Colpo di Stato o rivoluzione per la democrazia? Analisi di una scontro tra imperialismi
L’8 febbraio del 2013 su Tm News è comparsa una strana dichiarazione del ministro della Difesa americano, ex capo della Cia, Leon Panetta. Secondo questa pubblica dichiarazione ci sarebbe stato uno scontro di vedute tra il Pentagono e la Casa Bianca, cioè tra lo stesso Panetta e il presidente Obama, su un piano di armamento dell’opposizione al regime di Bashar el Assad nella Siria travagliata da una sanguinosa guerra civile. Per Panetta e Petreus, anch’egli proveniente dalle file della Cia, nonché dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton, gli aiuti militari all’opposizione non dovevano fare molti distinguo, mentre per il presidente Obama occorreva valutare nelle mani di chi sarebbero andate le armi fornite dal governo americano. Nulla di più verosimile, succede che all’interno di un governo ci possano essere divergenze di valutazione su un tema particolarmente delicato come questo – era già successo agli inizi degli anni Sessanta tra J.F. Kennedy e il suo ministro della Difesa Mc Namara sulle strategie da tenere in Vietnam – ma un paio di cose lasciano perplessi e ci consentono di introdurre l’argomento della crisi siriana.
La prima riguarda la strana opportunità regalata da Panetta a Obama durante il periodo elettorale delle presidenziali. La dichiarazione, infatti, calata nel contesto elettorale, suona in termini come questi: “Io il cattivo, lui il buono e la bontà ha avuto il sopravvento come era nella logica delle cose”. Una sorta di assist, apparentemente non richiesto, al rieletto presidente. La seconda è che gli aiuti in soldi, armi, tecnici militari ecc. sono cominciati sin dall’esordio della crisi siriana e non a partire dal gennaio 2013. Nell’aprile successivo, per non correre rischi presso l’opinione pubblica, lo stesso Obama ha ufficializzato la vendita di armi ai ribelli per circa 190 milioni di dollari.
Infatti il presunto scontro tra Obama e il Pentagono-Cia non riguardava il distinguo sul tentativo imperialistico americano di abbattere il regime di Assad, ci avrebbero dovuto pensare almeno due anni prima e poi un simile dubbio non è mai stato in programma, ma il comportamento da tenersi con le forze di opposizione (jihadisti e qaedisti) a cui venivano fornite le armi sin dall’inizio della crisi siriana. In altri termini la questione era: continuare a foraggiare questa opposizione con il risultato di ritrovarsi al potere un regime islamista, con tutti i rischi del caso (vedi Egitto, Tunisia e Afghanistan in tempi non lontani) o individuare, semmai creare ex novo, un nuovo soggetto politico ‘laico’ o ‘moderatamente religioso’ che facesse meglio alla bisogna.
L’eliminazione degli Stati canaglia
Nonostante le dichiarazioni dell’amministrazione Obama di dare vita a un processo di distensione internazionale che avrebbe visto progressivamente diminuire l’aggressività dell’imperialismo americano nei ‘segmenti caldi’ dello scacchiere orientale e medio orientale, le cose sono rimaste esattamente come prima, come all’epoca di Bush. I tanto enfatizzati ritiri dall’Iraq e dall’Afghanistan, quale dimostrazione di buona volontà e di coerenza con le promesse elettorali, valgono ben poco.
Nel primo caso la decisione di ritirare le truppe l’aveva già presa Bush, a Obama è spettato solo il compito di proseguirla sino a compimento. La tragica quanto fallimentare campagna di Babilonia si era definitivamente chiusa dopo che il governo di Al Maliki aveva voltato le spalle alle amministrazioni americane trattando, addirittura, con il nemico numero uno degli Usa, il tanto demonizzato Iran. L’ingovernabilità del Paese, nonostante l’impegno militare e le faraoniche cifre sborsate dal Tesoro statunitense, la sconfitta di alcune majors petrolifere americane all’asta di Baghdad (1), avevano fatto il resto.
Premio di consolazione, costruito con ferocia imperialistica e senso pragmatico, è stata la creazione della Repubblica curda del nord dell’Iraq, sotto la gestione di Massoud Barzani, che ha finalmente concesso alla Exxon e alla Chevron di usufruire di quel petrolio per cui, nel 2003, è partita l’operazione di guerra, contrabbandata come operazione di ‘inoculamento forzato della democrazia’ o, se si preferisce, di esportazione forzosa della stessa. Per l’Afghanistan stesso copione di sconfitta ma senza il premio di consolazione, per cui il democratico Obama ha pensato bene di annunciare il ritiro, ma solo nel 2014 e mantenendo una serie di presìdi militari a guardia di un’area che, per molti versi, continua a rivestire un ruolo di grande rilevanza strategica in chiave Pakistan e, in prospettiva, nei confronti dell’Iran.
