La situazione dell’economia mondiale, tra finanziarizzazione, svalutazione competitiva, debiti e conflitti
La situazione mondiale continua a essere dominata dalle stesse cause che hanno determinato la crisi della fine del primo decennio degli anni Duemila e dal solito ruolo che in essa hanno svolto gli Stati Uniti d’America. È da lì che è partita l’esplosione della bolla speculativa del 2007, nella quale i titoli cosiddetti subprime si sono svalutati dal 60 al 100%. Titoli che erano stati preventivamente e proditoriamente sparsi – come abbiamo ampiamente visto e descritto – nelle pance delle banche di tutto il resto del mondo, nei fondi speculativi, dando vita alla più devastante crisi finanziaria dal secondo dopoguerra a oggi.
In quella occasione, come ancora oggi, si parla di bolla speculativa esplosa, di crisi finanziaria che ha colpito i principali istituti di credito americani e poi, a cascata, il mercato finanziario mondiale. Noi ci siamo sforzati di dimostrare che quella crisi trovava le sue origini non nel mondo della finanza, che ne è stato solo una conseguenza, ma in quello dell’economia reale. Negli Usa, come nei settori del capitalismo più avanzato, da decenni, anche se con un andamento sinusoidale, cioè con alti e bassi, più bassi che alti, la redditività degli investimenti andava calando nonostante un aumento della produttività.
I saggi del profitto erano in costante diminuzione e masse sempre più consistenti di capitali lasciavano l’economia ‘reale’, quella che produce beni e servizi, che crea valore sulla base dello sfruttamento della forza lavoro, per rincorrere il miraggio di facili guadagni nel settore della speculazione che, in qualche modo, ripagasse il capitale dei mancati profitti del settore produttivo con quelli speculativi. Con la conclusione di deprimere ulteriormente la produzione reale attraverso la fuga dei capitali e di andare a ingigantire un meccanismo parassitario che partiva dalla finanziarizzazione della crisi stessa, attraverso la formazione di capitale fittizio, ovvero di credito facile, grazie al basso costo del danaro, inondando l’economia americana di un mare di debiti, sia da parte dello Stato, delle imprese e persino delle famiglie.
Capitale fittizio che, al primo rincaro dei tassi di interesse, imposto dalla Federal Bank, avrebbe fatto esplodere il tutto con le conseguenze planetarie che abbiamo visto. Esplosione che si è abbattuta sui meccanismi finanziari, sulle banche da salvare a ogni costo (too big too fail), ricadendo poi pesantemente sul già fragile tessuto produttivo che l’ha generata, e peggiorando le condizioni salariali e di sfruttamento dei lavoratori.
Oggi la situazione, non solo non è migliorata, ma è cambiata in peggio.
La ‘crescita’ degli Stati Uniti, annunciata a tutto il mondo come il miracolo economico che è ‘scoppiato’ dopo i disastri della crisi, in tempi e modi prodigiosi, con un Pil che raggiungerebbe nel 2019 il 3% – ma, si dimentica di dire, con una bilancia dei pagamenti con l’estero che ha raggiunto vertici inimmaginabili – è avvenuta nelle sabbie mobili di un incredibile innalzamento del debito pubblico e privato, delle aziende e delle società finanziarie, con cifre da capogiro per il deficit federale e dei singoli Stati che, complessivamente, ha raggiunto la cifra record di 237 mila miliardi, pari al 390% del Pil. L’unico vero successo è quello dell’incremento di alcuni settori produttivi grazie all’abbassamento del 30% delle tasse voluto da Trump. Abbassamento pagato dallo Stato anche con i soldi degli operai e degli impiegati che si somma ai circa 10.000 miliardi di dollari che sempre lo Stato ha sborsato nel solo 2008 per salvare il salvabile nel settore produttivo (mentre per l’economista Stigliz si arriverebbe tranquillamente ai 20.000 miliardi di dollari versati dalla Banca centrale per tamponare i debiti di banche e soprattutto delle imprese).
Per tamponare invece l’emorragia finanziaria con il Quantitative easing è stato fatto un regalo di oltre 12.000 miliardi a favore delle sole banche (oltre i 20 miliardi sempre per Stigliz). Il millantato milione di posti di lavoro che Trump sventola come una bandiera, a testimonianza della presunta ripresa economica, in realtà si è concretizzato in qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro, con contratti ultra precari, persino di una settimana, sottopagati, senza nessuna copertura sanitaria e sindacale. Mentre ‘l’economia del debito’ si dilata progressivamente a preoccupante dismisura. In un anno, dal 2016 al 2017, il debito è aumentato del 10,2%, il debito delle società non finanziarie (imprese) è cresciuto dell’11,1%, il debito pubblico è aumentato del 6,7%, il debito delle famiglie è cresciuto del 12,5% e il debito del settore finanziario è cresciuto dell’11,3%.
