Collettivo Clash City Workers |
Dietro la propaganda del ‘miracolo’ economico ci sono 13 milioni di persone intorno o sotto la soglia di povertà, 15 milioni con contratti di lavoro atipici e tra i 5 e i 6 milioni di hartzer che ricevono un sussidio che può essere sostituito con dei buoni pasto
Il ruolo svolto dalla Germania a livello politico ed economico all’interno del contesto europeo – e, più in generale, di quello mondiale – è sotto gli occhi di tutti e nelle parole di molti di più. Il nesso che si è affermato tra le sue performance economiche e la sua preminenza politica ha, inoltre, posto la Germania alternativamente come nemico da combattere o come modello da imitare.
La luce del ‘miracolo’ tedesco non dovrebbe però impedirci di ricostruirne la genesi, considerarne i fondamenti e, così facendo, cogliere la vasta zona d’ombra che, come vedremo, lo avvolge se si guarda alla realtà sociale. Così facendo emergono delle linee di frattura assai diverse: non tanto lungo i confini geografici bensì interne alla società tedesca stessa, che la accomuna a una situazione presente in tutta Europa.
Due eventi possono essere considerati al contempo come spartiacque della recente storia tedesca e come snodi nel processo di edificazione della sua egemonia: da un lato, la riunificazione del Paese, avvenuta nel 1990 e condotta come una vera e propria colonizzazione dell’Est da parte dell’Ovest, e dall’altro l’operazione politica condotta sotto il secondo governo del cancelliere socialdemocratico Schröder, in carica dal 2002 al 2005, meglio nota come “Agenda 2010” e concretizzatasi nel “Piano Hartz”, il tutto nel quadro della costruzione dell’eurozona.
Libertà, democrazia, spirito umanitario, lotta alla disoccupazione e alla povertà, queste sono le parole chiave con cui sono stati caratterizzate queste fasi e provvedimenti. Qualche dubbio sulla loro correttezza però può sorgere e in questo testo proveremo a leggere nelle pieghe dei numeri del mercato del lavoro tedesco e capire meglio come è fatto.
Il Piano Hartz prende il nome da Peter Hartz (1), importante manager della Volkswagen divenuto consigliere di Schröder proprio per la riforma del mercato del lavoro con il fine di “risollevare l’economia tedesca”. In un discorso divenuto poi celebre (2), però, Schröder dichiarò quello che forse era il vero obiettivo della legge: “Abbiamo costruito il migliore Niedriglohnsektor che c’è in Europa”. La parola tedesca è traducibile come “settore a basso salario”, ovvero una porzione del mercato del lavoro strutturalmente caratterizzata da salari più bassi, e deliberatamente creata per giocare questo ruolo.
Negli ultimi anni, dal 2010 in poi, in Germania tale settore risulta stabilmente costituito da una porzione degli occupati oscillante tra il 20 e il 25%. Poco oltre, Schröder, rivendica come il programma dell’Agenda 2010, “imposto contro una rilevante opposizione sociale”, stia cominciando a funzionare, producendo tra le altre cose una stagnazione del costo unitario del lavoro, ovvero del rapporto tra costo di un’ora di lavoro e sua produttività. In un contesto, come quello tedesco, dove la produttività è aumentata dal 1995 lentamente ma costantemente, ciò vuol dire che la retribuzione del lavoro ha subito un abbassamento, si guadagna uguale producendo di più. Questi due passaggi, in sostanza, ci restituiscono plasticamente il vero senso delle riforme Hartz, e per giunta per bocca del loro massimo sostenitore: abbattere il costo del lavoro.
