Perry Anderson
Sviluppo storico dell’istituzione meno conosciuta della Ue, tribunale con un’agenda che non corrispondeva alle intenzioni dei suoi fondatori
L’intervento che segue, a firma di Perry Anderson (storico accademico e saggista britannico), è stato pubblicato sulla London Review of Books, Volume 43, n. 1, gennaio 2021 (1) e affronta, da un punto di vista storico, le cinque istituzioni principali dell’Unione europea: la Corte di Giustizia, la Commissione, il Parlamento, il Consiglio e la BCE. Pubblichiamo la parte relativa alla Corte di Giustizia, l’istituzione forse meno conosciuta pur essendo stata determinante nella costruzione della Ue. Scrive infatti Anderson, ripercorrendone lo sviluppo storico: “Dieter Grimm, per dodici anni giudice della Corte costituzionale tedesca, e Thomas Horsley, di due generazioni più giovane, docente senior all’Università di Liverpool [hanno osservato che] le decisioni della Corte negli anni ‘60 erano «rivoluzionarie, perché i principi che annunciavano non erano concordati nei Trattati» che avevano creato la CECA e la CEE, e «quasi certamente non sarebbero stati concordati se le questioni fossero state sollevate». La Corte era un tribunale con un’agenda che non corrispondeva alle intenzioni dei suoi fondatori, non considerandosi «né come il guardiano dei diritti degli Stati firmatari, né come un arbitro neutrale tra gli Stati e la Comunità, ma piuttosto come la forza trainante dell’integrazione»”. E ancora: “Interpretando i «divieti di discriminazione nei confronti delle società straniere in modo così ampio» che «quasi ogni normativa nazionale potrebbe essere intesa come un ostacolo all’accesso al mercato» e spingendo la «privatizzazione a prescindere dalle ragioni di affidare determinati compiti ai servizi pubblici», la Corte ha effettivamente privato gli Stati membri del «potere di determinare il confine tra settore pubblico e privato, Stato e mercato»”.
Quantitativamente parlando, lo spostamento del centro di gravità del lavoro sull’Ue dall’America alla stessa Europa è stato il prodotto di un’industria accademica ormai vasta: circa cinquecento cattedre Jean Monnet sono attualmente presenti in tutta l’Unione. In mezzo a un mare di conformismo, è emerso un gruppo di pensatori le cui opere rappresentano un progresso qualitativo nella comprensione critica dell’Unione. Animati da un’indipendenza di spirito più vicina a intellettuali ‘tradizionali’ come Gramsci, che non alla variante ‘organica’ rappresentata da Luuk van Middelaar, costoro non si trovano a coprire incarichi nelle posizioni ufficiali; non formano una scuola di pensiero collettiva; e sono di diversa estrazione nazionale e generazionale. Un breve elenco includerebbe Giandomenico Majone (Italia), teorico dell’amministrazione pubblica; i giuristi Dieter Grimm (Germania) e Thomas Horsley (Gran Bretagna); i sociologi Claus Offe e Wolfgang Streeck (Germania); gli analisti politici Christopher Bickerton (Gran Bretagna), Morten Rasmussen (Danimarca) e Antoine Vauchez (Francia); gli storici Kiran Klaus Patel (Germania) e Vera Fritz (Lussemburgo). Nel lavoro di questi e altri studiosi, le dinamiche dell’integrazione europea emergono in una luce più fredda e più indagatrice rispetto ai panegirici di van Middelaar, rivelando ciò che questi omettono e scrutandone i contenuti con una lente più precisa.
L’Unione, come la conosciamo oggi, è un’organizzazione complessa composta da cinque istituzioni principali: la Commissione europea, la Corte di Giustizia europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo e la Banca centrale europea. Si può iniziare l’analisi prendendo in considerazione l’espressione che convenzionalmente definisce la storia del suo sviluppo: “integrazione europea”. Questa espressione, come ha mostrato Patel, proviene dagli Stati Uniti ed è stata adottata per evitare un altro termine troppo caratterizzato dagli scopi tattici della politica degli anni ‘50. La parola che ha sostituito era “federazione”, termine rifiutato dai governi e dai centri di interessi esistenti allora, anche se sostenuto con ardore da una piccola ma impegnata minoranza di attivisti. Per i governi e per i loro simpatizzanti accademici, “integrazione” era un termine più neutro per indicare il progresso verso un ideale, per il momento, mantenuto in pectore. In nessun campo è stato più utile che nel lavoro della Corte di Giustizia, che è stata, come sottolinea van Middelaar, la prima promotrice del “passaggio all’Europa” dopo il Trattato di Roma.