Il macigno dei debiti
La grande recessione del 2007-8 e la conseguente lunga depressione che dura tuttora, hanno modificato il quadro economico generale rendendolo più debole. Siamo in presenza di una economia capitalista mondiale stagnante, dove il tasso di crescita della produttività è basso. L’aumento degli scambi commerciali si è rallentato e, soprattutto, la redditività dei capitali a investimento produttivo non si è ripresa e la cooperazione è stata sostituita da una concorrenza sempre più crudele (vedere la politica dei dazi di Trump). Secondo le proiezioni degli economisti della Banca mondiale, c’è da aspettarsi che la crescita economica mondiale diminuisca al 2,9% entro il 2020 e che, quindi, la lunga depressione iniziata nel 2008 non solo non è finita ma continuerà con il suo pericoloso fardello di guerre commerciali, guerre economiche e guerre di rapina sempre più violente e generalizzate.
Il debito pubblico che nel 2007 era di circa 9.000 mld di dollari (il 75% del Pil) era arrivato a 19.200 miliardi nel 2016, il 105% del Pil; negli ultimi anni, sotto Trump, non ha fatto altro che peggiorare e in futuro andrà ancora peggio. Con l’accelerazione delle politiche di Trump, si è forse arrivati al 130%. Secondo il Ministero del Tesoro il deficit di bilancio per il 2018 è aumentato del 17% ed è il più elevato dal 2012. Le entrate sono aumentate dello 0,4% mentre le spese hanno superato il 3,2%. Il Congressional Budget Office prevede per il 2019 che il deficit di bilancio arrivi a un trilione di dollari (mille miliardi). Con la politica di Trump, che ha previsto spese straordinarie come i 700 miliardi di dollari per la difesa, il taglio delle tasse del 31% per le imprese, a fronte (va detto) di un incremento delle imposte ai privati del 6,1%, il deficit federale aumenterà di ulteriori 214 miliardi di dollari, ‘grazie’ all’aumento dei costi dovuti agli incrementi degli interessi sul debito che si sommano ai già citati tagli delle tasse e alle spese militari per la difesa.
Nel frattempo il debito federale è schizzato a 22.000 mld contro circa 18 di entrate. Il bilancio di oltre la metà degli Stati federali è in deficit e sostenuto sempre dalla politica in deficit dello Stato federale americano.
In aggiunta ci sono i debiti contratti dagli studenti per iscriversi ai college e alle università che hanno toccato i 1.300 miliardi di dollari; i debiti delle carte di credito ammontano a 1.600 mld; 1.100 mld per le auto e ben 11.800 mld i debiti delle imprese. A questi va aggiunta una cifra enorme, ma non data, riguardante i debiti per l’acquisto di immobili, come non è dato l’ammontare del debito complessivo dei singoli Stati. Il dato più preoccupante però è quello relativo al debito delle imprese.
Se è vero che nel primo trimestre del 2018, le più importanti 500 imprese statunitensi hanno realizzato un aumento del 26% dell’utile per azione, è anche vero che ciò è stato reso possibile esclusivamente da un’enorme riduzione delle tasse proposta e realizzata dall’Amministrazione Trump. Se si considerassero i profitti dell’intero settore aziendale prima delle riduzioni delle imposte, abbiamo che nel primo trimestre del 2018 si sarebbe registrato non un guadagno, ma un calo dello 0,6%, immediatamente preceduto da un primo calo nel quarto trimestre 2017 dello 0,1%. Con le riduzioni fiscali, i profitti sono aumentati del 6%, mentre la produttività è rimasta al palo e la redditività media degli impianti in America e nelle economie del G7 rimane ben al di sotto dei livelli pre-crisi, anche dopo dieci anni di presunta ripresa e nonostante le potenti iniezioni di capitale da parte dalla Banca federale come delle altre Banche centrali dei maggiori Paesi industrializzati.
La vera questione della difficoltà di uscita dalla crisi è nella mancanza di un sufficiente tasso di valorizzazione del capitale, con lo spauracchio che la prossima crisi, ampiamente annunciata dagli stessi analisti a-mericani, si manifesterà nella esplosiva combinazione tra il debito delle imprese produttive negli Usa, come in tutte le economie del G7, e la massa dei debiti contratti. Per esempio, il debito delle società non finanziarie americane ha toccato un massimo nel ‘dopo-crisi’ del 72% del Pil, pari a 14,5 trilioni nel 2017, lo stesso debito nel medesimo settore delle società non finanziarie, ovvero di quelle società che agiscono nel settore produttivo di merci e servizi, è stato superiore di 810 miliardi rispetto all’anno precedente, con un 60% dell’incremento derivato dall’aver contratto ulteriori debiti con le banche e con altri istituti finanziari.
