Sabrina Campolongo
Recensione di Legami familiari, Clarice Lispector
Poca o nessuna tenerezza, nei Legami familiari narrati dalla scrittrice e poetessa brasiliana Clarice Lispector, figura controversa e misteriosa quanto lo è la sua scrittura. Il titolo originale Laços de familia è del resto piuttosto chiaro, essendo la prima traduzione di laço cappio, e solo secondariamente legame, o nodo. Cappi di famiglia, quindi. Ma la traduzione italiana (di Adelina Aletti) ci regala un’altra ambiguità interessante, là dove l’aggettivo familiare è sostituito al complemento indiretto “di famiglia”. Una sfumatura significativa e pertinente, perché i legami, o i cappi, indagati da Lispector, riguardano sia l’istituto della famiglia che l’abitudine, il rassicurante schema dei giorni proprio a ciascuno dei protagonisti, barche all’àncora, inconsapevoli della vastità dell’oceano finché l’eco di una tempesta riesce a raggiungerli, rendendo palese e drammatica l’esiguità della fune che li tiene fissati al loro posto, al riparo dai venti.
Il lettore assiste all’aprirsi improvviso di squarci sotto al pavimento di giorni solidi e ben costruiti, causato spesso da un evento di poca importanza, come lo è la vista di un cieco alla fermata dell’autobus nel racconto Amore. La protagonista, Ana, è convinta di avere trovato nella sua esistenza ripetitiva e ordinata, nei suoi figli bisognosi di attenzioni continue e nella sua casa che ogni sera diligentemente si impolvera perché lei possa spolverarla al mattino, la salda radice delle cose, un bisogno che sentiva in lei già ai tempi della turbata esaltazione della giovinezza, tanto da convincerla di avere ottenuto con le proprie mani una insperata solidità. Abbandonate le aspirazioni vagamente artistiche che l’autrice si limita ad accennare, Ana “si era ritrovata dentro un destino di donna, con la sorpresa di starvici come se fosse stata lei a plasmarlo”. Eppure l’incertezza torna ad assalirla, a una certa ora del pomeriggio, quando – figli e marito assenti – tutto quello che ha costruito sembra ridere di lei. Ma è sufficiente uscire, a quel punto, per andare a fare la spesa oppure qualche commissione, e tutto torna al suo posto, ad attenderla sotto forma di doveri familiari, al crepuscolo.
Un pomeriggio però, mentre Ana viaggia sul tram stringendo la sua borsa della spesa fatta all’uncinetto, il suo sguardo viene attratto da un cieco immobile alla fermata, un cieco che, nella propria oscurità, non fa che masticare una gomma eppure, con la sua semplice esistenza, basta a mandare in frantumi l’equilibrio di Ana, che vacilla, sotto a un colpo a cui non sa ancora dare un nome, e perde il contatto con la solidità delle cose. La borsa le cade di mano, le uova si rompono gocciolando attraverso le maglie che un tempo aveva lavorato sotto le dita e ora le appaiono estranee, il caldo attorno si fa più soffocante, gli odori più forti, la paura e l’esaltazione tornano ad affacciarsi, il velo è strappato, forse irrimediabilmente.
Avendo mancato la sua fermata, Ana scende, sfinita dall’eccesso sensoriale, in una via che non riconosce, per poi cercare riparo tra gli alberi del Giardino Botanico, trovandovi invece un mondo brulicante e sensuale “scintillante e torbido” che la inghiotte con la forza di una malìa e la scuote come una rivelazione di vita e di morte. In questo Eden pulsante, Ana sente l’attrazione irresistibile del peccato originale, così forte da darle la nausea, così potente da farle dimenticare, per qualche ora, tutto il resto, tutto ciò che non è vita pulsante, famelica, orribile e dolcissima.
Solo il dolore, al pensiero dei figli, riesce a rimetterla in piedi, e la paura di uno spaventoso contraccolpo per la sua dimenticanza. “Il Giardino era tanto bello che lei ebbe paura dell’inferno”. Ana ritrova alla fine la via di casa, correndo “come se pencolasse sull’orlo di una catastrofe”, e gettandosi nell’abbraccio convulso del figlio, cui sussurra, esaltata e disgustata allo stesso tempo: “La vita è orribile, famelica”, per poi aggiungere, davanti allo sguardo intimidito del bambino: “Non permettere che la mamma si scordi di te”. Cosa è accaduto è la stessa autrice a dircelo, senza giri di parole: “Il suo cuore si era riempito della peggiore voglia di vivere”.
Una voglia di vivere connotata negativamente perché in evidente, inevitabile contrasto con la vita che Ana ha costruito, domandola e rinchiudendola entro argini che le erano apparsi solidi, e che minaccia di aggredirla di nuovo, ora che è stata scatenata dalla vista del cieco e incendiata dalla natura lussureggiante del Giardino Botanico, sebbene il racconto si chiuda con l’abbraccio rassicurante del marito, che la allontana nuovamente dal “pericolo di vivere”, e con Ana che si pettina davanti allo specchio, apparentemente in pace: “Per un attimo con nessun mondo nel cuore”.
