Il Leibniz-Institut ha contato 1.200 nuove parole tedesche legate alla pandemia, l’italiano segue: espressioni che toccano le relazioni di potere e portano avanti un sistema di valori. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” scriveva Wittgenstein: sappiamo con cosa stiamo parlando?
La formazione di parole risponde a dei bisogni, pragmatici e cognitivi: serve a denominare le cose e i concetti del mondo. Nel momento in cui un’entità riceve un nome, essa guadagna un posto nel mondo.
La pandemia ha contagiato e contaminato il modo di parlare. Già esistono studi su come il vocabolario quotidiano si è arricchito. Tra questi risalta quello del Leibniz-Institut für Deutsche Sprache di Mannheim (1), centro specializzato in studi sociolinguistici, che tiene sotto osservazione le parole da marzo 2020. Il progetto condotto da Annette Klosa-Kückelhaus, Christine Möhrs e Maike Park ha l’obiettivo di raccogliere e sistematizzare l’onda d’urto delle nuove parole tedesche generatesi in questi quasi quattordici mesi di pandemia Covid-19. Sono stati finora catalogati oltre 1.200 vocaboli, dei quali più di 300 cominciano con Corona- o Covid-, e non dovrebbe sorprendere se si pensa alla lingua tedesca e a quanto il processo composizionale sia in essa produttivo. Ma si può notare come la ‘nostra’ mascherina si sia fatta determinante, ossia significante, di una ventina di parole; praticamente, più di una al mese.
A dire il vero, ben prima del Covid i linguisti tedeschi avevano introdotto una rubrica di parole sotto osservazione, mantenendo comunque separata la catalogazione dei termini relati alla pandemia. Base della ricerca è il Deutsches Referenkorpus che esiste dal 1964 e comprende 50 miliardi di lemmi testuali.
Analogamente stanno lavorando l’Istituto di linguistica applicata dell’Eurac Research di Bolzano (trilingue: italiano, tedesco, ladino) (2), l’Instituut voor de Nederlandse Taal, centro di linguistica olandese (3), e il Translation Centre europeo (4). Nei Paesi Bassi la parola dell’anno 2020 è stata Ander|halve|meter|samenleving (“la vita vissuta un metro e mezzo di distanza gli uni dagli altri”, i separatori sono aggiunti per la comprensione italiana); e vale sottolineare che in questa nuova parola, il contesto in cui la parola stessa nasce è, se non altro morfologicamente, sottaciuto. In questo senso non si può non richiamare Wittgenstein, che nel Tractatus logico-philosophicus scrive: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.
Sappiamo dunque con cosa stiamo parlando?
Premesse linguistiche: il tedesco e l’italiano
Con diversi gradi di produttività, la composizione e la derivazione sono i procedimenti che più contribuiscono ad arricchire il lessico di una lingua di nuovi elementi. Prendendo spunto dalla mole di dati raccolta dalle ricercatrici del Leibniz-Institut für Deutsche Sprache, consideriamo le potenzialità compositive del tedesco e dell’italiano, per cercare di rapportarci in maniera analitica con i nuovi vocaboli di quest’ultimo; senza entrare in dettagli tecnici eccessivi che ci porterebbero fuori strada.
Per ‘composizione’ si intende, secondo la voce del dizionario Treccani a firma di Claudio Iacobini, un procedimento morfologico che permette di formare parole nuove combinando morfemi lessicali, cioè parole autonome. I composti diventano lessemi se entrano nel vocabolario di una lingua. La maggior parte dei vocaboli del lessico tedesco sono parole composte, e questo spiega l’elevato numero di vocaboli (oltre 1.200) trovati dalle tre ricercatrici del Leibniz-Institut.
La composizione forma parole lessicali, cioè adatte a essere immagazzinate nel lessico mentale e a essere reperite poi dall’utente della lingua come singole unità. La composizione sfrutta la vaghezza del significato delle parole e l’indeterminazione della relazione tra gli elementi formativi: l’esperienza del parlante e la convenzione stabilita dicono quale sia il fenomeno materiale di cui si sta trattando.
Esistono diversi tipologie di composti, quello tipico racchiude un rapporto gerarchico di determinazione: il determinante specifica una caratteristiche dell’altro costituente, il determinato, che di norma funge da testa semantica e sintattica. Per individuare la testa semantica si utilizza il test “è un”.
