Che cosa significa “rilancio dell’economia”, cosa nasconde il processo di reindustrializzazione dell’Europa, e perché proprio ora?
La crisi dell’economia reale nei Paesi a capitalismo avanzato, seguita alla crisi finanziaria e alla crisi (speculazione) dei debiti sovrani, è stata lasciata andare alla deriva come una nave fantasma. Eppure capitani ce n’erano – la classe dirigente politica ed economica – e ciurma ce n’è sempre in abbondanza – lavoratori, pensionati… cittadini. Si può pensare che chi stabilisce la rotta sia incapace, o sedotto dal canto delle sirene, in questo caso quelle dell’ideologia neoliberista, ma è in genere una risposta di comodo, assolutoria, perché contempla l’attenuante della stupidità che porta con sé quella della buonafede. Ed è difficile credere a quest’ultima quando si leggono le relazioni che i ‘capitani’ si scambiano ai meeting e alle riunioni internazionali.
In tutte le analisi, la ragione della crisi è individuata nella deindustrializzazione messa in atto negli ultimi vent’anni. La globalizzazione, ossia la libera circolazione di merci e capitali che ha permesso la finanziarizzazione dell’economia e la delocalizzazione della produzione nei Paesi a basso costo del lavoro, è stata servita ai cittadini accompagnata dalla tesi secondo cui la chiusura delle fabbriche nei Paesi a capitalismo avanzato rispondeva a una naturale progressione della loro economia verso una struttura di tipo terziario.
Eppure già prima della crisi le classi dirigenti conoscevano il livello di integrazione del sistema economico, e sapevano che senza il comparto manifatturiero l’economia di un Paese tracolla. Nel luglio 2007, nel rapporto “La terziarizzazione dell’economia europea: è vera deindustrializzazione?”, il Servizio studi di Intesa San Paolo evidenziava quanto “l’aumento del peso dell’occupazione nei servizi delle economie europee, Italia compresa, possa essere spiegato soprattutto con la crescita dei servizi integrati con l’industria”: comunicazione, ricerca e sviluppo, informatica, trasporti, marketing, consulenza legale, contabile ecc.
Se le fabbriche di un Paese chiudono, insomma, perché delocalizzano o perché non reggono la concorrenza a bassi prezzi delle merci prodotte in Cina, Vietnam, Bangladesh, chiudono anche le imprese di servizi che vi ruotano intorno. Segue disoccupazione, crollo dei consumi, recessione. La fotografia dell’attuale Europa.
Oggi i capitani sembrano improvvisamente essere tornati al timone e parlano di reindustrializzazione. Diciotto mesi fa, nel gennaio 2013, Confindustria scriveva nel suo “Progetto per l’Italia: crescere si può, si deve” che “il perno del rilancio è la logica industriale centrata sul manifatturiero, intorno al quale in Italia ruota tutto il sistema produttivo del made in Italy, dall’agricoltura, al turismo, ai servizi”; il 29 aprile scorso il Comitato economico e sociale europeo (Cese) segnalava nella sua relazione “Riportare le industrie nell’Ue nel quadro del processo di reindustrializzazione” di essere “convinto che, per arrestare il declino economico dell’Unione, occorra rilanciare l’industria e in particolare quella manifatturiera, punto di forza della struttura produttiva […] riportando il peso dell’industria nella formazione del Pil europeo ad almeno il 20% dal 15,1% in cui si trova ora”, e che “il manifatturiero rimane la sala macchine della crescita economica: nelle regioni dove l’industria ha aumentato il suo peso relativo il Pil è cresciuto di più. […] L’industria ha un effetto trainante importante. Si calcola che cento posti di lavoro creati in questo settore ne permettono la nascita di altrettanti in altri ambiti dell’economia”; e sempre il Cese concludeva affermando che bisogna “individuare alcuni strumenti utili per sostenere l’iniziativa […] volta alla reindustrializzazione dell’Unione europea, nel cui ambito si pone il tema del rimpatrio delle imprese che hanno trasferito altrove le loro attività”. In una parola: reshoring.
