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Home Cultura Letteratura

La rivolta dei malfattori

Rivista Paginauno by Rivista Paginauno
10 Dicembre 2008
in Letteratura
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La rivolta dei malfattori
  • (Paginauno n. 10, dicembre 2008 – gennaio 2009)
di Giuseppe Ciarallo

La rivolta nel Matese del 1877 nelle pagine de ‘Gli internazionalisti’, Pier Carlo Masini, edizioni L’Avanti!, 1958

Che la storia venga immancabilmente scritta dai vincitori, è cosa ormai assodata e ampiamente condivisa (confuso sembra però essere il concetto di vincitori e vinti, in un’epoca in cui gli sconfitti di ieri tornano a reclamare uno spazio e una dignità già negati loro dalla storia).
Poco chiare appaiono invece le logiche che portano il potere a rimuovere, quando non addirittura a cancellare, alcuni episodi piuttosto che altri.
Ad esempio i moti del 1898, scoppiati in tutta la penisola e culminati nelle cannonate di Bava Beccaris a Milano – repressione che lasciò sul selciato un centinaio di morti e quattrocento feriti – pur raccontati quasi esclusivamente da fonti filogovernative, sono fatti noti e documentati. Lo stesso dicasi per gli attentati di quegli anni, a sovrani e capi di Stato, a opera di giovani anarchici mossi unicamente da spirito vendicatore e da ideali di libertà e giustizia sociale.

Altri episodi, invece, sono stati taciuti e col passare del tempo, gettati nel dimenticatoio. Uno per tutti, il tentativo di un gruppo di rivoluzionari – messo in atto nel 1877 tra i monti del Matese – di far scoccare la scintilla della rivolta tra i contadini della zona, fondando una repubblica anarchica.

I fatti, narrati in modo preciso e dettagliato da Pier Carlo Masini nel suo appassionante libro Gli internazionalisti, edito nel 1958 dalle Edizioni L’Avanti e mai più ristampato, sono i seguenti: l’8 aprile del 1877, un gruppo di 26 anarchici capeggiati da Carlo Cafiero e Errico Malatesta, giunsero a Letino, paesino sperduto sui monti tra Molise e Campania. Il luogo apparentemente inespugnabile, dove il brigantaggio aveva a lungo spadroneggiato, era stato ritenuto ideale per quella che doveva essere una vera e propria azione di guerriglia. I ribelli occuparono il palazzo municipale, poi, nella piazza antistante fecero un gran falò di tutti gli atti di proprietà, carte comunali e catastali. Proclamarono, quindi, decaduta la monarchia e invitarono i contadini a riprendersi la terra che, essendo un bene comune come l’aria e l’acqua, non poteva e non doveva diventare proprietà privata. La folla era entusiasta e le parole di Cafiero conquistarono persino il parroco il quale, nella foga del momento, pare che inneggiò alla rivoluzione sociale, paragonò il Vangelo al socialismo e definì gli internazionalisti, apostoli della parola di Cristo. Nel paese di Gallo, gli anarchici ripeterono l’azione e anche qui vennero accolti come liberatori.

Ma la reazione delle forze governative era pronta a scattare. Traditi dalla guida che avrebbe dovuto condurli in salvo attraverso i luoghi impervi del Matese, gli anarchici vagarono nella neve per tre giorni, senza viveri e munizioni, con i paesi del circondario ormai occupati dai soldati del regio esercito. La mattina dell’11 aprile, vennero alfine individuati, accerchiati e catturati da un battaglione di bersaglieri. Si chiude in questo modo il sogno di una rivoluzione sociale capace di restituire al popolo orgoglio, dignità e soprattutto terra per poter lavorare e vivere.

C’è più di un pregio, nell’opera di Pier Carlo Masini, il quale non si limita a ripescare un episodio importante della storia del movimento operaio, ma lo rivisita criticamente anche in aperto contrasto con gli storici del dopoguerra, unanimemente allineati alle direttive del Pci. Togliatti aveva così dipinto, in maniera sprezzante, i moti del Matese: “In Italia il bakunismo (sic!) aveva avuto occasione di dare solo qualche prova di sé, e la prova fu miserevole: disordinati, irresponsabili tentativi di rivolta di contadini e di braccianti, condannati a finire nel nulla, capaci soltanto di mostrare la vanità della tattica anarchica dei colpi di mano”.

Questa impietosa analisi non fa che evidenziare quella che sarà sempre alla base della distanza teorica e pratica tra comunisti e anarchici. I primi, graniticamente legati all’idea del Partito come fulcro di qualsiasi azione di lotta, i secondi invece inclini al totale rifiuto di qualsiasi tipo di organizzazione rigida, di gerarchia e quindi di potere.
Queste due visioni contrapposte esploderanno in tutta la loro drammaticità nel disastro della Guerra civile spagnola, momento storico spartiacque che il movimento operaio internazionale vivrà come la fine di una speranza: la liberazione dell’uomo attraverso una rivoluzione proletaria.

Ma tornando alla Banda del Matese, dopo l’intervento di Togliatti alcuni degli storici che si occuparono della questione liquidarono il moto rivoluzionario come “prodotto dell’esasperazione contadina e riflesso della crisi della vecchia nobiltà borbonica” e come “atto di infantilismo anarchico ed espressione del grado arretrato di sviluppo di questo movimento”. Altri, invece, indicarono l’episodio come ottimo pretesto, offerto dagli Internazionalisti su un piatto d’argento alla reazione, per perseguitare anche quelle correnti socialiste contrarie alla tattica insurrezionale. Quest’ultima tesi, come sappiamo, è da sempre utilizzata dagli ‘immobilisti’ di ogni tempo, luogo e schieramento, i quali vedono (temono) ogni azione come motivo di controffensiva da parte dell’avversario (da qualche anno, più di un buontempone è arrivato ad affermare che persino le stragi nazifasciste siano state la naturale reazione agli attacchi del movimento partigiano!).

Masini, invece, vede in quel gruppo di uomini, in quel movimento seppur ‘arretrato’ e confuso, un’avanguardia coraggiosa e illuminata capace di indicare al popolo la via della riscossa e del socialismo. Non solo, nella prefazione l’autore denuncia anche l’equivoco innescato da certa critica di matrice comunista, che imputava i fatti del ’77 a Bakunin e alle idee da lui propagandate. Masini molto acutamente osserva che azioni come i moti del Matese sono invece insite nella tradizione tutta italiana delle imprese risorgimentali di stampo mazziniano, e che Bakunin polemizzò apertamente contro queste tattiche esortando sempre i propri seguaci ad azioni di massa anziché a piccole congiure o a iniziative individuali e settarie.

Il libro Gli internazionalisti, dunque, ha due grandi meriti: l’aver riportato alla luce un importante episodio della nostra storia e averlo fatto con una voce fuori dal coro, libera dagli interessi di bottega e dalla storiografia ufficiale, quest’ultima sempre un po’ ingessata e ammuffita quando deve sottostare all’uniformante pressa del pragmatismo politico.

Gli internazionalisti, Pier Carlo Masini, Edizioni L’Avanti!, 1958

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