Per esempio, l’annuncio del 6 maggio 2020 del primo Maskomat bavarese: un distributore automatico di mascherine. In italiano potrebbe diventare la “macchinetta delle mascherine”, così come abbiamo creato la “macchinetta del caffè”. Magari divenendo protagonista totemico della giornata lavorativa di una piccola azienda, o di un ufficio o di una sit com, annullando così, attraverso un triste sarcasmo, la sua funzione primaria. Un po’ come è avvenuto nel passaggio a mascherine personalizzate. Da qui, arrivare ad “Automask” – parola di invenzione di chi scrive – non dovrebbe apparire troppo fantascientifico, se immaginiamo una mascherina pluriaccessoriata, magari in grado di donare un massaggio rigenerante alla cute o chissà cos’altro; già esistono mascherine con gli auricolari incorporati, senza addentrarsi nel clownesco.
Nel lessico italiano molte parole composte hanno come origine un sintagma (5) (esempi: “vado via”, “costo della vita”); è inoltre possibile formare nomi da verbi per mezzo della suffissazione e della conversione dai temi verbali del presente o per nominalizzazione delle forme non-finite (esempi: “lavorazione”, “battitore”, “il correre”, “il laureando”); esistono poi le parole polirematiche, come “anima gemella”, “carta di credito”, “acqua e sapone”; infine gli idiomi sono costrutti convenzionali caratterizzati dall’abbinare un significato fisso (poco o affatto modificabile) a un significato non composizionale (che non è ricavabile dai significati dei componenti dell’espressione) (esempi: “tirare le cuoia”, “rompere il ghiaccio”).
Sulla creazione di parole agisce poi la demotivazione, ossia un processo diacronico che oscura il confine tra composti e parole semplici: i costituenti che formano i composti non sono più riconosciuti dagli utenti come morfemi lessicali (ossia come parole autonome combinate fra loro), e il composto viene considerato alla stregua di un’unica parola.
Nell’interpretazione di un nuovo composto, infine, è importante il contesto. Le parole si inseriscono nel co-testo e nel contesto e rimandano alla conoscenza enciclopedica degli utenti. Il contesto incide sulla relazione tra gli elementi formativi anche più delle caratteristiche semantiche dei singoli costituenti, quindi va visto come motore pragmatico del processo creativo delle parole e può polarizzare l’interpretazione di formazioni plurivoche, come “lavapiatti” (la persona addetta a lavare i piatti, ma anche l’apposita macchina).
In italiano le parole composte sono meno numerose rispetto al tedesco; per rendere gli stessi concetti si preferisce la derivazione (“dentista”, da “dente”) e la formazione di strutture sintattiche (“ferro da stiro”). Confrontando le due lingue, dunque, a un unico lessema tedesco corrisponde, nella maggior parte dei casi, un’espressione analitica in italiano. Anche nell’abbinamento verbo-nome, per cogliere il senso del composto italiano nella sua totalità è necessario ‘uscire’ dagli elementi costituenti: a differenza del tedesco, sussiste un rapporto di reggenza sintattica tra verbo e nome a cui bisogna guardare.
Le nuove parole in Covid-19
Impfneid (il senso di invidia che si prova nei confronti di chi è già stato vaccinato); Abstandsbier (la birra bevuta con altri ma con la distanza di sicurezza); Klopapierhamster (chi durante il lockdown fa scorte eccessive di carta igienica); Kuschelkontakt (un contatto, cioè una persona-contatto, qualcuno che si può vedere, nonostante il distanziamento, ‘per le coccole’: da Kuscheln, ‘coccolarsi’); Maskentrottel (chi non indossa correttamente la mascherina: da Trottel, scemo). Sono giusto alcune nuove parole riportate nello studio tedesco del Leibniz-Institut.
Al di là della predisposizione compositiva del tedesco a coniare lessico, la pandemia ha portato molte lingue (tutte?), a creare parole; non in modo altrettanto prosaico ed esplicito, ma, forte anche della velocità con cui si è imposta, ha modellato il patrimonio linguistico già in essere. Non che si possa considerare la pandemia un agente, una sorta di mitologico ente surnatante sulle nostre vite reali: vi si riferiscono piuttosto tutte le possibili relazioni di potere, che ne sono state pesantemente toccate. Relazioni che guidano la costruzione e che in qualche modo portano avanti, venendone a loro volta influenzate, un sistema di valori.
Questo turbamento sembra aver radicato, in questo anno e oltre, il proprio carattere globale, inclusivo e di reclusione. Quindi possiamo considerare i parlanti (Noi, richiamando l’avanguardistico romanzo di Zamjatin) introdotti, in un processo di omologazione, verso un lessico pandemistico, come risultante di un processo storico che ha avuto bisogno di descrittori nuovi. O che ha saputo pescare nella sofferenza di molti, un’infinità di nuovi bisogni o di bisogni più adatti a un determinato modo di vivere, imposto dal virus e dalle istituzioni.