Il quadro si delinea meglio se osserviamo il dato che forse meglio ci restituisce la situazione paradossale che la Germania sta vivendo in questi anni: nonostante la disoccupazione sia ormai da diverso tempo assestata su una percentuale alta ma migliore di molti Paesi europei, tra il 5 e il 6% (in Italia è ora all’11,5%), e in alcuni Länder, come la Baviera e il Baden-Württemberg, si aggiri addirittura intorno al 3% (3), non c’è mai stata una quota così elevata di persone che vivono sotto o intorno alla soglia di povertà. In entrambi i casi tocchiamo livelli mai raggiunti prima. Espresso in numeri: gli occupati sono intorno ai 43,5 milioni e i poveri 13 milioni (su una popolazione complessiva di 82 milioni di persone) (4).
Dal 2004 a oggi, inoltre, è raddoppiato il numero di bambini di famiglie povere e di cui si occupa l’assistenza sociale: da 1,1 a 2 milioni. E per quanto riguarda il rischio di cadere nella fascia di povertà, si è avuto un netto aumento rispetto, per esempio, ai primi anni ‘90: all’epoca oscillante tra 11 e 14%, si è ora al 15,7%.
Naturalmente si sta parlando di un concetto di povertà da intendersi in senso relativo: con questo termine si intendono non (o meglio, non solo) i senzatetto o chi non riesce a comprarsi da mangiare (comunque sempre di più), ma più in generale coloro che non possono permettersi uno stile di vita ‘medio’. In questo senso, in Germania è considerato “minacciato dalla povertà” chi percepisce meno del 60% dello stipendio mediano, e cioè, attualmente, tra i 900 e i 950 euro. Il dibattito pubblico tedesco è spesso attraversato da discussioni su cosa significhi ‘povertà’, e solitamente le obiezioni che vengono mosse ai dati che abbiamo evidenziato sopra riguardano il fatto che, con 900 euro, un tedesco di oggi se la cava meglio di un tedesco del 1890 o dell’abitante di uno slum di Calcutta.
Questi tentativi di dislocare nel tempo e nello spazio le contraddizioni contribuiscono certo a offuscare la loro percezione. Evidentemente, però, il termine di paragone deve essere preso internamente alla società in questione, e dunque al costo sì della vita, ma di una vita in Germania. Questa divergenza tra occupati e poveri ci rimanda dunque a un altro dei problemi da affrontare per leggere efficacemente questi dati, ossia al rapporto tra quantità e qualità dei rapporti di lavoro. Se la prima, infatti, non è mai stata così elevata, possiamo dire che la seconda non è mai stata così pessima. La quota dei contratti di lavoro ‘atipici’ – definizione che include lavoro a tempo determinato, lavoro interinale, lavoro part-time e lavoro scarsamente retribuito – sul totale degli occupati dipendenti è arrivata nel 2016 a sfiorare il 40%, con una grande disparità tra uomini (22,8%) e donne (57,4%). In termini assoluti, parliamo di poco meno di 15 milioni di persone (5).
Esattamente qui possiamo toccare con mano gli effetti maggiori della svolta avuta tra il 2003 e il 2005 con l’azione del Piano Hartz e più in generale dei due governi Schröder. Gli ambiti toccati dalle riforme sono svariati, ma in generale l’imperativo è stato quello di tagliare la spesa pubblica e, accanto a liberalizzazioni del mercato finanziario, tagli alla previdenza sociale e alla sanità, di disarticolare il mercato del lavoro, introducendo o liberalizzando ulteriormente l’utilizzo
di tutti quei dispositivi che anche in Italia abbiamo imparato bene a conoscere nel corso degli ultimi vent’anni, dalla legge Treu alla legge Biagi fino al Jobs Act.
