Avevo appena comprato due libri. Emanavano ancora un buon profumo di carta stampata. Si trattava di: Noi Soggetti Umani di Alain Touraine (Il Saggiatore, 2017) e Retrotopia di Zygmunt Bauman (Laterza, 2017). Nell’accingermi alla non facile impresa di prendere appunti in vista di una eventuale recensione, una domanda mi ha subito bloccato: è ammissibile che un lettore comune, che nulla sa di sociologia, si permetta di ‘recensire’ saggi sociologici? Dopo averci rimuginato su per un po’, sono giunto alla seguente conclusione: se il saggio in questione è scritto da accademici per altri accademici, il lettore comune farebbe bene a tenere le proprie riflessioni per sé. Se invece il saggio in questione è di carattere divulgativo, vale a dire diretto al lettore comune, allora sì, è lecito che egli commenti ciò che era indirizzato espressamente a lui.
Soddisfatto per aver escogitato questa giustificazione, eccomi qua con la penna in mano. Un’unica avvertenza: la mia competenza in fatto di scienze umane è prossima a zero. Le opinioni che qui riporto sono quindi il frutto più della mia ignoranza che non della mia competenza e del fatto che l’occhio con cui osservo le cose è quello di chi guarda più ai fatti reali che alle costruzioni verbali e a quelle teoretiche.
Due parole essenziali sugli autori. Alain Touraine (1925) è un sociologo francese. Novantadue anni compiuti, si occupa di sociologia dei movimenti sociali e politici, in modo particolare in relazione a quella che egli ha chiamato la “società post-industriale” (che è quella che altri chiamano società post-moderna). Zygmunt Bauman (1925-2017), è stato un sociologo dai vasti interessi: ha studiato la società moderna e post moderna (cui ha attribuito l’aggettivo “liquida”) alle prese con il consumismo e la globalizzazione, occupandosi in modo particolare delle ragioni morali dell’agire sociale.
Una primissima osservazione è che, forse, occuparsi di sociologia fa bene alla salute: i due arzilli novantenni danno e hanno dato del filo da torcere a sociologi e politologi ben più giovani. Mi ero recato in libreria per comprare il saggio di Touraine del quale avevo letto una recensione dalla quale m’era parso di capire che egli, osservando la deriva individualistica della società contemporanea, cercasse in qualche modo di ‘sdoganare’ il fenomeno, cavalcando la tigre guardando a una possibile evoluzione post sociale della società. Il mio stato d’animo era quasi furente: volevo capire meglio di che cosa parlasse, davvero, il saggio.
Nell’atto di acquistarlo, l’occhio mi è caduto sul saggio di Bauman (la cui prossimità con quello di Touraine nello scaffale della libreria non era casuale) che, per gli argomenti trattati, mi pareva non troppo lontano da quello di Touraine. Detto fatto, mi sarei imposto una lettura parallela.
Effettivamente, i due saggi osservano – se pur con occhi assai diversi – il medesimo fenomeno: la deriva individualistica della società contemporanea. Touraine è più radicale: avendo decretato in saggi precedenti “la fine del sociale e delle società”, egli ritiene che oggi siamo e ci comportiamo “come attori in un teatro vuoto”.
Dopo avere letto due volte entrambi i saggi (una prima volta per capirci qualcosa e una seconda volta per analizzarne le convergenze e le divergenze) posso affermare che i due sociologi analizzano effettivamente il medesimo fenomeno. Le loro analisi convergono e divergono ritmicamente, quasi si trattasse di una danza rituale sul tema della società. Esse convergono nell’affrontare punti simili; divergono ampiamente nei modi e nei punti di riferimento delle rispettive analisi; divergono parecchio nelle proposte ma, in qualche modo, finiscono di nuovo per convergere sui punti di domanda riguardo al futuro.