Ma il linguaggio, seppur nuovo e rinnovato, non dovrebbe essere considerato a priori figlio della pandemia. Dovrebbe rimanere abilità creativa dell’uomo che vive il proprio contesto, in termini reali e figurativi. È importante dunque che il contesto non prevalga su quella che è una competenza flessibile e pluripotente, fissandola in un rigore di convenzioni che rispecchia la regolamentazione del comportamento in maniera trasversale.
Esplorando il Neologismenwörterbuch (il dizionario dei neologismi) dell’Istituto Leibniz ci inoltriamo in un bosco di parole regolarmente strutturate ma dal significato poliedrico, soprattutto se decontestualizzato. Perché oltre a un contesto produttivo, dovremmo considerare anche il contesto come campo d’uso di nuove forme di produzione. Tredici parole associate a “party” (per lo più virtuale), un ventina di composti con la parola “distanza” (Distanz) come determinante. Vi si legge dell’Einkaufshelfer (chi aiuta qualcun altro con gli acquisti), dell’agghiacciante e commovente CoronaFußgruß (corona saluto-piede, dove il desiderio di contatto, se è lecito usare questa parola, prova a convivere con l’obbligo di distanza), di Balkonsänger (il cantante del balcone, o dal balcone), di Hamsteritis (urgenza di accumulare cibo, da Hamster, criceto). La poetica arriva a richiamare alla morte invece che aiutare a superarne il trauma: si trova infatti Todesküsschen (bacio della morte) per definire un bacio amichevole sulla guancia, che deve essere ostracizzato in quanto gesto rischioso. Infine la quarantena, Quarantaene, si fa determinante o determinato di circa quindici composti.
Nel vocabolario italiano, appoggiandoci al supporto del Glossario Covid-19 elaborato nell’ambito del progetto di collaborazione fra Eurac Research e l’Ufficio Questioni linguistiche della Provincia autonoma di Bolzano (ConsTerm), balza all’occhio come, anche per ‘limitatezza’ nelle potenzialità compositive dell’idioma, ci siano diverse forme ellittiche, il che di per sé presuppone un’elaborazione psicolinguistica meno diretta di un singolo lessema. Per esempio: “semimaschera” (forma ellittica di “respiratore a semimaschera”), “mascherina chirurgica” (forma ellittica di “mascherina medico-chirurgica”), “isolamento fiduciario” (“isolamento domiciliare fiduciario”), “focolaio” (“focolaio epidemico”), “distanza interpersonale” (“distanza di sicurezza interpersonale”), “autoisolamento” (“autoisolamento domiciliare”).
Come nel dizionario dei neologismi tedesco, anche in quello trilingue sono riportate le definizioni. Quella di “distanziamento sociale”, adottata anche dall’Istituto Superiore di Sanità, suona così: “Misura di salute pubblica consistente in diversi tipi di intervento, che vanno ad aggiungersi ad altri provvedimenti come la promozione di una maggiore igiene delle mani o l’utilizzo di mascherine, allo scopo di prevenire contagi e contenere un’epidemia. Fra gli interventi più comuni si annoverano l’isolamento dei pazienti, l’individuazione e la sorveglianza dei contatti, la quarantena per le persone esposte, la chiusura delle scuole e dei luoghi di lavoro o l’adozione di metodi per lezioni scolastiche/universitarie e lavoro a distanza. Si aggiungono inoltre anche i provvedimenti che limitano l’assembramento di persone, come le manifestazioni sportive, fino ad arrivare alla restrizione dei viaggi internazionali” (6).
Se consideriamo il sintagma nei suoi costituenti, a partire da un dizionario antecedente al 2020, possiamo definire nelle loro funzioni di concetti, e come parti del discorso dotate di specifiche caratteristiche, le parole “distanziamento” e “sociale”. Potremmo poi, senza filtri interpretativi precostituiti, considerare il particolare tipo di condizione che deriva dal fatto che lo stiamo sperimentando da più di un anno, a causa della pandemia da Coronavirus. Invece, con il pacchetto lessicale ci viene fornito anche un pacchetto semantico. Il distanziamento sociale diventa specifico non solo dello spazio tra due corpi ma diventa i corpi stessi, che devono essere rivestiti in un certo modo e adottare determinate relazioni con lo spazio. Ecco che ci viene consegnato anche l’insieme delle relazioni di potere interne ed esterne, sul corpo e tra i corpi.