Oggi la Corte resta, tra tutte le istituzioni dell’Unione, la più nascosta al pubblico. Situata con discrezione in Lussemburgo, non esattamente un crocevia europeo, e composta da giudici nominati – uno per Paese – dagli Stati membri, i suoi procedimenti sono nascosti agli occhi del pubblico; le sue decisioni non consentono la menzione dell’opinione dissenziente; i suoi archivi garantiscono un accesso minimo ai ricercatori.
Nel suo modus operandi, la Corte di Giustizia europea è l’antitesi della Corte Suprema degli Stati Uniti, i cui emolumenti supera largamente – il suo presidente riceve uno stipendio di 400.000 dollari, oltre a molte indennità; il presidente della Corte suprema a Washington un misero stipendio di 277.000 dollari. Le sue origini risalgono alla prima fase dell’integrazione: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nata dal Piano Schuman era stata dotata di una Corte di Giustizia, poi estesa alla Comunità Economica Europea (CEE) istituita dal Trattato di Roma cinque anni dopo, e poi all’Unione europea creata a Maastricht.
Grazie al lavoro pionieristico di una giovane storica lussemburghese, Vera Fritz, abbiamo ora uno studio accademico dettagliato sulla composizione della Corte nei primi vent’anni della sua esistenza. Le sue scoperte sono illuminanti. C’erano sette giudici fondatori e due avvocati generali. Chi erano?
Il presidente del tribunale, l’italiano Massimo Pilotti, era stato vice segretario generale della Società delle Nazioni negli anni ‘30. Lì aveva operato come longa manus del regime fascista di Roma, consigliando a Mussolini quali contromisure adottare per proteggere l’Italia dalla condanna della Società delle Nazioni per i suoi interventi in Etiopia. Dimessosi dal suo incarico nel 1937, Pilotti prese parte ai festeggiamenti a Genova per la conquista dell’Etiopia; e durante la seconda guerra mondiale diresse l’Alta Corte di Lubiana occupata dopo l’annessione della Slovenia all’Italia, dove la resistenza fu debellata con deportazioni di massa, campi di concentramento e repressione militare e poliziesca.
Il giudice tedesco della Corte, Otto Riese, era un nazista così devoto che senza alcuna costrizione – trascorse la guerra come accademico in Svizzera – mantenne la sua appartenenza al Partito nazionalsocialista fino al 1945.
Il suo connazionale Karl Roemer, avvocato generale della Corte, trascorse la guerra nella Parigi occupata gestendo società e banche francesi per il Terzo Reich; dopo la guerra, sposò la nipote di Adenauer, e agì come avvocato difensore delle Waffen SS imputate del massacro degli occupanti del villaggio francese di Oradour.
L’altro avvocato generale, Maurice Lagrange, era stato un alto funzionario del governo di Vichy, pienamente impegnato nell’ideologia di una ‘rivoluzione nazionale’ al fine di spazzare via l’eredità della Terza Repubblica. Agendo come uomo di collegamento tra l’apparato giudiziario del Conseil d’Etat e l’apparato politico del Consiglio dei ministri, Lagrange fu incaricato di coordinare la prima ondata di persecuzioni degli ebrei francesi. Quando Laval prese le redini di Vichy nel 1942, trasferendo Lagrange al Conseil d’État, Pétain lo ringraziò per la sua “rara abnegazione’’ verso la funzione legislativa e amministrativa del regime, e Lagrange rispose: “Per me è stato un grande privilegio essere così strettamente coinvolto nell’opera di rinnovamento nazionale da lei intrapresa per la salvezza del nostro Paese. Sono convinto che ogni francese possa e debba prendere parte a quest’opera”. Dopo la guerra fu scelto dagli americani per aiutare a democratizzare la pubblica amministrazione in Germania e da Monnet per contribuire alla stesura del trattato che istituisce la Comunità del Carbone e dell’Acciaio.
