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Home Economia Lavoro

Articolo 18: chi non lo conosce e chi finge di non conoscerlo

Rivista Paginauno by Rivista Paginauno
10 Aprile 2012
in Lavoro
0
  • (Paginauno n. 27, aprile – maggio 2012)
di Massimo Vaggi e Alberto Piccinini

Tra ignoranza e propaganda, il testo della legge

Questa primo o poi ci toccava, che si parlasse – ma soprattutto si straparlasse – dell’articolo 18. Ad aprile, quando uscirà questo numero di Paginauno, la vicenda avrà probabilmente avuto un esito politico: gli incontri con le parti sociali del governo Monti qualcosa produrranno… Ma in verità qualcosa già è stato prodotto: qualcosa di grave, un fatto che inquieta e continuerà a inquietare chi auspica che le discussioni su temi politico/sindacali, nel nostro Paese, siano condotte e trasmesse se non altro con un minimo di rispetto del criterio di correttezza dell’informazione. Appare sconcertante, almeno tra gli operatori giuridici (avvocati, magistrati) che quotidianamente hanno a che fare per il loro lavoro con la tematica dei licenziamenti, il livello di approssimazione e di cosciente o incosciente travisamento della realtà (ma: cosa è peggio, in fondo? La malafede o la straordinaria cialtroneria?) con cui tanti autorevoli personaggi della politica, del giornalismo e persino dell’economia affrontano l’argomento, contribuendo ad alimentare una campagna di disinformazione che sembra avere pochi precedenti.

Sta infatti entrando nella convinzione del cittadino (che non abbia, in prima persona o attraverso persone vicine, vissuto il dramma della perdita del posto di lavoro) la falsa, falsissima impressione che in Italia sia pressoché impossibile licenziare, persino nei casi in cui un’impresa, in comprovate difficoltà economiche e finanziarie, magari con forte calo di ordini e bilanci in rosso, avrebbe necessità di ridurre il proprio personale (caso spesso citato nei dibattiti televisivi per mostrare l’assurdità di una legislazione che ingessi fino a questo punto l’attività imprenditoriale). E cosa dire poi di chi afferma che in Italia non si può licenziare per ragioni disciplinari? Di chi afferma con la sicumera del tuttologo che queste leggi assurde si salderebbero con un’asserita ‘eccessiva discrezionalità interpretativa’ dei magistrati, o almeno di quei magistrati ‘schierati’ a tutela dei diritti dei lavoratori, e sarebbero la causa, o quantomeno la concausa, del precariato giovanile. E magari – perché no? – anche della malaria?

Senza considerare che sarebbe l’Europa a chiederci di rivedere la normativa in tema di licenziamenti, perché eccessivamente rigida. E che infine il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe un’‘anomalia nazionale’. Come si sa, il principio di propaganda che sostiene che una bugia ripetuta mille volte diventa verità, paga. È estremamente rara, nei talk show televisivi, la presenza di sindacalisti o giuslavoristi che raccontino cosa effettivamente accade nei luoghi di lavoro, nelle trattative sindacali, negli studi degli avvocati e nelle aule di giustizia: che cioè l’articolo 18, questo famigerato produttore di mali, non afferma null’altro se non che l’illegittimità di un licenziamento, come disciplinata da norme di legge diverse, trova la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro.

E cioè: sei stato licenziato senza alcun motivo? Il giudice ha ritenuto che le ragioni che l’azienda ha addotto fossero false? Sei stato licenziato per una crisi aziendale che non esiste, o per aver commesso un fatto disciplinarmente rilevante che non hai mai commesso? Sei stato accusato di aver rubato e non è vero? In sintesi, e in generale: qualche altra norma di legge sparsa per l’universo giuridico consente di affermare che il tuo licenziamento è fuori da ogni logica, da ogni criterio di legittimità, è inventato, ritorsivo, discriminatorio, nullo, viziato nella forma e nella sostanza, eccetera eccetera? Bene, in questi casi, e cioè dopo che il giudice ha accertato che quel licenziamento merita una sanzione, interviene il disposto dell’articolo 18.

Qualcuno (non si dice tra i lettori, ma tra i commentatori) saprebbe citarne il testo?
Eccolo, nella sua parte incriminata: “Il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento […] o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità […] ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
Bum! Ecco la portata eversiva del testo di legge. Ecco il suo potere dirompente: quando qualcuno fa una cosa che non deve fare, che altre norme di legge vietano di fare, è costretto dall’ordinamento a tornare sui suoi passi, e a riprendere il lavoratore all’interno dell’azienda (sarebbe costretto: casi come quelli della Sata di Melfio la pratica abituale della Fiat ci confermano che le aziende preferiscono pagare il dipendente, ma non farlo rientrare in fabbrica).

Eppure, non è l’articolo 18 che definisce quando un licenziamento è sorretto o meno da giusta causa o da giustificato motivo, non è l’articolo 18 che definisce quando un licenziamento collettivo è valido ed efficace, non è l’articolo 18 che definisce quando un licenziamento disciplinare è valido o meno. Inoltre, l’articolo 18, dove impone la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, ha avuto statisticamente una rilevanza tutto sommato scarsa.
E dunque? Si sono forse tutti bevuti il cervello conducendo una battaglia furibonda e sproporzionata sul contenuto di una norma inutile? O forse tacciono consapevolmente e colpevolmente sulla vera, importante funzione che l’articolo 18 svolge a tutela del lavoratore dipendente? Andiamo con ordine, e affrontiamo le due questioni separatamente.

