intervista di Giuseppe Ciarallo |
Maria Rosa Cutrufelli, che i lettori di Paginauno hanno già avuto modo d’incontrare all’uscita del suo precedente libro I bambini della ginestra (1), è da sempre scrittrice particolarmente interessata ad affrontare le tematiche legate alla condizione femminile. Narratrice, critica letteraria, curatrice di antologie di racconti, sceneggiatrice di radiodrammi per la Rai, insegnante di scrittura creativa presso l’Università La Sapienza di Roma, Maria Rosa Cutrufelli nel suo ultimo romanzo Il giudice delle donne (Frassinelli, 2016), ambientato agli inizi del secolo scorso narra la storia di un sogno che fu possibile realizzare solo successivamente, a distanza di mezzo secolo: quello del diritto di voto alle donne.
Il racconto ruota attorno a un fatto realmente accaduto nel 1906, quando dieci maestre chiesero provocatoriamente l’iscrizione alle liste elettorali e il giudice Lodovico Mortara, con grande meraviglia e scandalo da parte di tutti, diede loro ragione. Ciò che oggi sembra una cosa normale e scontata, alle coraggiose maestre marchigiane protagoniste del libro, donne che accesero la miccia delle rivendicazioni, costò sangue, sudore, lacrime e umiliazioni.
Dunque Maria Rosa, partirei dal titolo: Il giudice delle donne. Non credi che abbia spostato l’attenzione dalle vere protagoniste della storia, le coraggiose maestre promotrici della sacrosanta rivendicazione, a una figura certamente centrale nella vicenda ma in qualche modo solo consequenziale a esse?
Ci ho pensato molto. All’inizio doveva essere solo un ‘titolo di lavoro’, provvisorio. E infatti, una volta ultimato il libro, avevo pensato di cambiarlo e di mettere al centro le maestre, le vere protagoniste del racconto. Ma poi ho capito che non era giusto: se quella battaglia, a differenza delle altre che le donne hanno combattuto in tutta Italia, ha avuto un esito positivo (anche se soltanto per qualche mese), è per merito di Lodovico Mortara. È lui, con il suo sì, che ha reso giustizia alle dieci maestre marchigiane, e dunque la sua figura rappresenta lo ‘snodo’, per così dire, di tutto il racconto.
A dettare il ritmo del racconto ci sono due personaggi ‘minori’ in riferimento alla grande Storia: Alessandra, giovane maestra esuberante che ama sfidare i pregiudizi di una società a parole proiettata verso il futuro e il progresso, ma ancora ancorata a ideali vecchi e reazionari; Teresa, bambina che i drammi della vita hanno già trasformato in una donna, chiusa in se stessa, schiva, sospettosa di tutto e tutti. Per entrambe, la narrazione che cuci loro addosso è una sorta di romanzo di formazione…
È vero, e infatti considero questo libro un vero e proprio romanzo di formazione, che racconta la crescita emotiva, ma soprattutto intellettuale e politica, di una giovane donna e di un giovane uomo all’inizio del Novecento, un periodo storico ricco di aspettative (poi andate deluse, ahimè, e nella maniera più tragica). Anche la bambina Teresa, a modo suo, diventa ‘grande’ quando capisce che non può sottrarsi alla Storia, che ci attraversa e ci forma, nel bene come nel male. È a quel punto che l’emigrazione, ai suoi occhi, perde il carattere di ‘destino forzato’ e diventa una sfida da affrontare con l’arma della speranza.
Sullo sfondo, la scuola. Una scuola povera, con scarsi mezzi, in strutture fatiscenti e che in alcuni casi crollano. Sfogliando un antico dizionario mi sono reso conto che nell’Italia umbertina di fine XIX secolo, dove grande è lo spavento per il crescere della conflittualità sociale, con i movimenti socialista e anarchico che chiedono giustizia sociale, lavoro e anche istruzione, quella della scuola obbligatoria era considerata un’idea irrealizzabile (perché si voleva che non si realizzasse) tanto da essere citata a esempio nella voce Utopia nel Vocabolario della lingua parlata. Nuova edizione (Rugatini e Fanfani, G. Barbera Editore, 1893). Vedendo la situazione odierna, pare che l’istruzione (soprattutto se pubblica) non sia mai stata in cima ai pensieri dei nostri governanti, allora come oggi, anzi…
Sì, questo è davvero sconfortante. Mentre leggevo le cronache di quel periodo, mi stupivo per le tante analogie con l’oggi: il precariato, le sedi disagiate, la scarsa considerazione per il lavoro degli insegnanti, le aule fatiscenti, la mancanza di strumenti di lavoro adeguati… Non a caso Alessandra, la giovane supplente, protagonista del mio romanzo, a un certo punto dice: “Che tristezza! Non capisco la negligenza dei nostri governanti: la pubblica istruzione non dovrebbe essere il vanto, il biglietto da visita dell’Italia moderna?”