Appurata quindi l’assenza di stupidità nella classe dirigente, occorre chiedersi perché è stata messa in atto la deindustrializzazione e soprattutto perché solo ora si è iniziato a invertire la rotta.
“Le aziende americane stanno rimpatriando progressivamente la produzione. Il cambiamento riflette la perdita per la Cina del vantaggio competitivo come centro di produzione a basso costo dopo anni di crescita rapida dei salari e una varietà di altri fattori. Uno degli elementi che hanno favorito il rimpatrio è stato determinato dalla riduzione dei prezzi dell’energia negli Stati Uniti” scrive il Cese. “Secondo il Boston Consulting Group, i primi tre fattori che determinano la decisione di reshoring sono: (i) il costo del lavoro, (ii) la vicinanza ai clienti, (iii) la qualità del prodotto. […] gli Stati Uniti stanno diventando il produttore a basso costo del mondo sviluppato, e così gli Stati Uniti appaiono sempre più attraenti”.
Da ormai tre anni la politica economica della Casa Bianca mira infatti a riportare la produzione di merci dentro i confini nazionali, offrendo alle imprese diverse tipologie di agevolazioni: basso costo energetico, grazie alle riserve di shalegas, lavoro ancora più ‘flessibile’ e sottopagato, sgravi fiscali sulle tasse societarie, sui profitti e sulle imposte di vendita. Secondo il New York Times, gli aiuti statali corrispondono a 80 miliardi di dollari l’anno, che fanno capo a 1.800 programmi gestiti direttamente dagli Stati federali o dalle municipalità (1). Un esempio su tutti: dietro la decisione della multinazionale Apple di riportare dall’Asia una parte di produzione, investendo ben 100 milioni di dollari in nuovi stabilimenti americani, ci sono 119 milioni di soldi pubblici offerti in incentivi annuali.
Per quanto più lentamente, anche in Europa il reshoring sta muovendo i suoi passi. Un sondaggio effettuato nel marzo scorso dalla Millward Brown per conto della Confindustria inglese, intervistando più di cinquanta manager delle maggiori aziende di Gran Bretagna, Italia, Germania, Francia e Olanda, rivela una “piccola ma crescente tendenza” al rimpatrio della produzione: il 40% è favorevole. Tuttavia, la Ue deve fare di più. Per tornare a produrre nel vecchio continente il 60% delle imprese chiede un alleggerimento della burocrazia e delle regole comunitarie, soprattutto nel campo dei servizi finanziari e dell’energia, e il 52% vuole un mercato del lavoro più flessibile (2).
Richieste a cui il Cese raccomanda di dare seguito: “Le politiche centrali a supporto delle industrie manifatturiere che scelgano di rilocalizzare e/o espandere il proprio business in Europa consistono nella creazione di un ambiente adeguato per le imprese che investono, competenze professionali, costi energetici competitivi, accesso ai finanziamenti e accesso ai mercati”, senza dimenticare che “affinché le imprese rimangano competitive è essenziale tenere sotto controllo anche il fattore costi, specie quelli salariali e quelli energetici, e adottare le misure necessarie a tal fine”.
Per creare quell’ambiente adeguato, sottolinea ancora il Cese, “i mezzi finanziari europei disponibili sono stati aumentati. Horizon 2020, il programma di ricerca, sviluppo e innovazione è stato portato da 54 a 80 miliardi di euro. I fondi strutturali e di investimento europei (fondi Esi) sono disponibili per gli Stati membri per un importo di almeno 100 miliardi di euro per finanziare l’investimento nell’innovazione, in linea con le priorità della politica industriale. Cosme, il programma europeo per la competitività delle imprese e Pmi 2014-2020, ha un budget dedicato di 2,3 miliardi di euro. Spire (Sustainable Process Industry through Resource and Energy Efficiency) è la nuova partnership pubblico privata firmata a dicembre 2013 e parte di Horizon 2020 con budget totale comunitario di 900 milioni di euro per i prossimi sette anni”. Dunque, diminuzione del costo del lavoro e di quello dell’energia, da una parte, e incentivi finanziari dall’altra. Esattamente come negli Stati Uniti.