Due parole rapidissime ma doverose sul modo e sui riferimenti cui gli autori attingono per sviluppare il rispettivo pensiero. Uno, Touraine, cita moltissimi luoghi (in riferimento a movimenti sociopolitici locali) ma cita un numero limitato di autori: sostanzialmente egli cita se stesso, suoi precedenti articoli e saggi. Ripete frequentemente “sono stato il primo a…”, in una irritante quanto indisponente esaltazione narcisistica di sé. Al contrario, Bauman cita un numero davvero notevole di autori: egli fa continuamente riferimento al pensiero di altri, come se egli fungesse da collettore e organizzatore di idee partorite dalle menti di altri. In realtà, trattasi dell’umiltà di chi sa, di chi vede la cultura come impresa collettiva e sa distillare le parole altrui in modo che si adattino al proprio pensiero: come lo storico costruisce la storia, Bauman costruisce la propria impalcatura concettuale scegliendo le citazioni altrui consone al proprio modo di vedere il mondo.
Ma andiamo con ordine ed entriamo nel merito. Entrambi i saggisti analizzano ampiamente i punti che vado a elencare ordinatamente qui di seguito.
- 1. Il passato come nostalgia. Mentre per Bauman la nostalgia è insieme un senso di perdita e di spaesamento (proprio nel senso etimologico di algia-dolore per la casa lontana) e un desiderio di rifugio e di ritorno verso il ventre materno, per Touraine essa è una perdita (una sorta di età dell’oro perduta, cui si può guardare, però, per recuperarne i valori fondanti).
- 2. L’individualismo. Per entrambi, l’individualismo è una risposta all’evolvere della società, all’evoluzione del capitalismo, del consumismo, della globalizzazione. Ma mentre per Bauman l’individualismo è una sorta di reflusso verso il sé (come un’onda che si spinge troppo avanti sulla battigia e poi torna indietro riportando con sé tutti i sassolini che prima erano stati sospinti in avanti), per Touraine l’individualismo è una risposta agli eventi esterni che si trasforma in egoismo razionale, una sorta di una forma etica ideologica non molto diversa da quella proposta a metà del Novecento da Ayn Rand, filosofa che però Touraine non cita mai, mentre Bauman lo fa.
- 3. La società. Trattandosi di saggi sociologici, la ‘società’ è ovunque in entrambi ma, mentre Touraine ne ha già decretato la fine e guarda a qualcosa altro – tuttora senza forma e senza sostanza – che dovrà sostituirla quando essa avrà cessato di dibattersi nella sua lunga agonia, per Bauman la società – liquida e adattabile alle contingenze – si evolverà in forme a cui bisognerà dare nuova sostanza, e questo è compito degli uomini.
- 4. Lo Stato sovrano. Per Touraine, sotto i colpi del capitalismo globale e degli imperialismi supraterritoriali e supranazionali, lo Stato sovrano è un’entità in via di disfacimento: gli uomini dovranno guardare ad altre forme di organizzazione e a valori universali di riferimento, molto forti e vincolanti, per ricostituire una nuova categoria sociale. Per Bauman, lo Stato sovrano sta perdendo la propria identità perché sta perdendo i propri confini: la globalizzazione dei mercati e del consumo, delle idee, della finanza, ecc. stanno delocalizzando i confini e, con essi, anche la politica e il potere stanno perdendo i propri punti di riferimento locali. E non è solo lo Stato sovrano ad avere una crisi di identità, anche le persone sono spaesate ed è per questo che tendono a retrocedere (Retrotopia, appunto) verso aggregazioni di piccole dimensioni, quasi tribali, dove ritrovare una sorta di identità personale e condivisa.
- 5. I valori universali di riferimento. Su questo punto, Bauman non fornisce indicazioni precise: si limita ad affermare che il reflusso verso identità locali-tribali, approfondendo i solchi e rimarcando le differenze, tenderà a escludere e non potrà mai costituire la base per un rinnovamento sociale inclusivo. Ciò di cui l’umanità ha bisogno oggi, e avrà ancora più bisogno domani, è “l’integrazione umana al livello dell’umanità intera”. Il concetto è bello quanto vago. Touraine, al contrario, ha le idee molto chiare e propone tre – dicasi tre – valori (che egli preferisce chiamare diritti) universali: libertà, uguaglianza, dignità. Per chi avesse qualche sensazione di déjà vu, ebbene sì, la sensazione è giusta: Touraine si richiama esplicitamente a quel grido Liberté, Égalité, Fraternité che echeggiava forte e determinato sotto le antiche mura della Bastiglia (e non solo), il 14 luglio 1789.