Per esempio la legge Hartz I, tra le altre cose, ha ulteriormente deregolamentato l’utilizzo di contratti a tempo determinato (introdotti nell’ordinamento legislativo tedesco nel 1985), eliminando la necessità di dichiarare un “fondato motivo” per tutti i lavoratori con più di 52 anni (6). Inoltre sono stati introdotti i cosiddetti “minijob”, lavori retribuiti 450 euro al mese e dai contributi dimezzati rispetto al normale: ideali – forse – per studenti o per occupazioni secondarie e temporanee, meno quando diventano permanenti, magari sommandone più d’uno (anche se si può notare come, anche mettendo insieme due minijob, si rimanga comunque al di sotto della soglia di povertà). Questo ha portato anche al fenomeno per cui diversi rapporti di lavoro fanno in realtà capo al medesimo lavoratore, cosa che dovrebbe indurci a guardare con più attenzione ai dati riguardanti l’occupazione stessa (su questo tema, per esempio, va considerato anche che in Germania un lavoratore senza lavoro ma iscritto a un’agenzia interinale viene contato tra gli occupati pur, di fatto, non lavorando).
È significativo, poi, che subito dopo l’abolizione dei voucher, in Italia si sia parlato proprio dei minijob come di possibili mezzi sostitutivi. Ma il caso della legge Hartz IV è forse il più emblematico: tramite essa è stato istituito un sussidio, entrato effettivamente in funzione nel 2005, destinato a combattere la disoccupazione e la povertà. Lo riceve chi non ha niente sul conto in banca, chi non ha alcuna proprietà, e vale anche per i minori. Può essere percepito, però, anche da chi lavora nel “settore a basso salario”, e dunque un’occupazione ce l’ha, come integrazione per uno stipendio esiguo.
Nella forma base, a una singola persona senza lavoro vengono dati 800 euro, metà dei quali da utilizzare per l’affitto di un’abitazione. Cominciamo a vedere il meccanismo del sussidio Hartz IV (noto anche come Arbeitslosengeld – ALS – II): metà dei soldi devono essere utilizzati per un alloggio. Questa spesa, come tutte le altre spese di chi percepisce il sussidio, viene rigidamente controllata dagli impiegati dei Jobcenter, luoghi presso cui il sussidio viene riscosso, in ossequio al principio che ne ha accompagnato l’introduzione, “fördern und fordern”, finanziare e pretendere, o: sostegno in cambio di impegno. In termini pratici, questo significa che gli hartzer (coloro, appunto, che si trovano sotto Hartz IV) sono tenuti ad accettare qualsiasi lavoro gli venga offerto, indipendentemente dalla mansione, dalla durata del contratto, dalla retribuzione (esistono anche i famigerati Ein-Euro-Arbeit, lavori retribuiti un euro l’ora).
Se non accettano, il sussidio viene decurtato prima del 30%, poi del 60% e poi sostituito da pochi buoni pasto. Questo succede anche nel caso in cui, per un qualsiasi motivo, si manchi a un appuntamento o un colloquio presso il Jobcenter, che può essere fissato senza preavviso e in modo arbitrario.
In questo modo, il sussidio si trasforma in una forma estremamente violenta di controllo sociale nei confronti di chi lo percepisce. Il fabbisogno di ognuno è diviso in percentuali, corrispondenti a quote del sussidio, e a cui bisogna rigidamente attenersi. I casi particolari sono molti: si va da giovani madri a cui è stato decurtato il sussidio perché si sono rifiutate di dichiarare l’identità del padre, fino alla proposta di mettere sotto sorveglianza i computer dei percettori, per controllare che, con del denaro ‘nascosto’, non ordinassero qualcosa su Amazon o simili. La forza coercitiva, e per certi versi anche la perversità di questo meccanismo sta nel modo in cui si accede al sussidio: non basta aver perso il lavoro, bisogna aver dato fondo a tutti i propri averi, non possedere più nulla, avere il conto a zero.
In questo momento, tra i 5 e i 6 milioni di persone percepiscono il sussidio Hartz IV, di cui la metà da quattro o più anni e un milione da dieci anni. Chi ne giova sono le aziende, che dispongono da un lato di un vasto assortimento di manodopera docile, e dall’altro di un utile strumento di pressione su chi un lavoro, magari con contratto a tempo indeterminato, ancora ce l’ha. Come è facile immaginare, l’impatto psicologico di questa misura di ‘assistenza’ e lo stigma sociale che la accompagna si stanno facendo sempre più profondi.