Il fatto che personaggi come questi diventassero figure di spicco della prima Corte di Giustizia europea rifletteva, naturalmente, la serrata dei ranghi della politica dopo l’inizio della guerra fredda, quando ciò che contava non erano i misfatti del passato fascista quanto la minaccia del presente comunista. Erano tempi in cui l’ultimo comandante della divisione Charlemagne delle SS, che aveva combattuto fino all’ultimo per difendere Hitler nel suo bunker, è potuto emergere come scelta migliore per il Premio Robert Schuman per i servizi all’unità europea. Perché non avrebbe dovuto, anche la giustizia europea, dimenticare il passato e metterci una pietra sopra?
Più in generale, le nomine al tribunale avevano poco o nulla a che fare con i titoli in campo giuridico. Quasi tutti erano politici. Il giudice belga era una figura di spicco del partito cattolico del suo Paese; uno dei giudici olandesi era il fratello di un ministro degli Esteri prebellico; il giudice francese, Jacques Rueff, ex vicegovernatore della Banque de France, era stato uno dei fondatori del Centre National des Indépendants et Paysans; un sindacalista cattolico dei Paesi Bassi e un magistrato socialista del Lussemburgo completavano l’organico.
Tra gli altri componenti della Corte vi erano uno dei fondatore dell’Unione Democratica Cristiana (Cdu) a Berlino, in seguito deputato del partito al Bundestag; il figlio di un leader del Partito Anti-Rivoluzionario (calvinista) nei Paesi Bassi; un ex assistente di Dino Grandi, ministro della Giustizia del Duce e fratello dell’allora ministro delle Finanze italiano; un cofondatore del Partito sociale cristiano in Belgio; un ex nazista e sostenitore delle SA (anno 1933), poi entrato nel partito socialdemocratico tedesco; un funzionario di lunga data nella colonizzazione italiana di Rodi; un ex capo di gabinetto del governatore civile e militare dell’Algeria.
La ‘giustizia all’europea’ non è mai stata bendata: aveva gli occhi ben aperti, con una benda colorata sul capo, coi colori dei partiti dell’establishment dell’epoca.
La seconda ondata di nominati includeva anche un personaggio che, nelle parole di un ammiratore, era l’equivalente europeo di John Marshall, il patriarca della Corte Suprema degli Stati Uniti, responsabile di garantire l’autorità della Corte in tutto il Paese. Robert Lecourt era un politico di spicco della versione francese dei partiti cristiano-democratici di Italia e Germania, il Mouvement Républicain Populaire (MRP), che ha fatto parte di ogni governo della Quarta Repubblica, nel secondo e nel penultimo dei quali Lecourt occupava anche la poltrona di Primo ministro. La differenza più significativa tra il MRP e i suoi equivalenti a Roma e Bonn era che la Francia possedeva un grande impero coloniale, di cui il partito era zelante difensore, molto risoluto nel portare avanti le guerre del Paese in Indocina e Algeria. Entrando a far parte nel 1958 del governo De Gaulle, durante la Quinta Repubblica, il MRP uscì dalla coalizione in seguito all’annuncio di un referendum sull’autodeterminazione dell’Algeria. Il leader di lunga data del partito, Georges Bidault, fece parte dell’OAS paramilitare che promosse la resistenza armata contro de Gaulle in nome dell’Algérie française e per poco non riuscì ad assassinarlo, mentre i suoi colleghi del partito si piegavano a De Gaulle. Lecourt, che come Bidault e altri membri del partito erano stati attivi nella Resistenza, aveva un dottorato in legge ed era stato ministro della Giustizia nel 1948, 1949 e 1957. Sotto de Gaulle, aveva avuto l’incarico per le colonie francesi in Africa e altrove. Nel maggio 1962 fu nominato alla Corte di giustizia europea.