Si potrebbe essere tentati di leggere questo rientro importante della politica nell’economica come una nuova forma di keynesismo, magari attuato lontano dai riflettori per non mettere ufficialmente in discussione l’ideologia neoliberista egemone. Niente di tutto questo. I soldi pubblici non vanno infatti ad alimentare investimenti statali – che nel pensiero di Keynes fungono da volano per il rilancio dell’intera economia e, contemporaneamente, creano occupazione e opere e infrastrutture a vantaggio di tutti i cittadini – ma finiscono nelle tasche delle aziende private, generando profitti: negli Stati Uniti attraverso la detassazione, nell’Unione europea con il sostegno alla produzione, tramite contributi nella quasi totalità a fondo perduto.
Nella sostanza, l’operazione sul manifatturiero non è diversa da quella precedentemente attuata nel comparto finanziario, quando le banche sono state salvate dalla crisi con ingenti aiuti pubblici e, di lì a poco, la speculazione è tornata a registrare utili. Si può ribattere che l’azione messa in campo sulle industrie andrà a generare occupazione, diversamente da quella operata nel settore finanziario, ed è vero, occorre tuttavia domandarsi che tipo di occupazione. Che cosa significhi “adottare le misure necessarie” al fine di tenere “sotto controllo” i costi salariali.
La globalizzazione è stata la risposta del capitalismo all’ennesima crisi ciclica del sistema (3). In una sintesi estremamente schematica, questo il percorso. Le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta del Novecento hanno contrastato lo sfruttamento del lavoro, ottenendo tutele e crescita delle retribuzioni; ciò ha creato i ‘consumatori’ e un mercato in grado di assorbire le merci prodotte, ma ha diminuito i profitti del Capitale. La conseguente risposta tecnologica – aumento della percentuale di capitale fisso (macchinari) su quello variabile (lavoro) – ha prodotto il corto circuito, causando il crollo del saggio di profitto – che solo la dinamica di sfruttamento può generare, attraverso la quota di lavoro non pagato che il capitalista incorpora. Per ripristinarlo, il Capitale ha dunque separato la fase di produzione da quella di vendita, delocalizzando la prima nei Paesi a basso costo del lavoro, sapendo che per qualche tempo il Primo Mondo avrebbe continuato ad assorbire le merci prodotte, anche grazie alla spinta di una economia basata sul debito – carte di credito, mutui e finanziamenti sempre più agevolati, finché la bolla finanziaria non è esplosa con i subprime, travolgendo l’intero sistema finanziario – e che poi, inevitabilmente, i consumi sarebbero crollati, come conseguenza della disoccupazione. A quel punto però sarebbero maturate le condizioni per riportare indietro le fabbriche, cogliendo il doppio obiettivo di ripristinare il mercato di vendita e il meccanismo di sfruttamento. La ciurma affamata, infatti, pur di non morire, avrebbe buttato a mare tutele e diritti del lavoro e ingoiato pane e acqua, magari anche con sentimento di gratitudine.
Non si tratta di un ‘complotto mondiale’ di una lobby o di una élite, ma della dinamica ontologica, naturale, del capitalismo; un sistema che ha contraddizioni interne che lo portano ciclicamente in crisi, ma che supera ogni volta, divenendo più forte, grazie alla complicità della sovrastruttura politica, che con leggi e normative disegna un mondo a sua misura. La crisi dell’economia reale nei Paesi avanzati è stata dunque lasciata andare alla deriva, ma la nave non era affatto fantasma: la deriva era la rotta. E la recessione non è affatto un iceberg imprevisto con cui le classi dirigenti sono improvvisamente entrate in collisione.