Allo stato attuale, i soli finanziamenti obbligazionari rappresentano il 43% del debito in essere, con una scadenza media di 15 anni rispetto alla scadenza precedente di 2,1 anni, sempre per prestiti alle imprese americane. Il che implica che circa 3,8 trilioni di dollari andranno come rimborso annuo per il prestito contratto. Una valanga di debiti non può che prevedere tante slavine di rimborsi sui capitali ricevuti in prestito, anche se al momento a tassi d’interesse bassi. In ogni caso il dato complessivo che emerge è il seguente: “Tutte le società, sia d’investimento produttivo che speculative, hanno aumentato significativamente l’uso della leva finanziaria. Alcune società hanno contratto debiti non per investire produttivamente ma per finanziare i riacquisti di azioni, di obbligazioni e di titoli di Stato, creando un ampio flusso finanziario di cassa e di riserva. In sostanza, la mancanza di remuneratività delle imprese agenti nel settore produttivo, le ha costrette a un indebitamento progressivo ma orientato più verso la speculazione che verso la produzione” (1).
Questo vale soprattutto per le grandi aziende, mentre le piccole non hanno a disposizione nemmeno questa opzione, a meno di non correre grossi rischi sino al fallimento. Per cui sono rimaste ferme in balia del mercato che, in più di un’occasione, le ha definitivamente eliminate. Sembra lo schema della finanziarizzazione della crisi che ha preceduto lo scoppio della bolla dei subprime. Gran parte di tale debito è valutato BBB, il rating più basso delle imprese a investimento produttivo. Ciò significa che sono solo un pelo al di sopra delle valutazioni indesiderate (spazzatura) e che il loro destino è legato al minimo aumento dei tassi di interesse, che finirebbe per gonfiare i debiti contratti, aumentare il servizio sul debito e ad accrescere i costi di produzione. Il numero di società con rating BBB è aumentato del 50% dal 2009 e non sembra fermarsi.
Questa è la vera situazione dell’economia americana ‘uscita’ dalla crisi. Debito pubblico, deficit federale, deficit nella bilancia dei pagamenti con l’estero, debiti di metà degli Stati americani. Debiti pubblici a cui si sommano i debiti privati e quelli delle imprese. Una montagna di debiti e di deficit che renderebbe l’economia americana tra le più precarie al mondo, se non fosse per il ruolo egemone del dollaro e per la forza del suo esercito, pronto a intervenire ai quattro angoli del mondo al minimo rischio di interferenze nei confronti delle sue mire strategiche e necessità finanziarie.
Ma come dice Michael Roberts nel suo The long depression, “il grande rischio è la combinazione di una redditività in calo e di un debito elevato in aumento nei settori aziendali, non solo americani, ma di tutto il G7. Se i profitti dovessero continuare a scivolare verso il basso, mentre il costo del servizio sul debito dovesse aumentasse con l’aumentare dei tassi di interesse, allora questa sarebbe una pericolosa ricetta per fallimenti aziendali a catena e una nuova, devastante crisi del debito. Il debito globale, in particolare il debito societario, è ai massimi storici”. E noi aggiungiamo: la bomba è innescata, a quando lo scoppio?
Anche alla periferia del capitalismo, nei cosiddetti Paesi emergenti, il fenomeno si riproduce nelle medesime condizioni. La maggioranza delle aziende produttive e società finanziarie dei paesi ‘emergenti’ si è pesantemente indebitata in dollari, dato che il corso del dollaro, allora (prima della crisi) era ed è relativamente basso e i tassi di interesse praticati sulla divisa verde dalla Federal Bank sono stati volutamente tenuti quasi nulli. Buona parte dell’enorme flusso di capitali che si è trasferito nelle economie emergenti non era destinata a investimenti produttivi, ma in prestiti e obbligazioni per attività speculative. Mentre i flussi di capitali a lungo termine per investimenti produttivi verso le economie emergenti (IED) sono in precipitoso declino da almeno una decina d’anni, ovvero dall’inizio della crisi dei subprime. Le conseguenze sono evidenti: in tutti i Paesi che sono stati coinvolti da crisi finanziarie, l’innalzamento dei tassi di interesse dei loro titoli di Stato è stato una costante.