Giornalisti e linguisti si affacciano con curiosità e una certa dose di simpatia verso la creatività lessicale di questi tempi. Negli interventi, facilmente reperibili sul web, si sottolinea come le persone abbiano traslato, forse per necessità pratica, forse per necessità psicologica a non abbandonare il legame a una realtà pre-pandemia, il campo semantico e d’uso di oggetti comuni, protagonisti di una mediana quotidianità, irrinunciabili: scopa, vestiti, parti del proprio corpo diventano unità di misura, assimilate ai segni che ormai tappezzano le strade su cui camminiamo, le vetrine (buie) attraverso cui cerchiamo un movimento umano. Frecce bidirezionali, linee tratteggiate, figure umane stilizzate le cui posture vitruviane dettano le proporzioni di uno spazio sicuro. Non manca l’ironia: “covida” (movida in epoca Covid), “covidiota”, “coronazi”, “corona-fake”, “coglionavirus”, anche se il procedimento compositivo è meno diretto di quello tedesco, tanto da risultare (per fortuna ancora!) forzato. Ma assieme alle espressioni goliardiche, il nuovo parlato e scritto, anche tecnico in senso lato, pullula di acronimi, composti, polirematiche, sintagmi e locuzioni di vario tipo che denunciano sentimenti negativi, soprattutto se privati di spazio e tempo di elaborazione proattiva: paura, ansia, angoscia, tristezza, rabbia. Si fa credito di significato anche a parole che sono nate prima della pandemia, ma che forse erano sinora rimaste all’interno di nicchie d’uso.
Per esempio, “Fomo”: acronimo di “Fear of missing out” (paura di rimanere escluso), “che si riferisce alla sensazione d’ansia provata da chi teme di essere privato di qualcosa di importante se non manifesta assiduamente la sua presenza tramite i mezzi di comunicazione e di partecipazione sociale elettronici interattivi”, recita la Treccani. Si è giunti a parlare di “vaccine Fomo”, a cui si danno risposte di confortante attesa, il turno arriverà per tutti, con vocazione quasi evangelica. “Vaccine Fomo, we’ve got it bad. People lucking into spare doses. Friends gathering with friends. Family members making travel plans. Other people’s vaccines are making us jealous” (Vaccine Fomo, siamo messi male. Gente che ha la fortuna di avere dosi di riserva. Amici che si riuniscono con amici. Familiari che fanno piani di viaggio. I vaccini degli altri ci rendono gelosi), si legge su The Boston Globe il 15 marzo 2021. “Dopo il Covid arriverà la Fomo. E l’ansia di vivere tutto quello che abbiamo perso. Fomo, Fobo (essere paralizzati di fronte a qualsiasi decisione, n.d.a.) e Foda (restare definitivamente paralizzati, immobili, n.d.a.): sono tutte facce della stessa medaglia. Quella che portiamo addosso da quando abbiamo i social e li usiamo per confrontare ogni attimo della nostra vita con quello che stanno facendo gli altri”, racconta l’Huffington Post (7) citando Patrick J. Mc Ginnis, studioso di Fomo dal 2004.
Mc Ginnis ne vede persino un potenziale risvolto positivo: “La Fomo, se tenuta sotto controllo, può fornire l’ispirazione per crescere, per affrontare un imprevisto, cogliere un rischio o per apportare un cambiamento nella tua vita. Puoi davvero imparare molto dalla Fomo se la ascolti. Dopotutto, ti sussurra costantemente all’orecchio per darti idee e ispirazioni. […] Se ti ritrovi ad avere sempre paura di essere tagliato fuori dalle opportunità o dalle decisioni, forse dovresti ascoltare quella vocina nella tua testa, quella che chiede: «E se?». La tua intuizione potrebbe dirti qualcosa di importante: che dovresti aprire gli occhi, guardarti intorno e provare qualcosa di nuovo. Affrontare un nuovo obiettivo, fare un nuovo passo e spezzare la routine. C’è un modo per canalizzare la tua paura per sempre. Prova a pensare in modo diverso. Smetti di ignorare le possibilità che si presentano, e pensa invece a come potresti effettivamente realizzarle”. Anche per Fobo e Foda si può trovare una soluzione, secondo lo studioso: “La chiave per prendere decisioni più rapide è avere un sistema di priorità (cioè concentrare il tuo tempo e la tua energia su decisioni importanti e non irrilevanti), poi strutturare un processo decisionale basato su fatti e dati, non sulle paure”.