Se al primo punto di questo breve elenco ho indicato la nostalgia, effettivamente, una ragione c’è. Per carità, nulla da dire sul contenuto, ma trovo francamente sorprendente che un intellettuale così originale si ritrovi a corto di proposte tanto da voler riciclare in chiave contemporanea, sostituendo il concetto più moderno di dignità a quello evidentemente antiquato di fraternità, il motto della rivoluzione francese. Per questo, parlando più oltre della proposta di Touraine, mi riferirò a essa chiamandola RevFranc 2.0 (acronimo di Révolution Française due-punto-zero). Vale infine la pena di ricordare che per Bauman sono centrali i ‘valori’ e nomina raramente i ‘diritti’, mentre Touraine mette al centro i ‘diritti’ e considera tali alcuni concetti che per Bauman hanno senso come ‘valori’.
Chiariti i punti salienti, qui di seguito qualche spigolatura tra i due saggi.
Nostalgia
A proposito della nostalgia, Touraine guarda al passato come a un’età dell’oro dove, per esempio, sono recuperabili come ‘diritti’ quei valori di rispetto e di conservazione che appartengono, di fatto, agli ideali di matrice ecologista. Afferma, per esempio, Touraine: “È impressionante constatare il ritorno di un concetto che sembrava appartenere a un passato lontano: i diritti della natura, degli animali, delle piante. Nel Medioevo cattolico erano riconosciuti […] La natura creata da Dio era sacra, come la totalità del suo creato” (p. 92). L’autore francese considera che gli ideali laici del rispetto della natura siano stati stati recuperati dall’antica età dell’oro e trasformati in ‘diritti’. In Touraine, questa idea del recupero di diritti e di valori da un lontano passato è un fil rouge che attraversa l’intero suo saggio e che io non esito a definire, a volte, francamente pretestuoso.
Bauman, al contrario, non pesca valori o diritti nel passato: in qualità di analista, osserva il mondo e non fa altro che registrare l’atteggiamento nostalgico di parte della società, una sorta di reflusso che porta con sé non tanto valori da recuperare, bensì rischi da non sottovalutare. Utilizzando una riflessione di Svetlana Boym, linguista e letterata non a caso autrice di un volume intitolato The Future of Nostalgia, afferma: “Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia. […] Un’epidemia globale di nostalgia. […] Il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la causa vera con quella immaginaria” (p. XII).
Individualismo
Anche a proposito dell’individualismo – tema centrale delle due analisi sociologiche – Touraine e Bauman osservano e giudicano il fenomeno in maniera alquanto diversa. Touraine sembra accettare l’individualismo come una componente umana universale arrivando a concepirla come valore supremo: “Bisogna considerare la possibile unione tra individuale e universale” (p. 229); […] “I bisogni individuali sono compenetrati nella cultura collettiva e l’individualismo autoconsapevole è un valore supremo” (p. 18). Con la fine del sociale, “criteri di giudizio e comportamentali formulati in termini sociali, di interesse generale e di bene comune vengono sempre più rifiutati” (p. 45) […] e “senza più un’ideologia del progresso a fare da punto di riferimento ideologico, l’individualismo è diventata una dimensione caratteristica del mondo globalizzato, una strategia di affermazione diretta senza intermediazioni di matrice sociale” (p. 59).