Senza contare, infine, il rischio sul lungo periodo di un simile strumento, i cui effetti però già si cominciano a intravedere. Perché, tra minijob e Hartz IV, il rischio concreto è quello di innescare una inesorabile spirale discendente, tale da rimanere prigionieri del Niedriglohnsektor e della disoccupazione. Una spirale che può anche divenire ereditaria: il potere dei Jobcenter è così arbitrario che vi rientra la possibilità di imporre a una famiglia – come condizione per continuare ad accedere al sussidio – che il figlio minorenne abbandoni gli studi e cominci a lavorare, pregiudicando dunque l’intero sviluppo della sua vita e in generale la possibilità che si dia una qualche forma di mobilità sociale.
In definitiva, il quadro che si profila è quello di un generale approfondirsi della diseguaglianza sociale. A ciò ha concorso anche la politica fiscale perseguita negli ultimi vent’anni in Germania: basti pensare che nel 2007, sotto la prima grande coalizione guidata da Angela Merkel, l’Iva, l’imposta meno progressiva che ci sia, è stata aumentata dal 16 al 19%, e che l’aliquota d’imposta che riguarda le società di capitali è passata dal 53% degli anni di Kohl al 15% attuale. In questo scenario, il 10% della popolazione detiene i due terzi della ricchezza, e il 50% si spartisce l’1%.
Se, dunque, le leggi Hartz possono essere considerate chiaramente causa della povertà dilagante in Germania e della crescente diseguaglianza, non altrettanto può essere forse detto per quanto riguarda la crescita economica complessiva del Paese e la capacità da esso mostrata di resistere alla crisi degli ultimi dieci anni, elementi da molti attribuiti agli investimenti pubblici più che alla deregolamentazione del mercato del lavoro perseguita da Schröder.
L’attuale situazione sociale in Germania è dunque sintetizzabile nella formula tanto abusata quanto vera ed efficace: chi è ricco diventa sempre più ricco e chi è povero sempre più povero, in modo che la ricchezza del Paese si regga, sempre più palesemente, sulle spalle di chi quella ricchezza la produce in condizioni sempre peggiori. Questo è, a conti fatti, il segreto su cui si basa la tenuta economica e il ruolo politico tedesco degli ultimi quindici anni. E questo è d’altra parte il modello che in tutta Europa è stato preso a riferimento negli ultimi anni (basti pensare al Jobs Act in Italia, alla Loi Travail in Francia, alla sua omologa in Belgio, alla Grecia…). Guardare la Germania, quindi, ci obbliga a guardare anche il nostro Paese: dinamiche simili a quelle sopra esposte sono presenti anche nell’ultimo rapporto Istat, pubblicato il 17 maggio scorso.
Quello che è risulta indubbio, in ogni caso, è il devastante effetto politico avuto da queste misure sulla vita politica tedesca, sintetizzabile in un netto spostamento a destra del quadro partitico e nella sempre maggiore irrilevanza a cui si è condannata l’Spd, il Partito Socialdemocratico tedesco, che ha imposto quelle leggi contro ciò che costituiva, in buona parte, il suo stesso elettorato. Anche la misura del salario minimo, introdotto su spinta dei socialdemocratici nel corso dell’ultima legislatura per un valore di 8,84 euro l’ora e attivo dal 1° gennaio 2015 (7), non sembra aver sortito effetti.
La campagna elettorale del socialdemocratico Martin Schulz si era aperta sotto i migliori auspici, tra boom delle iscrizioni al partito, sondaggi euforici e il 100% dei voti ottenuto nel congresso del partito, tenutosi il 19 marzo. Benché il suo programma ufficiale non sia stato ancora reso noto, in diverse dichiarazioni ha riconosciuto il problema dell’ineguaglianza sociale e degli effetti provocati dalle leggi Hartz. Ma quella che sembrava essere una corsa trionfale verso la vittoria ha già subìto tre brusche battute d’arresto, precisamente nelle elezioni che si sono avute negli ultimi due mesi nei Länder Saarbrücken, Schleswig-Holstein e Nordreno-Westfalia (dove vive il 20% della popolazione e che è sempre stato un feudo Spd).