E così, a una paura che abbraccia l’esistenza, fatta di salute corporea e relazioni intraspecifiche, si può pragmaticamente rispondere a suon di dati, di fatti, di strutturazioni di processi. Sars-Cov2 non avrebbe dunque intaccato il nostro globale essere postmoderni e la Fomo potrebbe diventare una risorsa sociale ed economica: gli influencer la pongono tra le opzioni per accelerare la campagna vaccinale (8).
In Lingue e Culture dei Media (9) anche Ilaria Bonomi e Mario Piotti si sono interrogati sui mutamenti e le innovazioni lessicali, e riportano alcuni neologismi costruiti sulla testa “corona”: “coronabond”, “corona-fake”, “corona-shopping”, e composti come “emergenza coronavirus”, “coronavirus economy”. Proliferano anche in italiano gli acronimi (esempio: DAD) e nuove parole nel campo semantico della distanza: “covidarium” o “reparto bolla”, “distanza doplet”, “mantenere il distanziamento” (e non la distanza).
Esiste poi la rivivificazione di parole preesistenti: “quarantena”, a cui si può opporre più modernamente e genericamente “isolamento” per ciò che dovrebbe comunicare al soggetto/oggetto. Empiricamente, si può andare su Google e avviare la ricerca: circa 16 milioni di risultati. E solo dalla seconda pagina si iniziano a trovare definizioni estranee, che di fatto precedono, l’attuale contesto pandemico. Oppure “coprifuoco”: 3 milioni di risultati. Forse perché abbiamo atteso la seconda ondata per rivivificare il vocabolo, la ricerca riporta la definizione di Wikipedia in primis, ma poi seguono Dpcm, multe, zone colorate.
Il neologismo può nascere anche dall’insieme di elementi grafici (lettere) in una sequenza già nota ma la cui concettualizzazione diventa ambigua o addirittura slitta verso altri mondi: “positivo”, “tampone”, “virale”.
Gli anglicismi vengono ben prima del coronavirus Sars-Cov2. L’Unione Nazionale Consumatori (10) riporta dieci termini necessari per spiegare la pandemia, dei quali lockdown: “in italiano si può tradurre con le parole ‘blocco’ o ‘isolamento’. Con l’inizio della pandemia è stato utilizzato in Italia in riferimento alle misure di contenimento (chiusura di attività considerate non primarie, blocco degli spostamenti) attuate dal governo, così come da altri Paesi, per limitare al massimo il contatto tra persone e contenere così il contagio”. Siamo dunque al cospetto di un sostantivo anglofono che abbiamo assimilato non nel suo significato primario e letterale (blocco o isolamento) ma già come risultato di una elaborazione e un’astrazione: in seno a tale sequenza di lettere è descritto un comportamento. Quindi con una sola parola arriviamo diretti a una narrazione, senza necessità di esplicitarne la contestualizzazione, o la specificazione qualitativa o quantitativa delle relazioni agente-azione/agente-agente che la sottendono.
Possiamo anche considerare come la percezione emozionale stia mutando (se non è già completamente ribaltata) rispetto ad alcune parole, ed è evidente nel fatto che nei ‘nuovi vocabolari’ vengono sottolineate le sfumature cangianti dei lemmi. Nella sua lista, Claudia Fiasca su Fondazione Leonardo (11) evidenzia come “abbracciare” sia un atto vietato, come il “bollettino” sia da subito quello dei contagi e dei morti.
Sorte toccata anche a “maschera”, che di per sé traduce finzione, occultamento, de-soggettivazione, alterità. Si definisce antropologicamente come “finto volto, di cartapesta, legno o altro materiale, riproducente lineamenti umani, animali o del tutto immaginari e generalmente fornito di fori per gli occhi e la bocca” scrive la Treccani. Fin dal Paleolitico usiamo le maschere per sdoppiarci: “Significato e funzione variano […] di modo che ogni generalizzazione sarebbe arbitraria. Volendo fissare tuttavia, genericamente, alcuni significati più frequenti, si può dire, anzitutto, che l’atto di portare una maschera implica normalmente il desiderio di cancellare o nascondere temporaneamente l’individualità umana del soggetto, sostituendole un personaggio diverso”. Adesso è metonimia e sineddoche di dispositivi di protezione, di riparo, di difesa, di non-contagio.
Anche l’Esercito cambia ruolo e si mostra un’entità semantica flessibile: ha trasportato le salme della prima ondata, si prepara alla chiamata alle vaccinazioni.
