Recensione del film Se sarà luce sarà bellissimo. Moro: un’altra storia, Aurelio Grimaldi
Come mi è già capitato di scrivere in un’altra occasione (1), i film italiani sulla lotta armata sono il più delle volte inguardabili a causa della loro totale mancanza di onestà intellettuale. Si preferisce dipingere chi negli anni Settanta e Ottanta ha compiuto questa scelta come demoni o burattini manovrati da poteri istituzionali, piuttosto che analizzare in profondità le ragioni per cui migliaia di persone hanno aderito, in vari modi e forme, a organizzazioni rivoluzionarie. Se poi si va a toccare l’argomento Moro nello specifico, la situazione si fa ancora più imbarazzante.
Piazza delle cinque lune (2003) di Renzo Martinelli, con la sua forzata dietrologia (2), si fa beffe del concetto di Storia. In Bungiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio l’aspetto politico viene colpevolmente lasciato in disparte in favore di quello onirico-psicologico (3), peraltro incentrato esclusivamente su Chiara (Maya Sansa), la brigatista assalita da scrupoli di coscienza, personaggio ispirato ad Anna Laura Braghetti (dal cui libro Il prigioniero è stato liberamente tratto il film). Decisamente superiore Il caso Moro di Giuseppe Ferrara (1986), impreziosito dalla splendida interpretazione di Gian Maria Volonté nei panni del presidente della Dc (4) – ruolo già ricoperto, anche se non dichiaratamente, in Todo modo (1976) di Elio Petri.
Ma è con Se sarà luce sarà bellissimo. Moro: un’altra storia di Aurelio Grimaldi che la vicenda trova la sua migliore resa cinematografica, almeno sul piano dei contenuti. Si rende necessaria questa precisazione in quanto il film doveva inizialmente essere una trilogia, ma poi sono mancati i fondi, dimodoché il girato di duecentosettanta minuti è stato ridotto a ottantasei e un unico film.
Naturale quindi che vi siano problemi tecnici, legati soprattutto al montaggio e alla fotografia, rispetto a cui è comunque percepibile la scelta tematica del chiaroscuro.
Ultimato nel 2004, il lavoro di Grimaldi non è mai stato distribuito nelle sale e solo nel 2008 ha trovato ospitalità in alcuni festival cinematografici. Un vero e proprio boicottaggio nei confronti di un film che, rifiutando ogni manicheismo, non ha paura di mostrare i metodi con cui lo Stato ha condotto la sua lotta contro i movimenti e le organizzazioni rivoluzionarie. Metodi non certo democratici, come sostiene qualcuno, a meno che non si voglia definire ‘democratico’ il regolare utilizzo della tortura da parte della polizia (5). Emblematico, da questo punto di vista, il personaggio di Achille Crollo (Gaetano Amato), l’ispettore incaricato di estorcere confessioni alle persone sospettate di avere legami con le Br.
Del resto, come il procuratore interpretato da Guia Jelo gli ricorda, la legge prevede la possibilità di utilizzare la violenza negli interrogatori nei casi in cui sia a rischio l’incolumità degli interroganti o dei prigionieri, oppure sussistano pericoli connessi alla difesa della nazione e delle istituzioni democratiche; e naturalmente il rapimento di
Moro (nel lavoro di Grimaldi, interpretato da Roshan Seth) viene considerato un atto di questo tipo. Dimodoché Crollo non si fa problemi a tenere per quarantotto ore senza cibo né acqua la professoressa del liceo scientifico Lucrezio Caro, interpretata da Lalla Esposito, per poi dirle che il suo unico diritto è quello di fare (cito letteralmente) pompini.
Ed è sempre in questi termini che il poliziotto e i suoi colleghi le si rivolgono per tutti i tredici giorni in cui viene tenuta rinchiusa in cella di isolamento – un trattamento dovuto semplicemente alle idee di condanna espresse nei confronti della Democrazia cristiana, durante un’assemblea d’istituto. Così come non si fa problemi a picchiare e torturare con l’elettricità il ragazzo interpretato da Fabrizio Raggi, appartenente nemmeno a una organizzazione di lotta armata ma al Movimento. Scene che si svolgono in un montaggio alternato con quelle in cui Loredana (Maria Papas) e il suo compagno – due dei brigatisti impegnati nel sequestro Moro (6) – fanno l’amore.
Se in quest’ultimo caso c’è una tensione alla vita, negli uffici della polizia domina Thanatos. Significativo anche il fatto, mostrato da Grimaldi, che tra i membri della direzione strategica vince la linea di non torturare Moro, anche se solo per un voto di scarto (7). Si potrà obiettare che ciò è frutto di un calcolo politico e non di una ragione umana, e indubbiamente il calcolo politico c’è in ogni cosa in una vicenda come questa. Comunque sia, tra i brigatisti l’utilizzo della violenza viene problematizzato, al contrario di quanto accade nel cosiddetto Stato di diritto: non tanto, o meglio non solo, per i poliziotti che non si fanno scrupoli a farne uso, sia in forma fisica che psicologica, ma per il fatto che esiste una legge che gli permette di farlo.