Archiviate, o quasi, le due ingombranti pratiche, il lavoro sporco di sempre continua. Anche se note, certe dichiarazioni è sempre bene ripeterle. Nel 2007 quando ancora alla Casa Bianca l’ospite era Bush, il generale americano Wesleey Clark, in una intervista rilasciata a Amy Goodman, dichiarava candidamente che l’amministrazione di allora aveva da tempo programmato di eliminare dalla scena politica internazionale sette Paesi in cinque anni perché davano fastidio al perseguimento degli interessi Usa in un’area che parte dal Corno d’Africa al solito Medio Oriente.
L’elenco andava dalla Somalia, Sudan, Iraq, Iran, Libia, Libano, alla Siria. Stranamente il generale si era dimenticato dell’Afghanistan ma per il resto gli obiettivi identificati erano stati più o meno intensamente interessati dalle attività belliche e di intelligence di Washington.
Il primo passo verso la Siria è stato mosso nel 2005 partendo dal Libano, il secondo nel marzo del 2011 direttamente contro Damasco, nel mezzo una serie di accadimenti legati ai passaggi petroliferi, ai ricollocamenti strategici, agli allineamenti imperialistici in chiave anti-Iran e anti-Russia.
Nel 2005 il ‘Fondo Nazionale per la Democrazia’ del dipartimento di Stato americano inizia a elaborare e a tradurre in pratica una serie di azioni di informazione e disinformazione, di finanziamenti occulti a favore di forze sociali libanesi d’opposizione, con penetrazione di armi e materiale militare informatico, con il dichiarato scopo di innescare un processo rivoluzionario, quello che di lì a poco sarebbe stata la rivoluzione del cedro sotto la direzione del filo occidentale Saad Hariri. Fine ultimo quello di sottrarre il Libano all’influenza siriana e iraniana, propaggini tentacolari della nuove piovra russa che, proprio in quegli anni stava diventando il primo esportatore al mondo di energia (gas e petrolio), grazie alle fonti energetiche del Kazakistan, in concorrenza con l’Occidente europeo e con gli stessi Stati Uniti.
Le vicende legate all’elezione di Rafiq Hariri, alla sua uccisione e alla successiva elezione del figlio Saad Hariri, rientrano nel quadro di destabilizzazione del regime libanese, del ridimensionamento degli Hezbollah, quale primo passo per mettere in crisi la stessa Siria.
Sempre nel 2005 un esperto di Medio Oriente e di questioni libanesi-siriane, uno dei più ascoltati esperti del presidente Bush, ebbe modo di dichiarare: “Sia il governo siriano che quello libanese verranno rimpiazzati, piaccia loro o meno, con un colpo di Stato militare o con qualche altra operazione… e ci stiamo lavorando”. In tempi più recenti, ufficialmente a partite dal marzo 2011, anche la Siria è stata interessata dalla valanga della primavera araba.
La crisi economica e i suoi effetti collaterali hanno cominciato a pesare sulle già vuote tasche della popolazione. Normale che, sull’onda di quanto stava avvenendo in altre parti del mondo arabo, l’insoddisfazione di lavoratori, dei proletari e dei piccolo borghesi in via di proletarizzazione, abbia inscenato manifestazioni di protesta contro il regime di Assad che, per le misure economiche prese e per arroganza politico-istituzionale (non va dimenticato come la Repubblica presidenziale siriana sia di fatto ereditaria, una monarchia della famiglia alawita degli Assad), non era dissimile dalle altre dittature dell’area come la Tunisia di Ali, l’Egitto di Mubarak, la Libia di Gheddafi o l’Iraq del rais Hussein. Le proteste per l’arroganza del potere, per la dilagante corruzione e per il processo di pauperizzazione erano elementi comuni alle diverse esperienze del Nord Africa. La differenza parziale, perché anche negli episodi precedenti c’è stato lo zampino della Cia e del Pentagono, è che l’operatività dell’intelligence americana si è spesa in anticipo e con particolare applicazione, in collaborazione con la Nato, come per il precedente episodio libico.