Lecourt arrivò in Lussemburgo con un particolare insieme di appartenenze e convinzioni. Oltre al suo ruolo di deputato e ministro per l’MRP, era stato attivista dalla fine degli anni Quaranta nelle Nouvelles Équipes Internationales (NEI), l’internazionale non dichiarata della Democrazia cristiana in Europa, partecipando a congressi annuali dedicati a temi come la “fermezza della Democrazia cristiana di fronte alla crisi del comunismo”, e diventando in seguito capo della sezione francese. Continuò senza remore a dirigerla durante il congresso NEI del 1962 a Vienna, già dopo la sua nomina alla Corte di Giustizia. Il NEI era a favore dell’unità europea, e Lecourt era egli stesso un membro del Comitato di azione di Monnet per gli Stati Uniti d’Europa, costituito nel 1955. Era un ardente federalista.
Con queste premesse, l’arrivo di Lecourt in Lussemburgo non avrebbe potuto essere più felicemente programmato. Perché sui registri della Corte giaceva il caso che avrebbe prodotto la sua prima decisione storica, Van Gend en Loos, una causa intentata da una piccola azienda di trasporti contro il governo olandese per aver imposto un dazio doganale sulla sua importazione di una vernice collante dalla Germania occidentale. In apparenza, una controversia di minore importanza. Nell’ombra, tuttavia, potenti forze si erano raccolte intorno a essa. Una era la Commissione europea a Bruxelles. Là, a capo del suo servizio giuridico, c’era il francese Michel Gaudet. Già quando lavorava nella stessa veste per la CECA, prima del Trattato di Roma, era determinato a garantire che la futura Corte di Giustizia europea non fosse un tribunale internazionale secondo linee convenzionali, ma una Corte Suprema federale sul modello americano.
Nel 1957, in una sua corrispondenza con Donald Swatland – un avvocato di Wall Street che era stato collaboratore di Monnet in tempo di guerra – Gaudet spiegava che “le idee federali sono ancora molto nuove nell’Europa continentale” e cercava una guida per promuoverle. Sviluppò anche uno stretto rapporto con lo studioso di diritto americano Eric Stein, la prima persona al mondo a salutarlo come promettente futuro giudice della Corte lussemburghese. Nel 1959 Stein invitò Gaudet per un viaggio di sei settimane negli Stati Uniti per conoscere in prima persona il federalismo. In cambio, mentre nel 1962 Stein era in anno sabbatico, Gaudet lo inserì negli uffici del Servizio giuridico con una scrivania tutta sua, invitandolo a partecipare a riunioni informative con gli avvocati che preparavano per la Commissione il caso Van Gend en Loos presso la Corte di Giustizia delle Comunità europee. Stein, fautore di una serie di assiomi fondamentali per un ordine costituzionale in Europa, potrebbe essere considerato un fanatico transatlantico del federalismo per il Vecchio Mondo.
Nel frattempo, in ciascuno dei Paesi dei sei erano sorte associazioni di giuristi impegnati a promuovere il diritto europeo, di cui la tedesca Wissenschaftliche Gesellschaft für Europarecht (WGE) era la più grande e importante, seguita dall’Association Française des Juristes Européens. In stretto contatto con queste organizzazioni, la Commissione fornì sostegno finanziario alle loro riunioni e nel 1961 Gaudet creò un gruppo di coordinamento, la Fédération Internationale pour le Droit Européen (FIDE), con l’obiettivo esplicito di facilitare gli scambi oltre confine tra politici, burocratici e accademici. Nelle parole del suo primo presidente, la FIDE agiva come “un esercito privato delle comunità europee”. “In Europa intorno al 1950”, ha ricordato un membro della sua filiale tedesca, “l’idea dell’unificazione europea era capace di suscitare un entusiasmo quasi religioso tra i giovani avvocati. Noi credevamo negli Stati Uniti d’Europa”. La sezione olandese della FIDE era particolarmente attiva. Uno dei suoi membri agì come consulente legale per il caso Van Gend en Loos e si può supporre con una certa sicurezza che il caso sia stato avviato da questa lobby. Comunque sia, sostenuta dalla Commissione, ha trovato il relatore giusto in Lussemburgo, dove Lecourt, giunto in fretta e furia da Parigi, scrisse lo storico verdetto di ribaltamento di una legge nazionale.