Uno Stato che digrigna i denti per nascondere il suo smarrimento durante i giorni del sequestro, come dimostra il personaggio di Susan (probabilmente ispirato a Pieczenik), collaboratrice diretta di Kissinger per questioni riguardanti il terrorismo, la quale detta ai ministri italiani la linea da seguire: nessuna vita umana vale più della ragion di Stato, motivo per cui Moro viene abbandonato anche dai suoi stessi colleghi di partito. E quando le lettere del presidente della Dc iniziano a puntare il dito contro la politica italiana, Moro deve essere delegittimato: “Il prigioniero verrà considerato incapace di intendere e di volere. Ogni lettera di Aldo Moro dovrà essere considerata falsa e inattendibile”, ordina Susan/Pieczenik. Aggiungendo che dovrà essere considerato affetto da Sindrome di Stoccolma e, in caso di liberazione, internato in un istituto psichiatrico per un periodo non inferiore a due mesi.
Trattare con le Brigate rosse significherebbe riconoscerle politicamente, e questo è considerato inaccettabile. Inoltre, come afferma Gabriele (Craig Fairbrass) nel corso dell’interrogatorio a Moro nella parte dedicata al Progetto Condor, l’Italia è “il cinquantunesimo Stato americano, il più servile e sottomesso di tutti”.
È qui evidente un altro merito del film di Grimaldi, ovvero descrivere il contesto politico, sociale ed economico di quegli anni. Emerge la complicità di Moro nel favorire l’acquisto a “un prezzo incredibilmente alto” della Cassa rurale di Vicenza, fondata da Giuseppe Ziliotto, il suo braccio destro, da parte della Banca cattolica del Veneto; le ‘donazioni’ di Giorgio Mattino, petroliere e palazzinaro di lusso, alla corrente morotea della Democrazia cristiana per centinaia di milioni di lire; i rapporti della Dc con la mafia; i prestiti di Sindona. Alla fine, Moro dichiara: “La politica è prostituzione”. E, dopo aver constatato che le sue lettere vengono considerate dai colleghi di partito scritte da un “povero pazzo”, Grimaldi gli fa addirittura pronunciare parole di comprensione per le istanze rivoluzionarie delle Brigate rosse. Istanze che, al contrario, trovano la più dura condanna da parte del Partito comunista e del sindacato.
Di grande impatto le scene che mostrano l’acceso dibattito all’interno della Sezione Portuense del Pci, con una netta separazione tra chi vorrebbe accettare le Br come frutto della propria cultura – e dunque imparare a difenderle sul piano intellettuale – e chi, invece, sostiene strenuamente la linea ufficiale del partito e, con essa, le regole del centralismo democratico. Incidentalmente è interessante notare come tra la base e i quadri intermedi del Pci vengano sollevati dubbi sul compromesso storico.
Emblematiche le parole di uno degli intervenuti, riferite al governo di centro-sinistra del 1963: “Aldo Moro s’è mangiato quel poveraccio di Nenni e tutti i socialisti, che ora sono al dieci percento in meno. E la cosa più disonesta, la cosa più vigliacca è che ha trovato lo stratagemma per mangiare pure noi, capito?” Discorso che si collega a quello della brigatista Loredana al suo compagno, il quale inizia ad avere dubbi sul loro operato e, dopo il sequestro Moro, vorrebbe uscire dalle Brigate rosse: “Ma guarda i fatti. Moro è il più geniale politicante, capace di affossare qualsiasi opposizione. Prima ha fatto a pezzi il Partito socialista con quel farsesco centro-sinistra. Poi ha ingoiato il Partito comunista con quell’idiota di Berlinguer, che c’è cascato come un sacco pieno di patate”.
A questo proposito, è bene ricordare che, secondo il piano di Moro, i comunisti, pur venendo coinvolti nel governo, non avrebbero avuto accesso diretto al potere esecutivo e sarebbero stati tenuti all’oscuro dei segreti Nato. Tale avvicinamento costituiva una risposta alle elezioni del 1976, da cui è vero che la Dc era uscita vincitrice col 38,71% dei voti, ma il Pci aveva avuto un balzo del 7,2% rispetto al 1974 (una crescita enorme, se si tiene conto di quella democristiana di appena lo 0,5%), attestandosi al 34,37%. Moro vedeva sempre più concreta la possibilità di un governo formato da un’alleanza che escludeva la Dc. E a tale situazione cercò di rimediare. Per questo motivo la vulgata secondo cui Moro fosse inviso agli americani pecca quantomeno di semplicismo.
Sicuramente c’era chi non vedeva di buon occhio un ingresso, seppur formale, del Pci nel governo. Tuttavia “[…] gli Stati Uniti sembrarono cedere a un compromesso di rilievo tra Pci e Dc e impararono ad apprezzare la figura di Moro come quella del maggior politico del Paese, l’unico in grado di garantire l’accordo, ovvero, l’unico dotato delle capacità necessarie a coinvolgere i comunisti nel governo senza una diretta partecipazione all’esecutivo. […] Nei rapporti della Cia del 1978 Moro fu sempre apprezzato per le sue capacità di mediazione nei rapporti tra i due maggiori partiti italiani, e di questa sua dote si enfatizzò la mancanza proprio nella drammatica situazione del suo rapimento. Un anonimo analista della Cia si spingeva a osservare che il rapimento di Moro avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche sulla stessa Dc, sulla sua coesione interna e sulla sua «capacità di restare la maggiore forza politica italiana»“ (8).