Si profila il proseguimento del potere dell’asse Cdu-Csu con il quarto governo Merkel e una crescita del partito neonazista AfD (Alleanza per la Germania). Se consideriamo che, secondo i dati provvisori diffusi a febbraio scorso, nel corso del 2016 hanno avuto luogo sul terreno tedesco oltre 3.500 attacchi e atti di violenza diretti contro rifugiati, strutture in cui sono ospitati o volontari occupati nell’accoglienza, e che l’AfD sta guadagnando terreno proprio laddove si danno disequilibri sociali maggiori, disoccupazione e massiccia incidenza di Hartz IV (soprattutto
nell’Est), il modello tedesco mostra qualche problema. O, meglio, si dimostra un modello perverso che approfondisce le diseguaglianze sociali lungo linee di classe e che scarica le tensioni sociali identificando false cause e falsi nemici.
1) Forse è utile ricordare che nel 2005 Hartz dovette abbandonare la Volkswagen per accuse di illeciti di varia natura, poi tramutatesi nel 2007 in una condanna (non scontata grazie alla condizionale) a due anni di prigione
2) Presso il World Economic Forum di Davos nel gennaio 2005, Il testo, in tedesco, è reperibile al link http://www.gewerkschaft-von-unten.de/Rede_Davos.pdf
3) La divisione più netta la si ha, però, se si guarda alla differenza tra Germania dell’Est e Germania dell’Ovest: in generale è all’Est più alta di almeno 2/3 punti percentuali, ma in alcuni Länder tocca il 10-11%. Cfr. https://statistik.arbeitsagentur.de/Navigation/Statistik/Statistik-nach-Regionen/Politische-Gebietsstruktur/Ost-West-Nav.html
4) Cfr. http://www.deutschlandfunkkultur.de/armutsforscher-christoph-butterweggearmuttrotz-arbeit-ist.990.de.html? dram:article_id=38096890.de.html?dram:article_id=380968
5) Questi dati sono presi dal Wirschafts und Sozialwissenschaftsliches Insitut della Hans-Böckler Stiftung di Düsseldorf: https://www.boeckler.de/tools/atypischebeschaeftigung/index.php#result. Qui si possono trovare dati più completi relativi però al 2015: https://www.boeckler.de/pdf/pub_datenkarte_brd_2016.pdf
6) L’utilizzo è poi stato nuovamente limitato nel 2007
4) Per i dati completi, si veda la ricerca prodotta dall’Inps nel maggio 2016 (valida per il periodo 2008-2015), consultabile online:
https://www.inps.it/docallegati/DatiEBilanci/lavoro20accessorio/Documents/VOUCHER_Presentazione.pdf
5) WorkINPS Papers, Il Lavoro accessorio dal 2008 al 2015. Profili dei lavoratori e dei committenti, pag. 57, settembre 2016. Consultabile online: http://anclsu.com/public/news/copertina/WorkINPS_Papers_3_ottobre.pdf
6) Inps: stop corsa ai voucher con le norme sulla tracciabilità, Il Sole 24 ore, 19 gennaio 2017
7) Inizialmente di 8,50 euro l’ora, poi alzato dal 1° gennaio 2017. Presenta, comunque, significative eccezioni, come i giovani sotto i diciotto anni, chi è impegnato in percorsi di avviamento professionale, chi esce da lunghi periodi di disoccupazione. Sono state fatte anche diverse proposte perché non venga applicato ai rifugiati. È interessante notare l’effetto che dovrebbe avere sui minijob: restando fermo il limite della retribuzione, dovrebbero calare le ore lavorate. Inoltre circa 60.000 persone sono uscite in questo modo dal regime Hartz IV