Un anno dopo, nel 1964, arrivò il secondo atto decisivo. In Italia, due avvocati ritenutisi offesi per la nazionalizzazione dell’industria elettrica, sollevarono una questione di costituzionalità sull’emissione di una bolletta di 1.925 lire. Quando la Corte costituzionale italiana stabilì che la nazionalizzazione non era costituzionalmente illegittima e non poteva essere impugnata con riferimento al Trattato di Roma, in quanto approvata successivamente a esso, essi fecero ricorso alla Corte europea. Due settimane dopo che il suo avvocato generale aveva sostenuto che il tribunale italiano non poteva essere ignorato, sebbene dovesse essere incoraggiato a trovare le modalità per integrare il diritto europeo nel diritto nazionale, l’associazione tedesca WGE tenne una riunione in Assia alla quale erano presenti tre giudici della Corte di Giustizia. Lì, ha ricordato un partecipante, si sedettero con grande imbarazzo ad ascoltare una delle principali autorità della WGE, Hans Peter Ipsen, che li istruiva sulla supremazia del diritto europeo sul diritto nazionale di qualsiasi Stato membro. L’opinione di Ipsen avrebbe prevalso: cinque giorni dopo Lecourt emise la sentenza della Corte di Giustizia europea sul caso Costa contro Enel. La pietra angolare della giustizia europea era stata posta.
Chi era Ipsen? Un giurista di Amburgo entrato a far parte della SA nel 1933 e del Partito Nazionalsocialista tedesco nel 1937, diventando professore ordinario all’età di 32 anni sulla base di un dottorato da cui scaturì un libro successivamente pubblicato dal titolo Politik und Justiz, che trattava di “atti sovrani” da parte dello Stato che in quanto tali non dovevano essere sottoposti a considerazioni di giustizia. Esaltandone la versione tedesca, basata sul Führergewalt del potere nazista – che aveva trovato espressione dal 1933 con arresti, epurazioni, espropri e l’abolizione dei sindacati – in quanto superiore alla precedente legislazione meramente ‘governativa’ della Francia e alla variante fascista italiana, che si basava sull’autorità legislativa in un sistema di divisione dei poteri, il libro aveva comprensibilmente attirato l’interesse della Cancelleria centrale del partito nazista.
Durante la guerra, Ipsen prestò servizio come commissario di Hitler, occupandosi delle università del Belgio occupato. Lì nel 1943 esaltava “l’amministrazione esterna” del Terzo Reich, che ora copriva Norvegia, Belgio, Paesi Bassi, Francia, Ucraina, Stati baltici, governo generale della Polonia, aree occupate di Serbia e Grecia, per non parlare dell’Alsazia, della Lorena, del Lussemburgo, della Stiria meridionale e dei protettorati di Boemia e Moravia – un’area che comprende circa 2.865.000 chilometri quadrati e 154 milioni di abitanti, oltre ai quasi 700.000 chilometri quadrati e 90 milioni di abitanti dell’ampliato ‘Reich interno’, e ammontava in tutto al 46% della popolazione del continente. Queste terre costituivano la promessa di una futura Grossraumordnung dell’Europa sotto il comando nazista. Prima che la guerra finisse, Ipsen divenne preside della facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Amburgo e consigliere del Ministero della giustizia a Berlino. Nel 1945 fu privato per breve tempo dell’incarico, ma presto lo recuperò. Con una carriera nazista superiore alla media, nel dopoguerra fu ricoperto di onori divenendo il decano del diritto europeo, autore nel 1972 di una monumentale summa sull’argomento.
Nel 1967 Lecourt divenne presidente della Corte. In questa posizione, corteggiava i giudici nazionali con regolari inviti a imparare dal Lussemburgo: una sistematica ‘campagna di seduzione’ assortita con champagne brunch, volta a disarmare la resistenza alla supremazia rivendicata dalla Corte. Alla fine del suo mandato, circa 2.500 magistrati di tutti gli Stati membri avevano goduto della sua ospitalità. Nella direzione opposta, i giudici della Corte erano incoraggiati a fare visite cerimoniali ai governi della Comunità, dove solitamente venivano ricevuti, con le parole di un assistente, “come imperatori”. Poiché molti di loro provenivano da ambienti politici, o erano rampolli di dinastie familiari ben posizionate, potevano prendere queste visite come opportunità per scambi di notizie e opinioni di tipo informale, oliando gli ingranaggi della presenza e dell’influenza della Corte di Giustizia. Lecourt, con una lunga esperienza di giornalismo e politica, incoraggiò anche i suoi colleghi a tenere conferenze e scrivere articoli per diffondere la lieta parola della Corte, cosa di cui dava egli stesso un energico esempio.