Per Touraine, con la modernità (vale a dire con la rivoluzione francese), l’individualismo viene riconosciuto come soggetto portatore di ‘diritti’. Egli chiama “soggettivazione” tale processo di acquisizione consapevole di diritti: “Dalla rivoluzione francese in poi, la soggettivazione fa riferimento alla legittimità propria del soggetto ai diritti dell’uomo […] Con l’idea di soggettivazione, l’uomo si colloca al di sopra del cittadino e i suoi diritti diventano il fondamento di ogni critica all’ordine sociale” (p. 104). È da questa idea di soggettivazione che egli ricava l’idea che i “diritti” debbano (o possano) essere gerarchicamente superiori al “diritto” (inteso come leggi), ma su questo spinoso punto si tornerà più oltre. Una volta trovata la sua ragion d’essere, nel momento in cui il sociale ha perso appeal come punto di riferimento per i bisogni delle persone, l’individuale ha finito con prevalere: “Mentre alcuni mutamenti rapidi e profondi distruggono le antiche concezioni di bene comune, di virtù, e di doveri nei confronti della società, l’individuale e il singolare si impongono come criteri di definizione degli interessi” (p. 55).
Per Bauman, invece, l’individualismo è un comportamento e una prospettiva che emerge come ricetta o come risorsa per colmare i vuoti ‘sociali’ provocati dei cambiamenti intervenuti tanto a livello di potere/poteri (capacità di fare) che a livello di politica (possibilità di decidere). Citando rispettivamente lo storico e scrittore Ronald Aronson (1938) e il sociologo tedesco Ulrich Beck (1944-2015), egli afferma infatti: “È in corso un movimento tellurico che sposta le aspirazioni e le responsabilità dalla società in generale ai nostri universi individuali” (p. 117); […] “Ciascun individuo cerca di costruirsi soluzioni individuali di fronte ai problemi della società, cercando poi di metterle in pratica sulla base delle proprie capacità individuali. L’obiettivo non è più una società migliore, ma il miglioramento della propria posizione individuale nell’ambito di quella società. Al posto dei premi comuni per gli sforzi collettivi di riforma sociale, restano solo bottini individuali” (p. XXIII).
Se Touraine sembra trovare, fin dall’origine della modernità, qualche giustificazione all’individualismo attribuendogli una sorta di funzione etica e funzionale quale stimolo per una rinascita della “capacità di agire e di creare” (p. 68), Bauman diagnostica – proprio nell’evoluzione di quella stessa modernità cui accenna Touraine – una vera e propria patologia sociale alla quale non esita a dare un nome alquanto appropriato, narcisismo: “A un certo punto, lungo il cammino che dall’utopia della prima modernità (positiva, esuberante, assertiva e fiduciosa) conduce all’attuale retrotopia (diffidente, abbattuta e rassegnata), Pigmaglione (innamorato della statua di Gatalea) ha incontrato Narciso (invaghito della propria immagine)” […] “Il narcisismo, una volta disturbo della personalità, è diventato un disturbo della società e, purtroppo, sembra voler diventare una normalità emergente: un paesaggio sociale contemporaneo” (p. 122-4).
Società, Modernità, Stato sovrano
In entrambi i saggi i concetti di “società”, “modernità”, “Stato sovrano”, “valori” e “diritti” si intersecano tra loro in maniera varia e articolata. Touraine, per esempio, si rivolge nostalgicamente all’origine della modernità (una modernità che comprende la società industriale, la nascita di movimenti democratici, politici e operai, la rivoluzione francese, ecc.) come a un’epoca portatrice di valori universalistici, mentre le società post moderne (o la post società) “non ripongono più le loro speranze in grandi cause collettive” (p. 53), “non vengono più percepite come società ma come mercati” (p. 54), e tendono “a distruggere i valori della modernità per rinforzare i privilegi di coloro che detengono il potere” (p. 21).
Su questo punto, Bauman non è molto lontano dalle riflessioni di Touraine. Anch’egli, contrapponendo la società universalistica e collettiva frutto della modernità alla società post moderna sempre più centrata sull’individuo, afferma che “nella nostra società completamente individualizzata le alleanze e le coalizioni sono ad hoc, volatili, fugaci, conflittuali e di vita sempre più breve” (p. 95): gli ideali ad ampio respiro e i valori sociali dati per permanenti sono sostituiti da effimeri obiettivi individuali, spesso fini a se stessi.