Questo è il quadro delle svalutazioni a cui abbiamo assistito nell’ultimo periodo. Titoli di Stato: in Turchia i tassi d’interesse che lo Stato deve pagare ai sottoscrittori dei titolo pubblici sono passati dal 12 al 20, in Argentina dal 6 al 12, in Russia dal 4 all’8, in Indonesia dal 3 al 9, in Brasile dal 10 al 267 in Libano dal 20 al 281, in Sudafrica dal 12 al 112 (a esclusione della Cina tutti i BRICS). Svalutazione delle divise, ovvero la perdita del potere d’acquisto: Argentina, pesos -46%, Turchia, lira -45%, Sudafrica, rand -22%, Brasile, real -21%, Russia, rublo -19%, Giappone, yen -5,5%.
Sembra un film già visto, un film dell’orrore con devastazioni economiche e sociali, quando il dio profitto perde il suo ruolo egemone nella produzione di plusvalore, fa scappare i capitali a investimento produttivo verso la speculazione, verso una enorme produzione di capitale fittizio, a causa di una redditività dei capitali sempre più bassa. La politica del debito su cui ‘regge’ l’economia americana ne è un esempio. Tutti i dati fondamentali dell’impianto economico americano sono – come abbiamo visto – in rosso, i debiti soffocano le attività produttive e le stesse imprese, ai limiti della sopravvivenza sul mercato interno, mimano le grandi concentrazioni di capitali speculativi nella speranza di sopravvivere alla diminuzione dei saggi del profitto.
È per tutelare queste imprese, sommerse dai debiti e dalla mancanza di remuneratività dei loro investimenti (metà delle quali godono appunto di un rating da BBB appena sopra il livello spazzatura), che Trump ha pensato di innalzare i dazi contro mezzo mondo e in particolare la Cina, senza considerare che la Cina, con le sue merci a bassissimo costo, finora ha permesso agli oltre 80 milioni di poveri americani che vivono sotto la soglia di povertà, di sopravvivere. Senza contare le inevitabili reazioni di quella parte del mondo messo sotto il peso dei dazi doganali eretti come un muro contro le merci e la maggiore competitività estera.
In realtà – detto qui per inciso – la Cina, come nuova potenza in piena emersione, ma con problemi di bilancio (anch’essa sotto il peso di un aumentato debito pubblico), pur essendo stata, al netto delle sanzioni di Trump, il principale partner commerciale degli Usa, sta adottando una politica del tutto differente, ossia orientata a sviluppare la nuova Via della Seta e a creare un nuovo canale diretto di comunicazione e traffico di merci e capitali verso Occidente, attraversando le vecchie Repubbliche sovietiche orientali e verso l’Africa, via terra e via mare con l’obiettivo di arrivare al Mediterraneo, dopo essere riuscita ad avere il controllo commerciale del porto greco del Pireo.
Un canale nel quale le compravendite non avvengono più in dollari ma in renmimbi. Chiaro atto di ‘guerra’ della Cina, non solo contro la politica americana dei dazi, ma come tentativo di fare della propria divisa un serio concorrente al dollaro sui mercati commerciali mondiali, con l’obiettivo di partecipare all’accaparramento di capitali esteri e del plusvalore che essi contengono. Se ciò avvenisse, saremmo in presenza di un ‘nuovo’ terreno di scontro tra imperialismi, più sofisticato nella forma in cui si esprime ma non meno dirompente di altri che sono ancora in corso.
È cresciuta pure la contesa contro la Russia. Anche in questo caso uno dei contenziosi riguarda la possibilità di commerciare in rubli il gas naturale, e magari il petrolio, dopo la feroce lotta degli ultimi anni in cui hanno tentato (Russia e Arabia Saudita) di mettere fuori gioco gli Usa, che puntavano sullo shale oil, molto più costoso di quello saudita. Il rinnovo delle sanzioni e la politica dei dazi contro Putin rientrano nella logica di ‘difesa’ degli interessi americani almeno per tre ragioni fondamentali: impedire alla Russia di stabilirsi nel Mediterraneo salvando il regime siriano di Assad; staccare l’Europa dalla dipendenza energetica con Mosca, dando vita a una serie di pipeline in sostituzione di quelle russe esistenti e da costruire; non concedere in tutti i modi l’opportunità a Mosca di commercializzare i suoi ‘tesori energetici’ siberiani in rubli, dopo che la minaccia di sostituire il dollaro è arrivata dalla Cina e dal Venezuela di Maduro.