L’immagine di qualcuno che si guarda allo specchio ritorna più volte, nei racconti di Clarice Lispector, e altrettanto spesso lo specchio è sostituito da qualcosa che ne ha la medesima funzione simbolica: la luna, o lo sguardo di un animale, come ne Il Bufalo, il racconto che chiude la raccolta, nel quale torna anche la violenza della natura, l’arroganza della primavera che impedisce a una donna respinta di godersi la pienezza dell’odio, della rabbia, o come ne Il delitto del professore di matematica nel quale è nello sguardo di un cane che si specchia l’inadeguatezza dell’uomo che l’ha abbandonato e ora non riesce a superare il senso di colpa. “Ci sono molti modi di essere colpevole, di perdersi definitivamente, di tradirsi, di non affrontare se stesso. Io ho scelto quello di ferire un cane”.
Specchio che giudica o che perdona, comunque presente, in special modo quando protagonista è una donna. Nel breve testo scritto in prima persona, Agua Viva, Clarice Lispector scrive: “Lo specchio è lo spazio più profondo che esiste”, e ancora “come un gatto che gonfia il pelo, io mi gonfio, fronteggiando me stessa”. Come per Frida Kahlo, lo specchio non è chiusura autocontemplativa, ma apertura verso l’abisso, guardarsi nello specchio senza distogliere lo sguardo è accettare di sprofondare verso l’inafferrabile e indicibile verità sotto la superficie, verità verso la quale la parola può solo tendere, senza arrivare mai a contenerla. “Non esiste la parola specchio” scrive ancora Lispector, “esistono gli specchi, e ognuno è un’infinità di specchi”. Lo specchio smaschera la finzione, la costruzione, per questo rappresenta una minaccia e un’opportunità al tempo stesso.
La purezza dell’odio e dell’amore, della fame e della sua soddisfazione sembrano appartenere per Lispector solo al regno animale, o all’animalità che l’essere umano ha perduto, complicando e sporcando quella purezza ancestrale con la costruzione di ritualità che lo condannano a un mondo falso e asfittico, a un tepore mortifero ed esangue. Il rito del cibo, descritto in modo quasi morboso ne La cena, o i vuoti codici che regolano i rapporti di famiglia, raccontati con implacabile umorismo in Buon Compleanno, o con serena lucidità in Legami familiari, appaiono a prima vista granitici e immutabili, ma il gioco della scrittrice è appunto quello di mostrarci la loro fragilità, inserendo l’imprevisto, l’infrazione minima al protocollo, che rivela il pericoloso bilico su cui si tengono in equilibrio le esistenze.
Nello splendido romanzo Una famiglia americana di Joyce Carol Oates, c’è una scena che di certo sarebbe piaciuta a Clarice Lispector, in chiusura del capitolo dal titolo, guarda caso, Codice di Famiglia. In questa scena l’unica figlia della famiglia protagonista, i Mulvaneys, la quale nasconde il doloroso segreto di uno stupro subìto, si trova in cucina con la madre, che si rivolge a lei apparentemente parlando del suo comportamento al canarino, come fa d’abitudine, quando intende punzecchiare amorevolmente marito o figli: il codice di famiglia vuole che l’interpellato le risponda fingendo a sua volta di rivolgersi al pennuto nella sua gabbietta.
È un gioco, o un rito, se non che quel giorno, in cucina, la ragazzina risponde invece, seccamente e direttamente alla madre, lasciandola mortificata e confusa. Il commento accorato del fratellino-narratore è perfetto: “Lo sapevi, Marianne: sapevi di come spezzando il codice quel giorno lo spezzasti per sempre? Per tutti noi?”
Se ci trovassimo nell’universo narrativo di Clarice Lispector è probabile che il dramma di un intero, voluminoso, romanzo sarebbe rimasto tutto distillato in quell’unica scena, nel momento di rottura dell’equilibrio. Nei racconti di Lispector qualcosa accade, a volte lasciando dietro di sé segni minimi, come lo stelo piegato di un giacinto, eppure è sufficiente a fare vacillare la complessità del costituito, basta perché famiglie felici si ritrovino in inquieta attesa nell’oscurità, perché un uomo non riesca più a leggere il suo giornale, pensando che sua moglie è uscita da sola con il figlio, condividendo forse un segreto che lo taglia fuori, perché una donna resti paralizzata nel suo salotto a causa di un mazzo di rose, perché diverse famiglie scoprano turbate la bramosia della tenerezza, il morboso desiderio di possesso, alla notizia apparsa sul giornale della scoperta della donna più piccola del mondo, corredata dalla sua fotografia, una donna intera, addirittura incinta, che si può tenere in braccio come una bambola, maneggiare come un giocattolo, e che scatena, a migliaia di chilometri di distanza, inconfessabili fantasie, mascherate sotto la patina rassicurante della tenerezza.
Un mondo pieno di denti e artigli, di desiderio febbrile e bisogni si muove sotto la superficie di esistenze tranquille e pacate, domate da consuetudini precise e strette dai nodi della familiarità, dell’amore e del dovere, un mondo che resta lì, però, pronto a mostrare le zanne, ma anche l’irresistibile bellezza dei suoi colori e delle sue forme pulsanti, capaci di ammalare di desiderio, sulla soglia tra repulsione e attrazione, un mondo che non si lascia dimenticare né ignorare, per quanto efficaci e robuste possano sembrare le dighe che l’uomo costruisce contro l’impeto di questo flusso potenzialmente distruttivo, potenzialmente salvifico.
La scrittura è allora lo specchio in cui il lettore non può smettere di guardarsi, mentre si spalancano per lui come per i protagonisti le finestre sul caos dell’esistente, mentre li segue nel loro percorso a spirale discendente, senza potersi sottrarre alla vertigine.
Legami familiari, Clarice Lispector, Feltrinelli, 1986