Anche se oggi un problema esiste, soprattutto per il Capitale italiano: occorre cogliere la fase del reshoring insieme agli altri Stati europei, pena la perdita del comparto manifatturiero. I tempi quindi stringono, e la politica deve agire in fretta. Il sondaggio della Millward Brown evidenzia che metà delle imprese tedesche interpellate ha già riportato nei confini nazionali una parte di produzione, mentre l’altro 50% conta di farlo nei prossimi tre anni; sul fronte italiano, solo il 29% è tornato e il 57% nega l’eventualità nel breve periodo. Diverse sono le differenze tra le strutture produttive dei due Paesi, non ultime quelle legate ai fattori corruzione, evasione e investimenti, ma un aspetto fondamentale è il mercato del lavoro. In Germania, fin dagli anni Novanta la contrattazione collettiva nazionale ha ceduto il posto a quella aziendale, in termini di salari, orari e organizzazione del lavoro – creando il contesto per un maggior sfruttamento – e tra il 2003 e il 2005 è divenuto operativo il Piano Hartz. Riforme che l’Italia non ha ancora conosciuto. Ai fini del reshoring, dunque, nel Belpaese il lavoro è ancora troppo tutelato e costoso.
Per quanto riguarda la contrattazione, Confindustria, Cgil Cisl e Uil si sono già organizzate per percorrere la medesima strada della Germania, con la sottoscrizione del Patto per la rappresentanza (4), mentre sul sistema lavoro ha già messo le mani il governo Renzi, con le modifiche attuate ai contratti a tempo determinato e il prossimo Job Act. “La Germania è un modello, non un nemico. Lo è quando penso al mercato del lavoro, o alla sua struttura pubblica” ha affermato Renzi (5).
Il Piano Hartz prende il nome da Peter Hartz, all’epoca membro del consiglio di amministrazione della Volkswagen, nominato nel 2002 dal governo del socialdemocratico Schröder a capo della Commissione incaricata di disegnare la nuova struttura del mercato del lavoro tedesco. Hartz non era l’unico manager a sedere al tavolo: il gruppo (15 persone) contemplava uomini alle dipendenze di DaimlerChrysler, BASF, Deutsche Bank e McKinsey. La composizione della Commissione rivelava, ancor prima di cominciare, quali interessi, tra Capitale e lavoro, si andavano a tutelare.
L’obiettivo dichiarato era creare occupazione. Ed è stata creata, si tratta sempre di vedere di che tipo. La riforma ha introdotto un sistema disciplinare e punitivo nei confronti dei disoccupati e fornito alle imprese un esercito di manodopera a basso costo e senza vincoli contrattuali; come inevitabile e aggiuntiva conseguenza, il livello di tutte le retribuzioni si è abbassato, grazie alla concorrenza innescata tra lavoratori, e sono diminuiti anche i rapporti tutelati, perché sostituiti da quelli ‘atipici’.
In estrema sintesi, così funziona dal 2005 il mercato del lavoro tedesco: chi perde l’impiego deve comunicarlo immediatamente al jobcenter, pena la riduzione dell’indennità di disoccupazione; dopodiché dovrà accettare qualsiasi – qualsiasi – lavoro gli venga proposto dall’agenzia di collocamento, rendersi ‘mobile’ sul piano geografico, materiale (retribuzione) e funzionale (professionalità), o verrà sanzionato con una riduzione del sussidio; nel caso in cui il lavoro abbia criteri di inaccettabilità, sarà a suo carico dimostrarlo; nel caso sia un disoccupato in forte stato di bisogno, dovrà accettare di fare lavori socialmente utili presso municipalità o istituzioni pubbliche per un massimo di trenta ore settimanali, pagate un euro l’ora (i cosiddetti one-euro-job): se rifiuta, il sussidio di disoccupazione potrà essere ridotto; infine, sul piano della normativa contrattuale, sono stati creati i mini-job.
Si tratta di occupazioni con uno stipendio netto massimo di 450 euro mensili e un limite di 15 ore settimanali – dunque, 7,5 euro l’ora. In realtà, poiché non esiste in Germania un salario minimo (a oggi esiste una proposta di fissarlo a 8,5 euro l’ora), gli accordi sul tempo lavorativo sono lasciati alle parti, e quindi spesso le ore lavorate sono più di 15, perché legate a una tariffa oraria inferiore. Le imposte a carico del datore di lavoro sono pari al 30%, mentre il lavoratore non ha oneri obbligatori ma solo una contribuzione volontaria pensionistica del 4,5% – una situazione, tra l’altro, che produrrà un futuro esercito di anziani poveri, perché gli irrisori contributi pensionistici produrranno una irrisoria pensione pubblica, e non è certo pensabile che con un simile salario sia possibile sottoscrivere piani privati di pensione integrativa. Su quasi 42 milioni di lavoratori tedeschi, ben 7,6 sono oggi occupati in mini-job: per 4,9 milioni è l’unico reddito, mentre per 2,7 si tratta di un secondo lavoro, necessario a integrare, magari in turni serali o nel fine settimana, lo scarso stipendio del primo.