Mentre l’ondata, nella sua accezione fenomenologica, fa acqua da tutti i pori (mi si perdoni la facile battuta). Ormai, nel parlato, va di pari passo al bollettino sopra citato, tenendosi ben lontana dal mare.
Infine, rivivificazioni e slittamenti bene si inseriscono in un continuum di retorica che ha recuperato ampi campi culturali: epica e guerra l’hanno fatta da padrone.
Il marketing cavalca il virus
Negli anni ‘50 lo psicologo Abraham Maslow ha proposto un modello motivazionale dello sviluppo umano. Sussiste in una gerarchia di bisogni, disposti a piramide – da cui la “piramide di Maslow” – in base alla quale la soddisfazione dei più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore. Dopo i bisogni essenziali fisiologici (fame, sete, sonno, termoregolazione) vengono quelli di sicurezza (protezione, tranquillità, prevedibilità, soppressione di preoccupazioni e ansie ecc.). Tendendo al vertice si incontrano i bisogni più immateriali, fino al compimento dell’aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere sfruttando le facoltà mentali e fisiche.
Non si può negare che gli italiani, ma non solo, abbiano salito i primi gradini della piramide nelle iniziali fasi della pandemia, a primavera 2020, e forse si stiano ora dotando di ‘competenze’ per raggiungere il vertice. Si dovrebbe riflettere se, nel ritornare a guardare ai bisogni essenziali, siamo stati protagonisti attivi o passivi, e se si stanno ponendo le basi, se non altro economiche, per evitare di sentire l’esigenza, al termine di Covid-19, di cambiare piramide. Ma poiché il tempo stringe su molti fronti – economico, dei vaccini, dei contagi e dei morti – è necessario che l’offerta si predisponga ad accogliere le istanze di necessità, anche selezionando, in nome del profitto, alcune di esse a scapito di altre.
In modo confondente vale la pena dunque, da parte delle imprese, far sì che ci sia spazio mentale e volitivo per arricchire le competenze digitali e di pianificazione, in video-pantomime di riunioni di lavoro, di aperitivi, di natali e di capodanni. Condizione necessaria per ottenerlo è aggiornare la propria comunicazione, gli spazi (virtuali), le scelte linguistiche. Al marketing non sono mancate le occasioni di lavorare, insomma, e i brand hanno potuto cogliere un’opportunità di riflessione sulla loro identità (figurata!), sui punti di forza, sulle debolezze, sulla differenziazione al fine di emergere. Perché l’importanza di rimanere in sintonia con il proprio ‘pubblico’ è capitale!
Raffaella Pierpaoli, a giugno 2020, su Network Digital 360 riportava alcuni esempi: “Esselunga ha dimostrato la sua gratitudine verso i suoi dipendenti ma anche verso i suoi clienti con un video, Tesco con #foodlovestories li ha direttamente coinvolti per realizzare uno spot, Paluani ha continuato la sua strategia su Instagram usando l’ironia anche in un momento difficile come il lockdown, mentre Nutella con l’hashtag #vasettochallenge ha coinvolto la sua community nel riutilizzare il vasetto nelle forme più creative, mentre il Paese era costretto a restare a casa. Coca-Cola ha, invece, fatto una scelta diversa sospendendo, ma comunicandolo, tutta la pubblicità e donando in Italia 1,3 milioni di euro a Croce Rossa Italiana assieme a Cesare Cremonini toccando il ‘bisogno di sicurezza’” (12).
Benedetta Gargiulo, a novembre 2020, sottolineava che “il cliente si deve sempre riconoscere in messaggi che parlano il suo linguaggio, che si sintonizzano con le sue emozioni rispondendo ai suoi bisogni consci e inconsci” (13). Ma è anche possibile che sia più facile agire su un cliente fragile e instabile (emotivamente ed economicamente, soprattutto), polarizzarne i bisogni e far sì che i suoi sistemi di riconoscimento dei messaggi siano più direttamente aperti ad assimilarne alcuni, tra i tanti proposti; in modo non casuale, ovviamente.
Sembra inoltre che i brand abbiano dei valori. Francesca Casadei, parlando di strategia di marketing, sottolineava a novembre 2020 che alcune imprese hanno vinto sulla negatività della pandemia sapendo bilanciare “la comunicazione di benefit di natura funzionale con la comunicazione di benefit di natura personale, esattamente come accade nelle relazioni umane. Durante il blocco primaverile 2020 molte aziende hanno offerto servizi e prodotti utili per stare vicini alle persone e altre hanno usato la comunicazione per raccontare una storia” (14). Creare una relazione, una reciprocità con i consumatori, conversazioni multilaterali, più reti di comunicazione e quindi più consumatori, è dunque l’obiettivo a cui dovrebbero puntare i brand.