A questi scenari, già gravidi di tensioni al limite dello scontro quasi diretto, si aggiungono i dazi contro l’Iran e la Corea del Nord, ma anche contro il Venezuela e il Canada, oltre che la minaccia di un innalzamento delle tasse commerciali per Germania e Italia. Nel caso del Venezuela, la politica dei dazi commerciali di Trump tende a due obiettivi: il primo è destabilizzare il governo Maduro, già messo male dalla devastante crisi economica che sta attraversando il Paese, favorendo politicamente e finanziando l’opposizione di destra. Il secondo, come già accennato, consiste nell’impedire a Maduro di vendere il suo petrolio con una nuova divisa (il petro) che dovrebbe sostituire il dollaro, almeno nell’area dell’America latina (2).
Quella dei dazi imposti dagli Usa è lo sbocco di una politica di vecchissimo corso, che data all’agosto 1971, quando si verificò il primo deficit della bilancia commerciale Usa (2,5 milioni di dollari, oggi è di 556 miliardi di dollari). Quegli Usa che, nel secondo dopoguerra, avevano letteralmente inondato con le loro merci il mondo intero, si erano trovati, nemmeno trent’anni dopo, a essere importatori netti di merci e servizi. Il deficit in sé non era elevato, ma era rivelatore della diminuita competitività delle merci americane e di una pericolosa inversione di tendenza nei rapporti con Europa (Germania) e Giappone.
L’allora presidente Nixon fu costretto a prendere le tre storiche misure nel tentativo di salvare le imprese americane dalla agguerrita concorrenza estera: aumentare le tasse sull’importazione del 12%; la contemporanea svalutazione del dollaro (da 35 passa a 38 dollari oncia oro) di un altro 12%; con il guadagno, in un colpo solo, di un 24% di margine commerciale sul resto del mondo; la dichiarazione di incontrovertibilità del dollaro in oro.
Come dire, noi eravamo liberisti fintanto che dominavamo il mercato commerciale, nel momento in cui abbiamo perso questo predominio imponiamo tasse e dazi alle merci d’importazione senza alcun riguardo per i trattati di libero scambio ai quali abbiamo sempre fatto riferimento. Per il dollaro è valsa la medesima legge. La sua svalutazione competitiva del 12% dava temporaneamente margini di sopravvivenza alle industrie americane e tanto bastava. Per lo sganciamento del dollaro con l’oro il discorso era duplice.
Da un lato i forzieri americani non erano più in grado di sostenere con le loro riserve auree, peraltro in continua diminuzione, l’enorme massa di dollari in circolazione sul mercato internazionale, massa in continua espansione. Dall’altro, con un dollaro svalutato e sganciato dalla parità aurea, chi ci rimetteva erano gli speculatori, i risparmiatori e tutti gli istituti di credito internazionali che, negli anni precedenti, avevano investito sul dollaro come bene-rifugio. Ma le Amministrazioni successive hanno fatto in modo di continuare a fare del dollaro, pur sganciato dall’oro, la divisa universale degli scambi mondiali, il bene di rifugio per eccellenza, una merce di vendita il cui costo di produzione era vicino allo zero, lo strumento monetario per tutte le speculazioni, il mezzo attraverso il quale convogliare verso l’economia americana enormi flussi di capitali.
Ma un dollaro forte avrebbe inevitabilmente penalizzato la competitività delle merci americane, creando di anno in anno voragini all’interno del deficit commerciale. A questa semplice constatazione le varie Amministrazioni hanno fatto di tutto per rendere il dollaro sempre più forte, tentando di ridurre i danni commerciali. Era più importante che il dollaro continuasse a dominare sul mercato monetario internazionale, facendo confluire nell’economia americana fiumi di capitale finanziario che servivano a finanziare i vari deficit, e quello che rimaneva poteva essere esportato sotto forma di capitali a investimento nei Paesi dove il costo del lavoro fosse di gran lunga inferiore di quello a cui veniva comprata la ‘capacità lavorativa’ dei lavoratori americano.
Era talmente importante questo ruolo del dollaro, che dopo le crisi petrolifere degli inizi degli anni Settanta, i governi americani non hanno esitato a inscenare episodi di guerra, sia per mettere le mani sulle materie prime energetiche, sia per fare in modo che i produttori petroliferi e di gas non osassero pretendere dai loro clienti, divise diverse dal dollaro. Le cosiddette guerre del petrolio o ‘dei tubi’ – intendendo per ‘tubi’ le vie di commercializzazione (pipeline) – nonché il ‘perenne’ dominio del dollaro, sono ancora attuali dagli anni Settanta, sono solo cambiate e ampliate la loro cornice geografica, l’intensità e la ferocia.