Anche a proposito del concetto di Stato sovrano e del suo ruolo nel mantenimento di una società aggregata attorno a valori e a obiettivi condivisi, vi è una certa corrispondenza fra i due autori, anche per quanto riguarda precisi punti di riferimento storici. Entrambi, per esempio, fanno esplicito riferimento al motto Cuius regio eius religio e al trattato di Westfalia del 1648 nel quale, dopo una lunga guerra di tutti contro tutti (leggi il riferimento a Hobbes in entrambi i saggi), l’Europa venne suddivisa in varie entità statuali locali all’interno delle quali – almeno in teoria – i valori, i diritti, le identità assumevano connotati riconosciuti e socialmente condivisi. Per entrambi gli autori, la cornice dello Stato sovrano o, con altre parole, della modernità, era una cornice che forniva punti di riferimento in certo qual modo stabili.
Al contrario, lo stato post moderno con tutte le sue tensioni verso una globalizzazione che fa perdere i punti di riferimento, è generatore di disagio, confusione e angoscia pressoché permanenti. Attraverso una citazione attinta da Benjamin Barber, politologo americano, Bauman descrive la situazione in un modo sul quale anche Touraine potrebbe concordare: “Lo Stato nazionale – ultimo (per ora) di una lunga serie di sistemi integrati nati per svolgere un’azione collettiva concertata – ha assolto più o meno decorosamente il compito per cui era stato progettato e adattato, al servizio dell’indipendenza e dell’autonomia; ma ogni giorno che passa dimostra la sua assoluta inadeguatezza ad agire efficacemente nell’attuale condizione di interdipendenza planetaria degli uomini (globalizzazione). […] Tutto questo ha condotto a una ridefinizione della linea che separa ‘noi’ da ‘loro’” (p. 160-1).
La globalizzazione, sostituendo paradossalmente valori universali con barriere identitarie, ha generato un disagio che lo Stato sovrano contemporaneo fa fatica a gestire. Il risultato è una fuga all’indietro, una nostalgia per i secoli d’oro e per i valori stabili, un ritorno ai valori della tribù, una nostalgia del ventre materno, un reflusso verso l’individualismo radicale, una paura del progresso e del futuro che indicherei, se me lo si può concedere, col nome di horror temporis futuri.
Valori, attori, diritti, identità, proposte
Dopo le rispettive analisi dello stato dell’arte riguardante le dinamiche evolutive della società contemporanea – quella occidentale ma non solo – riguardo alla quale gli autori dei due saggi manifestano alcune convergenze e molte divergenze, si arriva al dunque, vale a dire al momento delle conclusioni e delle proposte sul che fare? Qui, i due autori apportano alcune considerazioni aggiuntive che consolidano e demarcano più chiaramente i rispettivi orizzonti sociologici, all’interno dei quali essi cercano una soluzione a uno stato delle cose dai connotati ‘negativi’ – quello della deriva individualistica della società contemporanea – al quale desidererebbero porre rimedio.
Alain Touraine cerca un “attore”, portatore e “creatore” di un cambiamento attraverso il quale si possa far “risorgere il pensiero sociale” (p. 76) e costruire “un nuovo tipo di vita sociale” (p. 56). L’attore, nell’idea di Touraine, non è un “agente sociale”, per sua natura sottomesso a norme: egli è colui che “agisce per affermare il suo diritto di agire” (p. 141), […] un diritto che gli è riconosciuto assieme a quelli che il sociologo francese definisce “diritti universali fondamentali: libertà, uguaglianza, e dignità”, secondo il modello inventato “alle radici della modernità” (Rev- Franc 2.0) (p. 91). Da questo punto in poi, vale a dire dal legittimo quanto non particolarmente innovativo recupero dei valori fondanti della rivoluzione francese, il pensiero di Touraine si fa tortuoso e alquanto discutibile (dal mio personalissimo punto di vista).