Dietro la crescita dell’economia tedesca, dunque, si nasconde un violento sfruttamento del lavoratore. Il Pil della Germania è infatti trainato dalle esportazioni, non certo dal consumo interno, asfittico da anni; ed è proprio per evitare il punto di rottura, pericolosamente vicino a causa della recessione esplosa nei Paesi dove la Germania esporta, che il governo ha deciso di iniziare a sostenere il mercato interno, stabilendo un salario minimo.
Alla luce del modello di riferimento, assume un significato più pieno anche il concetto recentemente espresso dal ministro per il Lavoro Giuliano Poletti: “Nessuno deve restare a casa. Bisogna dare a tutti gli italiani un’occupazione, una cosa da fare, possibilmente un lavoro, ma non stare a casa” (6). One-euro-job, mini-job, qualsiasi cosa. La qualità del lavoro, e dunque la qualità della vita delle persone, non è più oggetto di discussione; conta solo rilanciare l’economia, ossia riportare il manifatturiero dentro i confini, sostenendo i profitti del Capitale.
E non è una novità – è stato il pacchetto Treu del 1997 (governo Prodi) a istituire la precarietà – né un caso che anche in Italia, come in Germania, sia (quel che una volta era) la sinistra a costruire il nuovo sistema di sfruttamento. Se lo avesse fatto la destra, è probabile che molti lavoratori si sarebbero ribellati: nonostante la crisi, nonostante la disoccupazione, nonostante il pieno assorbimento del pensiero unico neoliberista calato dall’alto, avrebbero reagito al pane e acqua, anche solo per riflesso pavloviano. Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io.
L’industria tornerà quindi in Europa e in Italia, il Pil tornerà a registrare valori positivi, ma in una società in cui lo sfruttamento del lavoro sarà sempre più feroce e il welfare sempre più ridotto: la contropartita di bilancio a fronte delle uscite a favore dei profitti delle imprese sarà infatti un ulteriore taglio allo stato sociale, come già accaduto quando i soldi pubblici hanno traghettato fuori dalla crisi il sistema finanziario. A conti fatti, una violenta lotta di classe dall’alto, da cui non sarà possibile difendersi se, per usare le categorie di Marx, la classe in sé non tornerà a essere classe per sé. Ma come hanno dimostrato le ultime elezioni europee, i lavoratori apprezzano il dinamismo di Renzi, l’urgenza del fare, il nuovo capitano che ha preso in mano il timone; senza comprendere che l’urgenza che morde la coda a Renzi è quella del Capitale. Riportare al centro del dibattito il pensiero di sinistra è innanzitutto un processo culturale, e in quanto tale, dai tempi lunghi; e non può che ripartire dal basso, iniziando a comprendere che il lavoro, oggi, è privo di rappresentanza politica. Controcultura e controinformazione sono le uniche armi, e il campo di battaglia non è quello parlamentare (7).
1) Cfr. Marco Valsania, Dagli Usa 80 miliardi per riportare le aziende in patria, Il Sole 24 ore, 9 gennaio 2013
3) Cfr. Globalizzazione, capitale, lavoro, Giovanna Cracco, Paginauno n. 36/2014
4) Cfr. La Governabilità del lavoro, Giovanna Cracco, Paginauno n. 37/2014
5) Matteo Renzi intervistato da Fabio Martini, La Stampa, 31 maggio 2014
6) Lavoro: Poletti, nessuno deve restare a casa, Adnkronos, 13 marzo 2014
7) Segnalo a tal proposito l’ottima inchiesta dei Clash City Workers, Dove sono i nostri – Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, edito da La casa Usher