Con la solita ricerca su Google emerge chiaramente come il marketing sia tutt’altro che depresso e sconfortato dalla diffusione di Sars-Cov2. I nomi dei siti evocano ninja, accelerator, guru, beyond limits, mentre i titoli degli articoli guardano già oltre, after- o post-Covid. Magnifiche sorti e progressive!
Tra le merci più vendute, la mascherina, ovviamente, essendo l’uso obbligatorio per legge. E ben presto sono comparse le “mascherine personalizzabili”. “Tra gli articoli più richiesti in questo periodo ci sono le mascherine personalizzate, non sono soltanto utili ma addirittura necessarie per tutti, dai bambini agli adulti, dagli studenti ai lavoratori. Si tratta inoltre di un gadget aziendale che ha una altissima visibilità perché le scritte o i loghi presenti sulle mascherine vengono notati da chiunque entri a contatto con le persone che le indossano” (15). “La nostra Mascherina Ultra presenta un’area dedicata per la stampa del tuo logo e slogan. Dotato di elastici flessibili e materiale morbido, il modello Ultra è una soluzione comoda ed elegante per le situazioni in cui viene suggerito o richiesto di coprire il viso. Ordina in grandi quantità le mascherine per la tua azienda” (16). “Se stai cercando una mascherina da indossare quotidianamente durante le tue uscite, al supermercato, in ufficio o per strada, Pixartprinting mette a tua disposizione una vasta gamma di opzioni. Scegli tra la Mascherina Basic, la trumask e la Ninja Mask. Personalizza la tua oppure scopri tutti i design disponibili” (17).
Comoda? Elegante? Gadget. Dal campo della salute al merchandising. Per inciso: la mascherina non serve a coprire il viso ma a evitare una trasmissione interindividuale di caratteristici veicoli di microrganismi potenzialmente patogeni. Ed è difficile riuscire a stratificare nella piramide di Maslow le capacità, le funzioni e le competenze che permetterebbero di personalizzare un dispositivo di protezione, che in quanto tale allontana il soggetto da tutto ciò che di comunitario e sociale si vorrebbe attribuire al dispositivo stesso (simpatia, eleganza, comunicazione…).
Conclusioni
Le nuove parole, i mutamenti gergali, saranno destinati a resistere? A restare dopo essersi diffusi, a creare una propria immunità di gregge senza più la necessità di nominare i referenti – la pandemia Covid-19 – a cui rimandano?
Vale la pena riflettere anche sul piano temporale. Una delle trasformazioni più importanti avvenute in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente fu la rottura dell’unità linguistica, basata sull’uso del latino. Si ebbe il passaggio a numerosi idiomi locali. In Italia, l’esigenza di una lingua unitaria maturò tra il 1200 e il 1300, con la nascita della letteratura in volgare. La linguistica studia le parole come risultanti di processi che viaggiano attraverso i secoli. Ancora oggi si fa riferimento a categorizzazioni che ci riportano alle origini ‘indo’ del parlato ‘europeo’. Quindi il percorso da morfema, a occasionalismo, a lessema è una vera avventura, non un passaggio immediato.
La produttività di un processo di formazione è soggetta a restrizioni a tutti i livelli della lingua, sul piano fonologico, morfologico, sintattico, semantico e pragmatico; per coniare un nuovo termine deve sussistere un concreto bisogno di denominazione. Molti composti morfologicamente motivati non entreranno mai nel lessico, poiché esauriscono il bisogno comunicativo nel preciso contesto in cui vengono formulati. Il linguaggio pertanto non è un fenomeno culturale statico (intendendo con ‘culturale’ anche antropologico e sociale, e perché no, economico); è un epifenomeno dinamico che muta con i cambiamenti del modus vivendi, usi e costumi, a sua volta influenzandoli.
È innegabile che Sars-Cov2 e i suoi riflessi pandemici abbiano stravolto il nostro modo di vivere. Non è tanto questo che dovrebbe sorprendere, ma la rapidità con cui il cambiamento è avvenuto. Il nostro modo di comunicare si è adattato con la stessa velocità.