L’Amministrazione Trump sembra tentare la quadrature del cerchio, ovvero continuare ad avere un dollaro forte e una bilancia dei pagamenti con l’estero, se non in positivo, almeno con un deficit accettabile. La politica dei dazi, oltre alla sua valenza politica di contrapposizione imperialistica con nemici giurati e con avversari commerciali, tende proprio a questo, avere la botte piena e la moglie ubriaca, cioè un dollaro forte e una bilancia dei pagamenti che non sia il frutto di una perenne penalizzazione di quanto prodotto negli States.
In estrema sintesi, dazi doganali a parte, le guerre, di volta in volta, generate dalle crisi economiche, oltre a distruggere valore capitale per ricostruire, sono il pane quotidiano del capitalismo, che deve raggiungere con la forza delle armi quegli obiettivi economici e strategici che, con la forza della diplomazia e della ‘normale’ concorrenza, non è in grado di raggiungere.
La guerra permanente
Ecco perché le guerre, che dal 1945 non si sono mai fermate, esprimono oggi la tensione tra gli Usa e le altre potenze imperialiste su di un piano che trasferisce il livello del confronto produttivo, commerciale, monetario, nonché strategico, su quello apertamente militare. Ma il motore, oggi, è e rimane però quello della crisi economico-finanziaria, della scarsa redditività degli impianti, della crisi dei profitti e della conseguente speculazione, degli immensi debiti contratti e del rischio che un aumento dei tassi d’interesse negli Usa crei una crisi debitoria insanabile e le premesse per una nuova crisi mondiale peggiore di quella che, gli ottimisti, definiscono passata.
È stato sufficiente che l’andamento dei tassi al rialzo – per quanto riguarda i rendimenti dei titoli del Tesoro statunitensi, sia nominali che reali a 10 anni – si siano spinti rispettivamente al 3,25% e all’1%, sui massimi del 2011, per scatenare un putiferio sui mercati finanziari di New York, il 10 ottobre del 2018. Per cui, i rinnovati timori per un ulteriore aumento dei rendimenti dei Treasury e il rischio di una guerra commerciale con la Cina, ha portato il Dow Jones (-3,155) e lo Standard &Poor 500 (-3,29%) a chiudere la giornata peggiore dall’8 febbraio 2018. Il terrore dei mercati – e le relative vendite che hanno colpito particolarmente i titoli del comparto tecnologico (Nasdaq) – ha riguardato anche la guerra dei dazi contro la Cina.
Ma il detonatore più forte è stato il timore che con tassi di interesse più alti, l’indebitamento di interi settori produttivi, tra cui quelli tecnologici, li facesse saltare. Titoli come quelli di Facebook, di Twitter e di Netflix hanno perso in un attimo il 20% del loro valore. Persino Trump ha accusato violentemente la politica monetaria della Fed – “pazza” secondo il tycoon – per aver operato il terzo rialzo consecutivo dei tassi nell’arco del 2018. Il tutto è indice indiscutibile di una crisi permanente del capitale che si mostra alla superficie con i crolli finanziari e, nella sostanza, nella ormai endemica mancanza di rendimenti nel mondo dell’economia reale, che spinge i capitali stessi a fuggire l’investimento per imboccare l’inutile, se non più rischiosa, strada della speculazione.
Ecco allora che l’unica via per tentare di uscire dalla crisi economica-finanziaria è, nel breve periodo, la svalutazione competitiva, la speculazione, la politica dei dazi, l’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro, lo smantellamento dello Stato sociale; ma, alla lunga, solo una consistente distruzione di valore capitale può risolvere i problemi di crisi da profitti del capitale. Non è un caso che la seconda guerra mondiale abbia devastato innanzitutto tutto i settori produttivi di quella parte del pianeta in guerra, concedendo all’imperialismo Usa di investire produttivamente nelle infrastrutture e nella ricostruzione degli impianti industriali europei localizzati principalmente in Italia, Francia, Germania, e anche nel lontano Giappone, e di esportare il suo surplus di capitale finanziario nei settori chiave dell’economia dei Paesi sconfitti.
Facendo così dei vinti e degli alleati un enorme spazio in cui inserire un nuovo ciclo di accumulazione. Ma la chiusura della seconda guerra mondiale non ha fermato la furia dell’imperialismo, sia americano che russo, che in termini strategici diversi hanno continuato a confrontarsi. Non perché la seconda tragedia mondiale non avesse distrutto abbastanza, ma perché, oltre a distruggere per ricostruire, l’imperialismo ha bisogno di esportare capitali, di investire all’estero, di controllare e sfruttare i territori ricchi di materie prime funzionali al processo di valorizzazione del capitale e, non da ultimo, di usufruire delle materie energetiche, di gestirne i percorsi commerciali, di parteciparne, possibilmente in termini monopolistici, alle rendite.