Dal 1967 in poi gli succedette nell’incarico Pierre Pescatore, altra nomina familista, cognato del primo ministro del Lussemburgo e schietto e prolifico campione del federalismo, anche più di Lecourt – le sue opinioni legali, nelle parole di un testimone, funzionavano come “truppe d’assalto” dell’avanzata sovranazionale. Insieme hanno spinto in avanti la giustizia europea in quella che in seguito sarebbe stata considerata la sua epoca eroica: un audace giudizio dopo l’altro che suggellava l’autorità della Corte su sempre nuovi aspetti della vita della Comunità. Il bilancio di Lecourt come presidente, ha dichiarato Pescatore dopo che il suo capo si era ritirato, è stato nientemeno che “un miracolo giurisprudenziale”. Il contributo di Pescatore è stato quello di sostenere ancora più saldamente una lettura “teleologica”, piuttosto che semplicemente letterale, del Trattato di Roma. Qualunque cosa dicessero o meno le sue clausole, esso era ispirato dagli ideali insiti nelle “tradizioni liberali e democratiche comuni dei popoli dell’Europa occidentale”, e questi avrebbero acquisito forza giuridica.
Dopo che Lecourt se ne fu andato, fu Pescatore a emettere l’ultima cruciale sentenza della Corte come motore dell’unità europea, il verdetto di livellamento del mercato di Cassis de Dijon nel 1979, stabilendo che qualsiasi prodotto legalmente in vendita in un Paese della Comunità era vendibile in qualsiasi altro. La strategia di Lecourt era sempre stata quella di muoversi gradualmente, evitando qualsiasi sfacciata provocazione dei governi nazionali, distogliendo la loro attenzione da importanti dichiarazioni giuridiche collegandole a questioni di importanza commerciale apparentemente minima. In questo caso, la merce era un liquore al ribes nero. Dopo Cassis de Dijon, l’iniziativa strategica passò al Consiglio europeo, che aveva gradualmente preso forma dopo la sua creazione da parte di Giscard d’Estaing, a metà degli anni ‘70, e alla Commissione, passata sotto la direzione di Jacques Delors, a metà degli anni ‘80.
La Corte gestiva un numero crescente di casi e il suo attivismo giudiziario non diminuiva. Ma ora rafforzava, piuttosto che guidare, la svolta hayekiana della Comunità, che si era già concretizzata nell’Atto Unico europeo, entrato in vigore nel 1987. Nel nuovo secolo, con l’arrivo in Lussemburgo dall’Europa orientale di nuovi membri convertiti ai principi del libero mercato, ha poi goduto di una dose extra di adrenalina neoliberista, che portò a due sentenze – Viking e Laval del 2007, che contrapponevano i corsari baltici ai sindacati nordici – che minarono i diritti dei lavoratori. Si trattava di un allontanamento dai precetti tattici di Lecourt, in quanto si suscitava un’attenzione sfavorevole da parte dell’opinione pubblica del tipo che la Corte aveva sempre cercato di evitare, ma non seguirono ulteriori passi evidenti. Dopo Maastricht un compito importante sarebbe ancora spettato alla Corte, ma di carattere diverso. La sua opera pionieristica – celebrata da van Middelaar come il colpo di Stato su cui si fonda essenzialmente l’Unione di oggi – era stata compiuta.