Egli afferma che i suddetti diritti sono “diritti a priori”, dovuti all’uomo in quanto essere umano, vale a dire “nella sua qualità di creatore […] capace di trasformare il mondo” (p. 97), […] e di “dare senso alle proprie esperienze” (p. 137). A mio avviso, qui Touraine esagera proprio, attribuendo all’essere umano una sacralità che sembra rifarsi direttamente alla Bibbia che non alla tradizione sociologica. Egli sembra precipitarsi in quello che chiamerei ‘uomismo’, intendendo con tale termine una forma di ideologizzazione dei diritti umani. In tutto ciò, vedo i tratti inaccettabili di un antropocentrismo narcisistico fuori contesto, quasi egli voglia trovare giustificazioni metafisiche al proprio ragionamento sociologico.
E questa deriva prosegue anche oltre. Non solo egli chiama ‘diritti’ quelli che io indicherei come ‘valori’ ma, attribuendo a tali ‘diritti’ il valore fondante di “un nuovo tipo di vita sociale”, li pone “al di sopra delle regole dell’organizzazione sociale” (p. 269) e “al di sopra di tutte le leggi, comprese quelle votate da un popolo sovrano” (p. 60-1). In una sorta di esaltazione rivolta a una (ri)fondazione sociale, Touraine sembra dimenticare che, stando alla teoria, il ‘diritto’ sostiene i ‘diritti’ e li difende (sempre in teoria) da chi fosse intenzionato a calpestarli. Questa questione, si presterebbe tuttavia a molte e diverse interpretazioni e non è questo il tempo e il luogo per discuterne.
Nelle sue riflessioni conclusive Bauman parte da prospettive diverse. Egli parte da quel senso di libertà e di pace fornito dai confini (fisici e metaforici) e dalle leggi del proprio territorio, della polis, dello Stato sovrano: quel luogo della memoria in cui la gente poteva “assaporare con piacere le comodità delle nicchie di legge e ordine” (p. 10). Con la globalizzazione – venendo quindi a mancare la polis – il “popolo” di un luogo si trasforma in una folla di “clienti” deterritorializzati, soggetti alle influenze dei media e della rete: “individui, azioni, eventi non più affidati alla condivisione di uno stesso luogo” (p. 19-20).
La necessità di sopravvivere in una situazione di “omnia contra omnes” porta al ritorno della logica della tribù, ove “ognuna delle parti in conflitto rinuncia al tentativo di convincere l’altra e dove la divisione tra ‘noi’ e ‘loro’ e tra ‘io’ e ‘gli altri’ rende ardua ogni conciliazione. L’individuo afferma da sé la propria identità contro i legami, gli obblighi e gli impegni sociali” (p. 42-5). “I fenomeni del ‘ritorno alla tribù’ e del ‘ritorno al grembo materno’ – due grandi affluenti del fiume in piena del ‘ritorno a Hobbes’ – sgorgano sostanzialmente dalla stessa fonte: dal terrore del futuro” (p. 153).
A differenza di Touraine, Bauman non offre soluzioni, slogan o scorciatoie tipo RevFranc 2.0: anzi, mette in guardia sulla difficoltà della ricostruzione e sui rischi perigliosi della mancata ricostruzione di un rinnovato tessuto sociale su base globale. Egli conclude il suo saggio con le seguenti considerazioni: “Per arginare le correnti del ritorno – a Hobbes, alla tribù, al grembo materno – non ci sono scorciatoie che portino a risultati diretti, rapidi e facili.
Il compito che abbiamo di fronte – innalzare l’integrazione umana al livello dell’umanità intera – si rivelerà arduo, faticoso e impegnativo come mai prima d’ora. Dobbiamo prepararci a un lungo periodo di domande più che di risposte, di problemi più che di soluzioni, in bilico tra il successo e il fallimento. In caso di sconfitta, essa sarà definitiva: possiamo scegliere se prenderci per mano
o finire in una fossa comune” (p. 168-9). Se devo scegliere tra chi mi propone utopiche soluzioni preconfezionate a situazioni la cui complessità è quasi insondabile e chi mi propone domande e dubbi, bene, io scelgo il secondo.