In effetti, all’indomani della seconda guerra mondiale non ha fatto che susseguirsi una lunga serie di guerre denominate ‘fredde’, ossia combattute solo indirettamente dalle due grandi centrali dell’imperialismo uscite vincitrici dalla guerra. Da quelle che hanno attraversato la Cina nel periodo 1937/49 con un Partito Comunista Cinese schierato con i russi e un Kuomintang filo americano, la cui conclusione è stata la spartizione del Paese dopo il 1949 in due parti, quella continentale, caduta sotto l’influenza russa, e quella insulare (Taiwan) americana. Solo un anno dopo il confronto si sposta in Corea (1950/53).
Seguì il conflitto in Vietnam nel (1962/75) e i fatti bellici che insanguinarono il centro America, in Honduras e Nicaragua con e contro i sandinisti. Come al solito, da una parte l’imperialismo russo a difesa delle ‘sue nuove colonie’ americane, dall’altra gli Usa che si ‘offrivano’ dei servigi del panamense e narcotrafficante Noriega per sconfiggere i sandinisti. Quest’ultimo personaggio, che scaricava in America tonnellate di droga proveniente dai cartelli colombiani, in un apposito reparto dell’aeroporto di Los Angeles vietato agli stessi servizi americani, faceva il viaggio di ritorno, carico di armi fornitegli dalla Cia da distribuire ai Contras operanti in centro America.
Potremmo continuare con lo scontro Urss-Usa nel contenzioso nazionalistico tra Israele e palestinesi, la crisi dei missili a Cuba, l’affaire Panama, con relativo sbarco americano ecc. Una guerra infinita interrotta non da una soluzione di pace ma da un necessario abbandono da parte di uno dei due contendenti.
Venne infatti l’implosione dell’Urss. Implosione dovuta a una decrescente competitività, a un incremento spropositato degli investimenti in beni strumentali a fronte di una forza lavoro che rimaneva sempre la stessa e di una produttività decrescente, favorendo così una modificazione della composizione organica del capitale e una inesorabile caduta dei saggi del profitto. Gli ingenti investimenti in capitale costante si facevano, nonostante la loro scarsa produttività e remuneratività, perché funzionali alla potente oligarchia di Stato, che dagli stanziamenti finanziari all’industria e all’agricoltura ricavava la sua ‘quinquennale’ tangente.
Più lo Stato investiva in capitale costante sotto forma si investimenti, anche se scarsamente produttivi, più l’oligarchia russa aveva la possibilità di stornare quote di capitale da deviare nelle proprie tasche. Nella crisi economica del sistema sovietico, ancora una volta c’è stato lo zampino degli Usa che, concentrando la competizione sul piano della rincorsa alle innovazioni tecnologiche militari, obbligarono il governo dell’Urss a indebitarsi pesantemente nel settore degli armamenti, il quale governo arrivò a spendere per tale voce il 23% del proprio Pil, contro il 7-8% che spendevano gli Usa.
Questa enorme sproporzione portò a un deficit spropositato nelle casse dello Stato russo, che aprì le prime brecce nel sistema economico sovietico a capitalismo di Stato, già minato dalla piaga di un saggio del profitto in costante caduta, e alla periferia del suo impero. Situazione nella quale la Cia e il Vaticano furono abili nell’inserirsi, specie in Polonia con l’esperienza di Solidarnosc. L’implosione cancellò la ‘fugace’ esperienza di un falso socialismo nato dalla sconfitta della rivoluzione d’Ottobre, primo e unico (per il momento) esempio storico di rivoluzione proletaria.
Seguirono dieci anni di mono imperialismo, che consenti agli Usa, di entrambe le Amministrazioni, di fare il bello e il cattivo tempo sullo scenario internazionale. Era l’epoca delle ‘prime’ guerre del petrolio, del suo controllo e dei business collaterali, quali la costruzione di pipeline, di centri di stoccaggio e di raffinerie che, ovviamente, dovevano cadere nelle esose mani delle compagnie petrolifere americane e delle imprese specializzate nelle grandi opere, legate alle prime, sia per questioni di logistica ingegneristica, sia perché partecipi sodali alla sfruttamento della medesima rendita petrolifera. È il periodo in cui l’imperialismo americano si ‘è esibito’ nella guerra in Iraq del 1990/91, in quella dell’Afghanistan e poi nella seconda guerra in Iraq del 2003. Dieci anni inframmezzati anche da guerre ‘minori’ ma strategicamente importanti, come quelle nell’area del Sahel in Africa e quella che ha distrutto la Jugoslavia, ultimo baluardo europeo del falso socialismo titoista.