Per scrivere il romanzo avrai passato ore e ore nel faticoso lavoro di documentazione. C’è una cosa che mi incuriosisce e forse tu mi puoi aiutare: la storia è ambientata nelle Marche nel primo decennio del secolo scorso, luogo ed epoca in cui il movimento anarchico era particolarmente forte e attivo. Hai avuto modo di capire come questo movimento (sapendo la posizione anarchica in merito al voto) si poneva nei confronti delle rivendicazioni delle suffragiste?
In realtà, al di là della posizione ‘ufficiale’, gli atteggiamenti personali variavano… Per esempio, Emma Goldman era un’accesa antisuffragista (diceva che il problema, per le donne, consiste soprattutto nel liberarsi dai propri ‘tiranni interiori’), ma non tutte le anarco-femministe erano d’accordo con lei. Molte consideravano il suffragio come un importante passo avanti per l’espressione di sé.
Oggi le elezioni sono diventate una farsa, i partiti non hanno più linee politiche e peculiarità proprie, il voto è diventato pressoché inutile in quanto si fa fatica a cogliere diversità di programmi (e di moralità) tra i candidati, sembra premonitore il punto di vista del compagno sindacalista di Olga – una delle protagoniste – il quale in una delle ultime pagine del libro afferma che “il parlamentarismo è un fiasco colossale, che la democrazie e il voto in generale, non solo quello femminile, è ciarpame d’altri tempi”. Partendo da tali considerazioni, provocatoriamente ti chiedo: è valsa la pena mettere in campo così tanto impegno e sofferenza per ottenere uno strumento così vuoto di significato?
Il voto, nelle nostre società, è il riconoscimento che si è ‘cittadini’ a pieno titolo. Le donne sono ‘cittadine’ da poco, pochissimo tempo… Prima eravamo soltanto delle ‘anime morte’, senza peso in alcun campo del vivere associato. E se la cattiva politica tenta in tutti i modi di rendere inutile il suffragio popolare, di svuotarlo o addirittura di cancellarlo, è perché non si tratta ‘semplicemente’ di un diritto, ma anche di un ‘potere’. Un potere ‘negoziale’, come dicono i nostri giuristi più illuminati. E magari è per questo che ancora fa paura…
In conclusione, nel corso di una precedente intervista mi avevi detto che ti sarebbe piaciuto scrivere un romanzo di fantascienza. Hai accantonato l’idea o è ancora un pensiero che ti frulla per la testa?
Non abbandonerò mai l’idea… Mi tenta perché credo che sia il genere letterario più ‘politico’ e più adatto a raccontare gli incubi – e i sogni – del nostro tempo. Ma la mia penna è riluttante… Finora, almeno.
Maria Rosa Cutrufelli è nata a Messina, è cresciuta fra la Sicilia e Firenze, ha studiato a Bologna e ha scelto di vivere a Roma. Si è laureata in lettere presso l’Università di Bologna con una tesi sulle strutture del romanzo. Collabora con riviste letterarie e di critica. Tra i numerosissimi titoli della sua produzione letteraria nell’ambito della narrativa, della saggistica, dei libri di viaggio e per ragazzi, del racconto, segnaliamo i suoi ultimi romanzi: La donna che visse per un sogno, 2004; La briganta, 2005; Complice il dubbio, 2006; D’amore e d’odio, 2008; I bambini della Ginestra, 2012; Il giudice delle donne, 2016. Tutti pubblicati con la casa editrice Frassinelli.
1) Cfr. Giuseppe Ciarallo, Maria Rosa Cutrufelli. Il peso dell’inverità, Paginauno n. 29/2012