidabile forza di governo. Senza Berlusconi il Pd avrebbe dovuto trovare qualcos’altro con cui differenziarsi dalla destra agli occhi dei suoi elettori, e la ricerca sarebbe stata vana.
Il risultato è che oggi esiste una sola ideologia, e di conseguenza una sola informazione politica ammessa alla recita famigliare sul palcoscenico.
La rotazione delle facce, infatti, non deve indurre a parlare di pluralismo informativo. L’audience televisiva ha le sue regole, diverse da quelle della carta stampata: lo stesso volto, dopo un po’ stanca. E quindi non è raro che a una nuova stagione del talk show spesso corrisponda qualche viso sconosciuto. Ma: stessa faccia, stessa razza.
Il nuovo giornalista è pescato dal bacino dei soliti principali quotidiani, se fa capolino sulla scena è per restarci per qualche tempo e la sua chiave di lettura degli avvenimenti politici/economici corrisponderà all’unica ideologia esistente.
A farne le spese è la società civile. Sempre più ignorante, sempre più inconsapevole, essa reagisce come il cane di Pavlov a una finta opposizione da stadio che la stimola a dividersi a favore o contro Berlusconi e non a favore o contro un sistema economico basato sullo sfruttamento sempre più feroce dei lavoratori, lo svuotamento dello stato sociale, l’impoverimento progressivo della gran parte della popolazione a favore dell’arricchimento di pochi. Di questo, l’informazione è responsabile, perché ha abdicato alla sua funzione sociale.
Uno dei princìpi cardine del giornalismo anglosassone è il principio di responsabilità.
Che in inglese non è indicato con la semplice parola responsability ma con stewardship, termine molto più complesso nei significati: include i concetti di gestione e direzione, e allude a quello di amministrazione fiduciaria. Significa assumere un impegno complessivo, una responsabilità sociale, nei confronti dei cittadini. Responsabilità che non si esaurisce con il solo atto di informare, rendendo noti avvenimenti, dati, notizie, ma di cui è parte integrante, dovere ineludibile, l’interpretazione.
Oggi, in Italia, non esiste più interpretazione.
Quando l’informazione si limita alla cronaca giudiziaria – per mettere in luce la mela marcia ed espellerla dal sistema sano, per sostenere o attaccare la magistratura – significa che il giornalismo è divenuto il watchdog, il cane da guardia, non della società civile ma della classe sociale dominante, del Capitale: anche se a volte colpisce i singoli capitalisti, non mette mai in discussione il Sistema. Strumento di divulgazione del pensiero unico, l’informazione si è fatta garante dell’unipolarismo politico e contribuisce all’immutabilità della struttura economica – la medesima che detiene la proprietà dei principali quotidiani e che quindi stipendia gli stessi giornalisti. All’interno della famiglia, infatti, gli industriali pesano in realtà molto più di quanto il breve accenno di Forcella lasciava intendere.
Certo occorre chiedersi se i giornalisti di oggi possiedano quel bagaglio culturale che consentirebbe loro di interpretare le dinamiche politiche, sociali ed economiche; un bagaglio che
possedevano molti dei loro colleghi del dopoguerra, fino agli anni Ottanta.
Con il Muro non è crollato solo l’antagonista politico del capitalismo, ma un’intera cultura. L’unica che – pur senza qui invocare soluzioni politiche che si sono rivelate fallimentari nella pratica del socialismo reale, pur senza invocare la rivoluzione – partendo da Marx, ha sviluppato un’analisi economica del sistema capitalistico evidenziando le logiche di sfruttamento del lavoro e della creazione del profitto, le cause delle inevitabili crisi cicliche, le dinamiche feroci grazie alle quali il Sistema esce, dopo ogni crisi, più oligopolistico e quindi rinvigorito – lasciando alle proprie spalle una massa sempre maggiore di persone in miseria.
Quella chiave interpretativa che apparteneva al Pci e scaricata dal Pd insieme ai lavoratori, e che comprendeva un ineludibile conflitto di classe: interessi del capitale e interessi del lavoratore non potranno mai andare nella stessa direzione.
Lo sa bene Confindustria, che chiede sempre più a gran voce una riforma del mercato del lavoro; lo sa bene Marchionne, che senza aspettare la politica la sua ‘riforma’ l’ha già fatta. Non lo sanno più i lavoratori, rimbecilliti dal pensiero unico divulgato dalla recita famigliare che li vuole non contrapposti ma uniti ai padroni; che ripete loro come un mantra che occorre fare dei sacrifici, accettare il precariato, salari da fame, rinunciare ai diritti acquisiti con le lotte operaie (tra cui il dirit to di sciopero), i sacrifici in nome della nazione, perché ‘non c’è altra via’, non c’è altra soluzione per uscire dall’ennesima crisi economica piovuta dal cielo.