La legge italiana già consente di licenziare per motivi “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Conseguentemente i licenziamenti per riduzione di personale avvengono quotidianamente, sia da parte di aziende con meno di 16 dipendenti ai quali l’articolo 18 non si applica (aziende che dunque non avranno altro onere che quello di pagare un’indennità di preavviso molto più bassa di quella prevista in altri Paesi europei, ovvero, ma solo ove un giudice accerti che le motivazioni addotte non sono veritiere, dovrà pagare un’ulteriore indennità, comunque non superiore a sei mensilità) sia da parte delle grandi aziende (che in caso di esubero di personale di più di cinque unità devono solo seguire una procedura che coinvolge il sindacato, ma che le vincola – anche in caso di mancato accordo sindacale al suo esito – esclusivamente a seguire dei criteri oggettivi nella selezione del personale da licenziare).

Per quanto riguarda i licenziamenti per motivi economici, pertanto, il giudice ha (solo) il potere di effettuare un controllo: a) di verità sui motivi addotti nei licenziamenti individuali e b) di regolarità della procedura nei licenziamenti collettivi. Secondo l’articolo 30 della legge 183 del 2010, “il controllo giudiziale è limitato esclusivamente […] all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Al di fuori di codesti casi l’articolo 18 si applica, ma sempre e solo ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti individuali, quasi sempre per motivi disciplinari.

E qui, di volta in volta, il magistrato valuta il caso concreto, sulla base dei criteri (per esempio la ricorrenza di una giusta causa come suggerita dall’articolo 2119 del codice civile e come esplicitata dalle esemplificazioni dei contratti collettivi) e delle forme che altre norme di legge impongono (in particolare l’articolo 7 della legge 300/1970, che disciplina una procedura di contestazione per i provvedimento disciplinari). Tuttavia, il ‘caso concreto’ non appare mai come quelli da barzelletta che vengono talvolta riportati per dimostrare l’arbitrarietà del giudice e la presunta assurdità del sistema. Da oltre trent’anni si sente parlare del caso del garzone del macellaio amante della moglie del datore di lavoro, che sarebbe stato reintegrato perché i fatti avvenivano al di fuori dell’orario di lavoro. Basta che una falsa notizia come questa venga detta in televisione, ed ecco che il quadro è completo e il prodotto confezionato: l’opinione pubblica, dopo un mese di questa martellante propaganda, è pronta ad accettare le giuste soluzioni che – condivise o non condivise da tutti i sindacati – ci facciano fare quel passo decisivo per adeguare l’Italia alle nuove esigenze della globalizzazione e renderla finalmente competitiva anche rispetto ad altri Paesi europei che hanno una maggiore flessibilità in uscita.

Ma è proprio vera (anche) quest’ultima affermazione? Come mai non riusciamo a leggere in nessun giornale che gli indici Ocse di cosiddetta rigidità in uscita collocano attualmente l’Italia (indice dell’1.77) al di sotto della media europea (basti dire che la Germania ha indice 3.00)? Ed è proprio vero che il diritto alla reintegrazione (in caso di licenziamento dichiarato illegittimo) è previsto solo nel nostro Paese? In certi Paesi è addirittura costituzionalizzato (Portogallo), in altri è un rimedio possibile (per esempio Svezia, Germania, Norvegia, Austria, Grecia, Irlanda, in taluni casi Francia) e spesso è accompagnato da ulteriori tutele.

La verità è che non esiste un vero collegamento tra la ripresa produttiva e la libertà di licenziare, se non nell’auspicio dell’attuazione di un antico progetto di riassestamento del potere nei luoghi di lavoro, che per essere esercitato in modo sovrano mal tollera l’esistenza di norme di tutela dei lavoratori dagli abusi. Perché è questo, e solo questo, il senso profondo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: una norma che sanziona il comportamento illegittimo del datore di lavoro ripristinando lo status quo ante che precedeva il licenziamento – lo si ribadisce – illegittimo. E la cui esistenza, per l’appunto, impedisce che il potere nei luoghi di lavoro (con più di 15 addetti, purtroppo, perché altrove, appunto, tale tutela non c’è) possa essere esercitato in modo arbitrario e lesivo della dignità dei dipendenti.

Esiste invece un collegamento, forte e da molti ritenuto pericoloso, tra la tutela del proprio posto di lavoro e la capacità di organizzazione sindacale o di affermazione dei propri diritti. In una società poco solidale e frammentata, percorsa dalle paure e dalle incertezze, da una incombente ipotesi di povertà che grava sui singoli e sulle famiglie, chi potrà tranquillamente scioperare, organizzare attività rivendicativa, affiliarsi a quel sindacato che ritiene più rispondente ai propri desiderata, se non è certo che queste attività non potranno essere represse? Se non è certo che un eventuale licenziamento illegittimo non avrà come conseguenza il diritto a tornare al lavoro? È vero, l’articolo 18 è pericoloso: perché intorno alla tutela che si definisce reale del posto di lavoro (la reintegrazione) si sono amalgamate le istanze collettive e individuali, si sono costruiti e rafforzati soggetti rivendicativi e di contrattazione è si è proposto un sistema seppure ancora incerto di tutela della salute in fabbrica.
L’articolo 18 vale cioè per ciò che impedisce: l’abuso, e per ciò che consente: l’esercizio dei diritti. Forse che, molto banalmente, lo si possa considerare una norma elementare di civiltà?

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