Di quale compito si trattava? I due giuristi che l’hanno enunciato con la massima chiarezza sono Dieter Grimm, per dodici anni giudice della Corte costituzionale tedesca, e Thomas Horsley, di due generazioni più giovane, docente senior all’Università di Liverpool. Le decisioni della Corte negli anni ‘60, ha osservato Grimm, erano “rivoluzionarie, perché i principi che annunciavano non erano concordati nei Trattati’’ che avevano creato la CECA e la CEE, e “quasi certamente non sarebbero stati concordati se le questioni fossero state sollevate”‘. La Corte era un tribunale con un’agenda che non corrispondeva alle intenzioni dei suoi fondatori, non considerandosi “né come il guardiano dei diritti degli Stati firmatari, né come un arbitro neutrale tra gli Stati e la Comunità, ma piuttosto come la forza trainante dell’integrazione”. La sua affermazione della supremazia della Comunità sulle leggi nazionali, per non parlare delle leggi costituzionali, osserva Horsley, non aveva alcun fondamento nel Trattato di Roma, che le concedeva solo diritti di controllo giurisdizionale “rispetto agli atti delle istituzioni dell’Unione, non rispetto agli atti degli Stati membri”. “Eppure, in effetti, questo è esattamente quello che ora la Corte intraprende regolarmente”, procedendo come se “il quadro del Trattato, pietra miliare della costituzionalità interna di tutta l’attività istituzionale della Ue, non abbia mai effettivamente significato ciò, invece vi è chiaramente affermato” .
Ma c’è qualcosa di particolarmente insolito in questo? L’interpretazione creativa delle leggi da parte dei giudici non è abituale quasi quanto l’interpretazione creativa delle cifre da parte dei contabili? Da un punto di vista alternativo e meno cinico, non è il risultato ciò che conta? Ankersmit o van Middelaar lo vedrebbero come un esempio del carattere sublime dell’opera giuridica. Senza andare così lontano, è ragionevole chiedersi cosa c’è che non va nel risultato. La risposta sta a livello sia dei principi che delle conseguenze. Per quanto riguarda i principi, Horsley apre il suo studio con la seguente grave affermazione: “Tra le istituzioni della Ue, la Corte resta un attore unico nel processo di integrazione. È l’unica istituzione dell’Unione le cui attività non sono regolarmente sottoposte a controllo (dalla stessa istituzione o da altri) sul rispetto dei Trattati della Ue. Tuttavia il quadro del Trattato non fornisce alcuna base per giustificare la differenziazione tra la Corte e le altre istituzioni riguardo al rispetto delle regole. La Corte è formalmente designata come istituzione dell’Unione ai sensi dell’articolo 13 TUE. In quanto tale, insieme alle istituzioni politiche dell’Unione, è irrefutabilmente soggetta al rispetto dei Trattati della Ue”. Ma una volta che la Corte, dal momento del colpo di Stato, si era autorizzata da se stessa a essere custode di una costituzione, cosa che non aveva alcun fondamento nei Trattati, ma presumibilmente corrispondeva al loro ‘scopo ultimo’, quale altra istituzione avrebbe potuto richiamarla all’ordine? La sua auto-convalida circolare escludeva qualsiasi sfida del genere.
La Corte divenne così non solo un’istituzione unica all’interno della Comunità, ma unica tra le Corti supreme o costituzionali, dotata di poteri che non hanno mai avuto pari in nessuna democrazia. In tutti gli altri casi, le sentenze di tali tribunali sono soggette a modifica o abrogazione da parte di legislatori eletti. Quelle della Corte di Giustizia non lo sono. Sono irreversibili. A parte la modifica dei Trattati stessi, che richiede l’accordo unanime di tutti gli Stati membri, “che, come tutti sanno, è del tutto fuori questione”, come scrive Grimm, non si può ricorrere contro le sentenze della Corte. Non sono scolpite nella pietra, ma nel granito, e hanno un effetto tutt’altro che neutro. Scritte in “un linguaggio tecnico spesso opaco”, le decisioni della Corte spesso mascherano questioni altamente politiche in modo apolitico; cadono “al di sotto della soglia dell’attenzione pubblica”, rendendo i loro effetti difficili da percepire ex ante; ma se successivamente dovessero essere contestate, vengono considerate come fatti compiuti per i quali ai cittadini viene detto che è troppo tardi per fare qualcosa – “ora non c’è alternativa”.