“Arriva un momento, generalmente molto presto, prima ancora di passare da praticante a professionista” scriveva ancora Forcella, “in cui il giornalista si sente un piccolo Dio, un essere privilegiato che può seguire tra le quinte, insieme ai pompieri di servizio, la vicenda che si va volgendo sulla scena. Gli sembra allora di aver capito tutto e guarda con un sorriso di superiore compatimento quelli che stanno in platea e si appassionano al dramma e soffrono o gioiscono per tutto ciò che sembrano sentire i protagonisti. […] Molti giornalisti, anche di chiara fama, si fermano a questo stadio. […] Ma siamo ancora alle elementari”. La comprensione della macchina politica si raggiunge pienamente solo quando ci si rende conto “che in realtà nessuno sta fuori e che la rappresentazione utilizza anche il personale dietro le quinte: in qualità di comparse, elettricisti, addetti agli effetti scenici”.
Da un punto di vista, qualità e profondità del bagaglio culturale degli attuali giornalisti non è faccenda di poco conto, perché investe la loro buona o cattiva fede nell’interpretare la recita; dall’altro diventerà presto questione da preti, dato che certamente le nuove leve del giornalismo non lo possiederanno. E allora saranno davvero tutte comparse inconsapevoli, e sarà la fine dei giochi.
I futuri giornalisti sono nati negli anni Ottanta. Sono figli del pensiero unico.
Basta pronunciare il nome di Marx per vedere occhi sgranati: roba vecchia, antiquata, ideologia politica che ha fatto il suo tempo. Sanno ben poco degli anni Settanta, della strategia della tensione, delle lotte operaie; per loro il precariato è la normale condizione lavorativa.
Se ne lamentano, ma si adattano. Le loro energie, i loro sforzi, sono volti a diventare giornalisti professionisti. E in Italia non è facile, in effetti.
È l’unico Paese democratico in cui esiste un Ordine dei giornalisti, istituito in epoca fascista, nel 1925, e confermato con ben poche variazioni sostanziali da una legge del 1963. Nato con lo scopo di controllare la stampa, il sindacato dei giornalisti ha deciso di mantenerlo anche dopo la caduta del regime, e ancora oggi lo difende a spada tratta.
Se un giovane giornalista aspira a inserirsi in una casta anziché combatterla, figuriamoci quale concetto potrà mai avere della responsabilità sociale del giornalismo. Senza tenere conto che, all’Ordine, si aggiunge la discriminazione economica che già sta alla base dell’accesso al mestiere di giornalista: i pochi master presenti in Italia hanno costi che vanno dai 10.000 euro dell’università di Urbino ai 16.000 del la Cattolica di Milano, per un biennio.
Raggiunta l’agognata meta, l’armamentario di norme e codici che regoleranno il suo fare informazione non lo aiuteranno a comprendere che cosa significhi essere responsabile nei confronti dei cittadini. Per ‘libertà di stampa’, in Italia si intende il diritto del giornalista di informare; né l’articolo 21 della Costituzione, né la legge del ’63, né il codice deontologico dell’Ordine, né la Carta dei doveri dei giornalisti scritta nel 1993 cita il diritto del cittadino a essere informato. L’informazione è concepita come diritto passivo della collettività e diritto attivo del giornalista.
Nei Paesi anglosassoni – ma anche in quelli europei – le varie Costituzioni e leggi, i vari codici etici scritti dalle associazioni (non Ordini) di editori, direttori e giornalisti, prevedono espressamente il diritto del cittadino all’informazione.
La Dichiarazione di principi della Società americana dei direttori di giornali al primo posto afferma che “il diritto del pubblico a conoscere gli eventi di importanza e interesse generali è la missione essenziale dei media. La stampa ha una responsabilità speciale nei confronti dei lettori, essere un cane da guardia vigile dei loro legittimi interessi pubblici. Lo scopo primario di raccogliere e diffondere notizie è quello di servire il bene comune, informando le persone e permettendo loro di esprimere giudizi e formarsi un’opinione sulle questioni del loro tempo”; al secondo punto si dichiara che “la libertà di stampa appartiene al popolo e deve essere difesa contro le usurpazioni o gli assalti da qualsiasi parte, pubblica o privata”; e infine, “la stampa americana è stata fatta libera per informare, per servire come sede di dibattito e per esercitare uno scrupoloso controllo sulle forze al potere nella società”.
Il codice etico dell’Associazione dei giornalisti americani afferma che “i giornalisti fanno rispettare il diritto di diffondere opinioni impopolari e il privilegio di concordare con la maggioranza”.
Quando riconoscersi nell’opinione maggioritaria è considerato un privilegio concesso in nome della libertà di pensiero e non un diritto né la normalità, questo la dice lunga sulla funzione critica esercitata dall’informazione americana nei confronti del potere.
Parole, certo. I codici etici lasciano lo spazio che trovano, in ogni Paese. Ma anche a parole, l’informazione in Italia è un’altra cosa.