Tuttavia non bisogna confondere l’obiettivo principale delle Brigate rosse con la volontà di bloccare il compromesso storico, anche se questo fu il risultato. Il sequestro Moro si inscriveva all’interno di un’analisi più ampia (e attualissima), che vedeva al centro lo Stato imperialista delle multinazionali (Sim), “[…] una novità rispetto alle forme classiche di Stato nazione. In precedenza lo Stato aveva sempre svolto una funzione di mediazione tra le classi sociali. Con lo Sim, invece, quel ruolo passava direttamente al capitale, che lo svolgeva esclusivamente a proprio vantaggio.
Le multinazionali avrebbero condotto alla dissoluzione dello Stato sociale a favore di una nuova istituzione corrispondente esclusivamente ai loro interessi globali. Nel corso della realizzazione di questo piano, il lavoro a livello locale sarebbe divenuto meno stabile, la mobilità aumentata, rendendo precaria un’alta percentuale di manodopera, mentre in termini assoluti sarebbe cresciuto il numero di disoccupati in quanto molti di loro non sarebbero più stati assorbiti con l’emigrazione interna, fenomeno ormai in esaurimento nei Paesi a capitalismo avanzato.
In Italia la Democrazia cristiana era l’asse portante di questo progetto, l’elemento di «continua mediazione dialettica fra gli interessi dei vari gruppi capitalisti». La Dc si proponeva di costruire un «più vasto e articolato blocco storico apertamente reazionario e controrivoluzionario, funzionale alla costruzione dello Stato imperialista», cercando una spaccatura verticale con le forze rivoluzionarie per garantire il rafforzamento delle strutture militari in senso antiguerriglia, la creazione di una magistratura di regime anche attraverso l’inasprimento delle leggi repressive e l’istituzione di una repubblica presidenziale” (9).
Colpire il presidente della Democrazia cristiana significava colpire tutto questo. Facile parlare con il senno di poi, ma oggi si può dire che le Br avevano sottovalutato le regole della ragion di Stato, la spinta all’auto-conservazione del Leviatano, il cinismo delle correnti interne alla Balena bianca che era la Dc. Il rifiuto opposto a ogni trattativa condannò Moro. Come scrisse lo stesso esponente democristiano nella sua ultima lettera a Zaccagnini: “Per me è finita. Avete premuto voi il grilletto e non le Brigate rosse”.
Un’opera coraggiosa quella di Grimaldi. Ed è desolante doverla definire tale, ma si sa, l’Italia è un Paese che non sa fare i conti con la propria Storia; e sugli anni Settanta anche la settima arte, salvo rare eccezioni, si è sottratta.
1) Cfr. Iacopo Adami, L’ora del fucile, Paginauno n. 52/2017
2) Giusto per dirne una, la figura di Mario Moretti aderisce alla lettura circolata in alcuni ambienti che fosse un agente dei servizi segreti. Ci limitiamo a ricordare che è stato condannato a sei ergastoli e che ancora adesso si trova nel carcere di Opera, e solo nel 1997 (dopo sedici anni di detenzione) ha ottenuto il regime di semilibertà
3) Del resto, i rari passaggi in cui il film di Bellocchio diventa ‘politico’ sono di una superficialità disarmante. Basti pensare al parallelismo tra le lettere scritte dai partigiani prima di essere fucilati e quelle di Aldo Moro: quindi, in linea con la posizione di Luciano Lama all’epoca del sequestro, le Br sarebbero dello stesso stampo, se non peggiori, dei nazifascisti
4) Uno dei meriti del film di Ferrara è inquadrare il periodo storico. Per esempio, uno dei brigatisti illustra a Moro le ragioni
della sua scelta: “Mi ha chiesto come mai sono entrato nella lotta armata. Adesso glielo voglio dire. È una storia molto lunga. Potrei cominciare da mio padre, che faceva il bracciante. O dal tradimento del Pci. Ma le voglio parlare della classe operaia, di tutte quelle famiglie proletarie che vengono sbattute in mezzo alla strada dai licenziamenti, dagli sfratti, dal costo della vita. È il capitale a fare la guerra ai lavoratori, e il suo partito è quello che la dirige”
5) Per approfondire l’argomento rimando all’accurata ricerca condotta da Maria Rita Prette in Le torture affiorate, Sensibili alle foglie
6) Grimaldi ha scelto di utilizzare nomi di fantasia per tutti i brigatisti
7) Uno dei pregi di questo film è mostrare, tra le altre cose, il dibattito interno alle Br sulle strategie da seguire durante il sequestro, così da far emergere la complessità umana e politica della vicenda
8) Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santalena, Brigate rosse, Vol. 1, Derive Approdi
9) Ibidem