Poiché queste sentenze hanno forza costituzionale, gran parte di quella che sarebbe la legislazione ordinaria a livello nazionale è stata integrata nelle versioni successive del Trattato di Roma originale – Maastricht, Amsterdam, Nizza, Lisbona – risultando in documenti di tale “epica lunghezza’’ che il commissario irlandese della Ue ha dichiarato, a proposito dell’ultima versione, che “nessuna persona sana e ragionevole’’ poteva leggerla, e il suo stesso Primo ministro ha ammesso, dopo averlo firmato, di non averlo fatto: si tratta, in effetti, di enormi crittogrammi al di là della pazienza o della comprensione di qualsiasi pubblico democratico. L’effetto di ‘costituzionalizzare’ (le virgolette sono necessarie, perché i Trattati rimangono patti internazionali, non carte federali) questioni come l’ammissibilità degli aiuti di Stato alle industrie, o dei sussidi ai servizi pubblici, è di immunizzare gli ukase giudiziari contro qualsiasi esercizio ordinario della volontà popolare. Come scrive Grimm, “più forte è il contenuto sostanziale della costituzione, più stretto è il margine di manovra per la politica”.
Generalmente, “tutto ciò che è regolamentato nella costituzione viene rimosso dal regno del processo decisionale politico”. Non è più un oggetto, ma una premessa della politica. Nella Ue non può essere influenzato nemmeno dal risultato di un’elezione. “Il fatto che i giudici che emettono le decisioni della Corte di Giustizia europea siano essi stessi non eletti è, ovviamente, pratica comune anche se non invariabile delle Corti costituzionali. Ciò che non lo è, è “l’insaziabile appetito giurisdizionale” della Corte europea. Il suo attuale presidente, il belga Koen Lenaerts, ha spiegato la portata di quella fame. Nelle sue parole: “Non c’è semplicemente nessun nucleo fondamentale di sovranità che gli Stati membri possano invocare, in quanto tale, contro la Comunità”. La Corte mira a “lo stesso risultato pratico che si otterrebbe attraverso una diretta invalidazione della legge dello Stato membro”.
A tale presunzione autoesaltante non corrisponde nessuna competenza, né giudiziaria, né politica. Anche mettendo da parte il suo sistematico disprezzo per i limiti al suo campo di applicazione nei Trattati, scrive Horsley, “la Corte se la cava male, rispetto alle sue controparti, sulle misure classiche dell’analisi istituzionale comparativa: legittimità democratica e competenza tecnica. I suoi giudici non sono eletti, le sue deliberazioni sono segrete e, in quanto tribunale di giurisdizione generale, non gode di alcuna competenza speciale nella vasta gamma di settori politici sui quali interviene per giudicare. Ma se non ha competenze speciali, ha avuto sin dall’inizio un particolare orientamento, una politica costante e coerente di promozione del federalismo europeo”, e dopo la fine degli anni Ottanta, una decisa inclinazione sociale, che ha perseguito, secondo Grimm, con “zelo missionario”. Interpretando i “divieti di discriminazione nei confronti delle società straniere in modo così ampio” che “quasi ogni normativa nazionale potrebbe essere intesa come un ostacolo all’accesso al mercato” e spingendo la “privatizzazione a prescindere dalle ragioni di affidare determinati compiti ai servizi pubblici”, la Corte ha effettivamente privato gli Stati membri del “potere di determinare il confine tra settore pubblico e privato, Stato e mercato”.
Tali giudizi non derivano da una posizione euroscettica, ma da autorità fedeli a ciò che vedono essere i risultati dell’integrazione europea. Per Grimm, ciò che è necessario per ripristinare la legittimità del processo è essenzialmente la de-costituzionalizzazione delle decisioni politiche, per consentire la loro discussione da parte degli elettori e la revisione da parte dei legislatori. Horsley, dopo aver spiegato quelli che a suo avviso sono stati i benefici dell’intervento giudiziario insieme ai suoi costi, rassicura i lettori di non voler minare la Corte di Giustizia, tanto meno aggiungersi alla “denigrazione dell’Unione”, ma al contrario accrescere la legittimità della sua legislazione. Eppure, se i loro resoconti sulla Corte di Giustizia sono resoconti da amici della Corte, non è chiaro cosa resterebbe da dire ai suoi nemici. La verità è che, secondo ogni ragionevole stima, sarebbe difficile concepire un’istituzione giudiziaria occidentale che, sin dalle sue tenebrose origini, sia stata altrettanto priva di una qualsiasi traccia di responsabilità democratica.
1)Qui l’articolo in lingua inglese, dove si può consultare anche la bibliografia https://www.lrb.co.uk/the-paper/v43/n01/perry-anderson/ever-closer-union