Nel frattempo la Russia post sovietica, grazie ai giacimenti siberiani di petrolio e di gas, ha riguadagnato posizioni nella graduatoria dell’imperialismo internazionale, riproponendosi, con la Cina, quale controparte allo strapotere americano, dando vita a una sorta di seconda guerra fredda. A questo punto (2011), dopo l’esplosione delle ‘primavere arabe’, il conflitto si è spostato in Siria e Libia. In Siria la Russia, appoggiando Bashar el Assad, difende i suoi interessi tanto verso il Mediterraneo, con il mantenimento dei porti militari e commerciale di Tartus e Latakia, quanto verso il Medio Oriente contro l’Arabia saudita, Israele e il loro mentore imperialistico americano.
Quella che si sta svolgendo sotto i nostri occhi può essere definita una guerra generalizzata condotta da tutte le più potenti centrali imperialiste presenti nell’area. Sul campo troviamo la Russia e gli Usa con i loro alleati. Insieme alla Russia si muove l’Iran, si muovono l’Iraq, il Libano e gli Hezbollah libanesi. Ovvero l’asse sciita del Medio oriente. Con gli Usa l’Arabia Saudita, gli Emirati, il Qatar che costituiscono l’asse sunnita, fedele, ma non troppo, alle ambizioni di Trump.
In Libia sono operativamente presenti Francia, Italia, Inghilterra e Usa. Francia e Inghilterra sono state alla base della spedizione militare contro Gheddafi, spalleggiati dall’onnipresente imperialismo americano, con il doppio scopo di togliere all’Eni il controllo del 40% del petrolio libico (Francia) e di impedire a Gheddafi di vendere il suo petrolio in eu-ro, rubli o yuan.
In Siria abbiamo avuto la presenza massiccia di tutti i maggiori interpreti di questi massacri. Con interessi diversi, a volte contrastanti, si sono formate nuove alleanze, sciolte delle vecchie, in un susseguirsi di episodi che hanno visto la rovina di un intero Paese con due milioni di morti e oltre quattro milioni di profughi. La Turchia, la Russia, l’Iran e l’asse sciita da una parte. Gli Usa, Israele e l’asse sunnita dall’altra. Ognuno con i suoi interessi da difendere; in mezzo, il variegato campo dei nazionalismi curdi, diventato lo strumento di guerra di alcuni imperialismi e l’obiettivo da abbattere per altri, pur facendo parte, a volte, della stessa coalizione.
Se contassimo gli imperialismi presenti, le loro aree di influenza, la loro operante presenza bellica, dovremmo concludere di essere in presenza dii una ‘strana’ guerra mondiale dove, salvo rari casi, definiti incidenti, tutto il quadro imperialistico, fatta eccezione per la Cina, si scontra in una delle zone a più alta intensità strategica. Non è illusorio pensare che una simile guerra generalizzata, al deflagrare della nuova bolla finanziaria, spinta da un aumento dei tassi di interessi, possa determinare un peggioramento degli andamenti economici in tutto il mondo e l’intensificarsi degli attuali focolai di guerra o la creazione di nuovi.
Oltre all’analisi dell’esistente, negli aspetti legati alla denuncia politica va affermato con forza che la crisi non è un accidente, un inevitabile incidente naturale o una maledizione divina di qualsivoglia genere, ma il prodotto di questo modo di produzione, del capitalismo in pesante crisi economica dalla quale non riesce a uscire, che sta generando una massa finanziaria 12/14 volte il prodotto interno lordo mondiale, che fugge la produzione per dedicarsi al palliativo della speculazione, perché nella economia reale non ha più sufficienti margini di profitto per i suoi investimenti produttivi. È la caduta del saggio del profitto, che accelera la concorrenza tra capitali e lo scontro tra gli imperialismi.
In questo quadro la tendenza alla guerra non è uno spauracchio, ma la realtà concreta che caratterizza tutte le relazioni internazionali e uno stato di fatto che vede coinvolte tutte le principali potenze imperialiste del pianeta in vari luoghi del mondo.
* Pubblicato su Prometeo, dicembre 2018
1) Fabio Damen, La crisi dei profitti alla base della finanziarizzazione dell’economia, Prometeo, novembre 2009
2) Il 23 gennaio 2019 è poi scattata l’operazione Guaidò, supportata dagli Usa (n.d.r.)