Il Dipartimento di Stato americano come prima mossa ha riciclato il Gruppo Combattente libico islamico, tollerato dalla Nato e dallo stesso governo americano, nonostante venisse considerato come una organizzazione terroristica al numero 27 della speciale graduatoria, affinché iniziasse a operare in territorio siriano. Contemporaneamente la Cia, sotto copertura Nato comme d’abitude, ha finanziato, armato e coperto l’organizzazione di Abdul Hakim Belhadj legato al franchising di Al Qaeda in terra di Damasco e di altre formazioni della galassia anti-Assad. Questo è l’inizio politico e organizzativo di quello che sarà, di lì a poco, battezzato come l’Esercito Libero siriano, all’interno del quale hanno trovato spazio e ruolo le più reazionarie forze legate all’islamismo integralista tra cui l’onnipresente Fratellanza Musulmana di matrice domestica. Armi, logistica varia, soldi e appoggi di ogni tipo sono arrivati anche dall’Arabia Saudita, dal Qatar oltre che dai già citati promotori, gli Stati Uniti.
Le azioni di guerriglia e di disturbo partono immediatamente con obiettivi militari come ferrovie, oleodotti, caserme di polizia ma non mancano attentati contro mezzi pubblici e abitazioni civili. Il regime ha risposto con contro-manifestazioni nelle più importanti città, dando vita anche a pesanti repressioni che hanno colpito indistintamente avversari politici e civili. Ma sullo scenario siriano non va in onda soltanto il tentativo americano di cancellare dalla cartina politica del Medio Oriente il regime di Assad, non c’è soltanto lo strenuo tentativo del piccolo Golia alawita di conservare il suo potere, è anche in atto una partita più ampia che vede presenti e operanti la Cina e, soprattutto, la Russia e l’Iran.
Per l’asse Mosca-Pechino la Siria è, e deve rimanere, un baluardo nel sud est del Mediterraneo che garantisca la compattezza di un’area gassifero-petrolifera che ha il suo vertice nord nel Kazakistan, quello sud-est nell’Iran e quello sud-ovest nella Siria, non perché interessante da un punto di vista estrattivo, ma perché il suo porto di Latakia sul Mediterraneo può svolgere ruoli alternativi alle già tracciate vie di commercializzazione. Non da ultimo, la sua posizione strategica ai confini con l’Iraq, quale percorso obbligato verso l’Iran, e con la poco affidabile Turchia, consente al regime di Damasco di godere della copertura politica di Russia e Cina. Non soltanto i suoi interessati alleati si sono mossi all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu (febbraio 2012) impedendo che uscisse una risoluzione che consentisse un intervento armato contro Assad, in sintonia con quanto successo alla Libia di Gheddafi, ma hanno operato perché Damasco ricevesse armi e sostegno militare via mare, proprio grazie all’agibilità russa del porto di Latakia e di quello di Tartus, da sempre base militare russa sin dai tempi dell’Urss.
In gioco, dunque, non c’è la sopravvivenza del regime della dinastia degli Assad, come non è nella realtà dei fatti che ci sia un movimento che lo voglia rovesciare in nome di una ‘democrazia’ tanto improbabile quanto il regime che combatte, ma il dominio economico e strategico di un’area, nei contorni della quale si muovono i grandi interessi imperialistici internazionali.
Le strategie d’area e il ruolo della Turchia
Partendo sempre dalle pressioni americane contro il governo di Bashar el Assad, l’imperialismo americano ha, tra le altre disinformazioni, prodotto quella relativa al fatto che, in Siria, si combatterebbe una sorta di guerra di religione tra sunniti, che rappresenterebbero il variegato mondo dell’opposizione e gli sciiti, di cui fa parte la piccola confessione alawita, quella di Assad, per il momento ancora al potere. Il giochino è vecchio quanto la storia del mondo, ma sembra ancora funzionare perlomeno come fumo negli occhi di chi, per inconsapevolezza o interesse, cade nel tranello o lo utilizza al meglio.