Parallelamente al linguaggio, in maniera solidale a esso, si modifica il modo in cui pensiamo: in termini di scala di valori, di tempo relativo all’attività cerebrale esplicitata, quanto essa può essere parte di processi cognitivi impliciti (una volta che si impara a guidare o a sfogliare un libro da destra a sinistra, non si ragiona su ciascun singolo passaggio per evitare che l’auto si spenga o per cercare un senso logico a frasi stampate). La rapidità del formarsi e diffondersi di nuove parole, in quest’epoca di pandemia Covid-19, non può dunque essere sottaciuta né può essere accettata come del tutto casuale. Ci dovremmo chiedere quanta lestezza, tempestività, urgenza possano indurre un’inversione di ruoli: quanto l’immissione di queste numerose nuove parole sia in grado di plasmare il nostro modo di pensare; quanto, apparentemente semplici e scontate, costruzioni fonologiche e grafologiche, possano in breve tempo consolidarsi in locuzioni semantiche, in concettualizzazioni di uno status quo che supera la storia in quanto processo in divenire. Se possiamo accettare che la pandemia Covid-19 faccia parte di questa epoca storica, possiamo speculare sul fatto che il nostro modo di comunicare abbia fatto un passo più lungo, andando oltre, ponendo forse le basi perché si costituisca un sur-pensiero (per citare Augé) di un uomo nuovo?
Considerando dunque che la plurifattorialità andrebbe sempre presupposta nel mutamento linguistico, con cosa stiamo parlando? Con un sistema di termini di tipologia ancora morfemica e che possiamo tenere a freno nella soffocante atmosfera della pandemia Covid-19? O stiamo facendo pratica con una prassi comunicativa che ci manterrà distanti, isolati, in trepidante attesa di un vissuto fuori posto ma pervicacemente alla ricerca di un posto nella comunità del silenzio e della paura, nel reale fuor di virtuale, nella fisicità che oggi solo i brand ci consegnano, con le loro merci, per il loro profitto e il nostro consumo?
Per concludere e dissipare qualsiasi imputazione di moralismo, torna utile una precisazione dal Leibniz-Institut für Deutsche Sprache, relativa alla strutturazione di un dizionario: “In media le parole vengono monitorate per due o tre anni prima di essere raccolte in un dizionario. Se il vocabolo è legato a uno specifico settore, lo studio può durare fino a dieci anni”, poiché in questo caso occorre aspettare che la parola passi dal linguaggio settoriale all’uso comune. Anche no.
1) https://www1.ids-mannheim.de/neologismen-in-der-coronapandemie/
4) https://cdt.europa.eu/en/news/covid-19-multilingual-terminology-available-iate
5) “Il sintagma è una struttura linguistica costituita o da una sola parola o da una combinazione di (due o più) elementi che formano un’unità costruita intorno a un nucleo (denominato testa del sintagma) e dotata di comportamento sintattico unitario”, cit. da dizionario Treccani
6) https://www.iss.it:24.03.2020/Ralli
7) Nicoletta Moncalero, Dopo il Covid arriverà la Fomo. E l’ansia di vivere tutto quello che abbiamo perso, Huffington Post, 10 marzo 2021
8) https://hbswk.hbs.edu/item/how-influencers-celebrities-and-fomo-can-win-over-vaccine-skeptics
9) Cfr. Translation Centre europeo, cit.
10) Cfr. Rocco Bellantone, Covid-19, tutte le nuove parole della pandemia, Consumatori.it, 3 novembre 2020 https://www.consumatori.it/emergenza-coronavirus/covid-19-vocabolario-pandemia/
11) https://fondazioneleonardo-cdm.com/it/news/dizionario-del-coronavirus-1/
12) Raffaella Pierpaoli, La piramide di Maslow e la sua attualità nella comunicazione, Network Digital 360, 3 giugno 2020 https://www.digital4.biz/marketing/la-piramide-di-maslow-e-la-sua-attualita-nella-comunicazione/
13) Benedetta Gargiulo, Copywriting perno del marketing online: dà le “parole giuste” alla brand experience, Network Digital 360, 6 novembre 2020 https://www.digital4.biz/marketing/copywriting-seo/
14) Francesca Casadei, Dal Media Planning alla Media Experience: così la pandemia cambia la comunicazione dei brand, Network Digital 360, 12 novembre 2020 https://www.digital4.biz/marketing/brand-purpose-avere-uno-scopo-comune/
15) https://www.stampasi.it/mascherine-personalizzate
16) https://www.flashbay.it/mascherine/ultra
17) https://www.pixartprinting.it/emergenza-coronavirus/dispositivi-protezione/