Che i fattori di razza, etnia, di appartenenza tribale o religiosa abbiano avuto nel passato e abbiano tuttora, a queste latitudini politiche, svolto un ruolo di aggregazione sociale, e quindi, base per uno schema di operatività all’interno di movimenti sociali e di guerre civili, è un dato di fatto. Ma è altrettanto vero che dietro e dentro simili sovrastrutture operi deterministicamente l’interesse politico ed economico che della religione, o di altro orpello ideologico, coglie l’aspetto esterno, sovrastrutturale, per usarlo ai suoi fini concreti e materiali. Nella fattispecie l’affabulazione pretenderebbe di descrivere uno scontro tra un potere dispotico, quello di Damasco, retto da una minoranza religiosa sciita, e una opposizione democratica di ispirazione religiosa sunnita. Conseguentemente si spiegherebbe anche il fronte internazionale che si è andato costituendo tra Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Giordania da una parte, governo siriano, Iran e Hezbollah libanesi dall’altra.
Dove i buoni da sostenere, aiutare, finanziare e armare sono i primi, mentre quelli da combattere con ogni mezzo, i cattivi, sono i secondi. La stessa affabulazione non dice che le cose andrebbero allo stesso modo a termini rovesciati e, men che meno, che dietro i due blocchi religiosi operano poderosi e ineludibili interessi economici e strategici di enormi proporzioni, legati alla rendita petrolifera, ai rispettivi ruoli di egemonia nell’area di piccoli e grandi imperialismi, che del fattore religioso hanno fatto una potente arma di propaganda e di azione sociale, sia in termini di eversione che di conservazione, a seconda dei ruoli e delle necessità contingenti.
All’interno di queste dinamiche imperialistiche merita un cenno particolare il ruolo della Turchia. Da sempre alleata degli Usa, Ankara ha rivestito un ruolo importante negli equilibri politici e militari nel Mediterraneo, sia come terreno d’appoggio della VI flotta americana, sia come fattore di compensazione nella annosa questione tra lo Stato d’Israele e le varie frange del nazionalismo palestinese. Il suo collocamento all’interno della sfera politica americana era giunto al punto di sottoscrivere un patto di alleanza militare con Israele (1996), creando di fatto un mini blocco che fungesse da baluardo al contro altare degli alleati della Russia, in primis Iran e Siria. Il trattato prevedeva inoltre una serie di accordi economici e finanziari tra i due Paesi, anche se la parte militare aveva un peso specifico maggiore, sia per i soggetti sottoscrittori, sia per gli stessi Stati Uniti.
L’equilibrio patrocinato dagli Usa e alimentato dai governi di Ankara e Tel Aviv è sembrato entrare pesantemente in crisi soltanto dodici anni dopo. Un primo elemento di squilibrio è stata l’operazione Piombo fuso del dicembre 2008-gennaio 2009. Un secondo episodio è stata la feroce reazione dello Stato di Israele al tentativo di forzare il blocco navale contro Gaza da parte di una flottiglia di pacifisti internazionali il 31 maggio del 2010, con otto morti turchi e relative rotture diplomatiche.
L’attrito, pur non arrivando a cancellare il trattato del 1996, lo ha messo in forte discussione al punto che, pochi mesi dopo, una esercitazione navale in ambito Nato tra la Turchia e gli Usa, non ha visto la partecipazione di Israele. Rottura dunque, messa in crisi dei rapporti diplomatici, economici e, quello che più conta, di quel mini blocco tanto funzionale alle strategie americane nel Mediterraneo.
In parte questa è stata la dinamica dei fatti anche se, sulle cause, ci sarebbe da aggiungere qualcosa. Se gli episodi prima citati, operazione Piombo fuso ed episodio della flottiglia, sono stati dei fattori scatenanti la crisi tra i due Stati, alla base c’è soprattutto un cambio di atteggiamento da parte del governo turco sugli equilibri e sui ruoli precedentemente difesi e interpretati.
Elemento determinante è la sua posizione strategica per quanto riguarda l’intreccio di realizzazioni e di progetti di vecchie e nuove pipeline dall’Asia centrale verso l’Europa. Sul suo territorio passa il BTC (l’oleodotto che parte da Baku per arrivare a Ceyhan in Turchia, passando per Tbilisi).
La Turchia di fatto possiede le più grandi vie energetiche dell’area. Vari gasdotti collegano Istanbul e Ankara con i maggiori centri industriali del Paese. Un gasdotto collega il terminale di Ceyhan con Tel Aviv. Inoltre la Turchia importa il gas dalla Georgia, dal Caucaso e dall’Iran. Il progetto russo del South Stream passerà nelle acque territoriali di Ankara che ha già concesso il permesso di transito a Mosca.
* Articolo pubblicato su Prometeo, gennaio 2014
(1) Cfr. Fabio Damen, Iraq: l’asta petrolifera e la sconfitta delle Oil company americane, Paginauno n. 20/2010