intervista di Giuseppe Ciarallo |
Il fioraio di Perón è un romanzo che, in un momento storico nel quale si sparge a piene mani il seme mortale della ‘dimenticanza’, procede controcorrente rivendicando l’importanza della memoria, da quella per la grande Storia a quella per le vicende delle persone semplici, entrambi flussi di vita che inevitabilmente finiscono per intrecciarsi.
Concepito su due piani temporali distinti, il romanzo da un lato narra di un giovane d’oggi, alla ricerca di tracce del passato di un suo prozio emigrato in Argentina e ormai morto da tempo, dall’altro ripercorre le vicende di un ragazzotto che a metà degli anni Venti del secolo scorso lascia la Sicilia e tenta la fortuna nel Paese sudamericano, dove la passione per la sua particolare occupazione lo porta a diventare “el florista oficial de la Casa de Gobierno”. In forza di tale incarico, il protagonista del romanzo, Cosimo Guarrata, entra in contatto con le più alte personalità che si succedono nei decenni alla Casa Rosada, da Augustin Pedro Justo via via fino a Perón, per diventare testimone, in vecchiaia, delle nefandezze perpetrate dalla Giunta militare dei Videla, Viola, Galtieri e compagnia brutta.
Dunque, Alberto, sono sempre molto curioso riguardo alle origini di un’opera. Come nasce Il fioraio di Perón, quanto c’è di autobiografico (la figura di Cosimo Guarrata so essere ispirata a quella di un tuo prozio) e soprattutto quali sono state le fonti documentali alle quali hai attinto per ricostruire in maniera così viva gli ambienti della Buenos Aires del secolo scorso?
Il ‘fioraio’ nasce dal ritrovamento nei cassetti di famiglia di alcune lettere scritte in cocoliche, un’interlingua tra italiano e castigliano, e inviate negli ultimi anni della dittatura di Videla dal fratello di mia nonna, ormai molto anziano, a mia madre. Questa è stata la molla che mi ha spinto a scrivere. L’altro elemento che ha dato di sprone alla scrittura è stato l’amore per la città di Buenos Aires, in cui ho passato, sulle orme dei migranti italiani del secolo scorso, alcuni mesi tra i più esuberanti della mia esistenza. Questo soggiorno si riflette in parte, ovviamente rielaborato, nella sezione del romanzo ambientata nel presente: ci sono soprattutto i luoghi che ho visitato, così come li ho ‘annotati’ con le diapositive della mia vecchia reflex. La macchina fotografica, per come la intendo io, è autobiografia, è già un io narrante che dice ‘c’ero’. Anzi, per essere precisi, più che di autobiografia parlerei di autofiction in terza persona. Il dato biografico ritorna in certo modo anche nella ricostruzione della vita di mio zio Cosimo, che divenne veramente il fioraio ufficiale della Casa di Governo per parecchi lustri, nonostante i vari colpi di Stato e i cambi repentini di governo.
Nel documentarti per la stesura del tuo lavoro, avrai dovuto leggere molto in relazione all’emigrazione italiana. Secondo te, cosa spingeva un emigrante a scegliere come luogo d’approdo l’America ‘povera’, come il protagonista definisce l’Argentina e per estensione tutto il Cono Sud, anziché puntare sui più ricchi e promettenti Stati Uniti?
Per come la penso io, due fattori erano rilevanti: le catene migratorie (ovvero il fatto che la gente tendeva a emigrare in posti in cui già vivevano parenti o compaesani) e le politiche migratorie dei Paesi di arrivo. L’Argentina in questo senso ha attratto ampi flussi migratori dall’Europa. In effetti in un primo tempo il migrante ideale per le autorità argentine era un biondo e intraprendente uomo dell’Europa del nord. Invece sono arrivati questi italiani piccoletti e neri, che scappavano dal fascismo portandosi i loro ideali anarchici e socialisti…
In ogni caso l’Argentina offriva un ricovero nell’Hotel degli immigrati e delle agevolazioni per chi voleva lavorare i terreni della Pampa o della Patagonia (espropriati agli indigeni, detto per inciso: era facile apparire generosi). Senza contare che lo sviluppo della piccola industria e delle manifatture durante il primo mandato di Perón attrasse ancora molti italiani, che scappavano dalla miseria del dopoguerra in un contesto in cui l’America ricca poneva già limiti ai flussi migratori…
Tornando al romanzo, Cosimo conosce Perón e rimane affascinato da questa figura di dittatore demagogo, capace però di toccare le corde giuste dando l’illusione di voler concedere maggior dignità al mondo del lavoro e di voler eliminare lo stato di bisogno che assilla gran parte della popolazione argentina. Premesso che ogni situazione, va da sé, è diversa per momento storico e condizioni economiche generali e locali, non trovi che le parole del populismo alla fin fine siano sempre le stesse in ogni parte del mondo, compresa l’Italia di questo ultimo ventennio?
In realtà è molto difficile considerare il peronismo con lo sguardo dell’Italia di oggi, e quindi non me la sento di fare paragoni. Innanzitutto c’è da chiarire che una cosa è Perón e altro è il peronismo. Poi ci sono stati tre/quattro periodi in cui Perón ha avuto influenze e piani diversi, e di peronismi se ne possono distinguere a iosa. Il più interessante fu probabilmente quello degli anni Settanta, quello dei montoneros, quando il peronismo si fuse con la teologia della liberazione e il marxismo. Quanto al populismo italiota, sembra al limite una variante demenziale del già becero menemismo. Dove la demenza non è tanto quella del caudillo di turno, quanto quella del gregge che l’ha votato. Almeno gli argentini hanno rialzato la testa col “que se vayan todos”, liberandosi di chi li aveva presi in giro per un lustro. Ma da noi?
Tornando al peronismo, c’è da dire che vi furono periodi storici molto diversi. Soprattutto dal ’46 al ’50 l’Argentina di Perón vide un incremento enorme dei livelli di alfabetizzazione, con l’accesso scolastico a fasce della popolazione che prima ne erano escluse. Ugualmente, il sistema sanitario gratuito permise l’accesso alle cure mediche a fasce di popolazione fino a quel momento non garantite. Al di là del linguaggio marcatamente populistico, Perón costruì la sua popolarità non sul consenso indotto, mediatico, creato dalla propaganda (o come oggi sulla solleticazione dei peggiori istinti della plebe), ma su un reale miglioramento delle condizioni di una larga fetta della popolazione. Miglioramento che aveva le proprie basi nello sviluppo di un’industria leggera, nelle mani della classe media, anche di recente immigrazione.
Un progetto che si scontrò con la vecchia oligarchia latifondista, quella dei proprietari terrieri e degli allevatori, che col clero e i militari si sbarazzò di Perón. Ovviamente l’altro aspetto del peronismo è che politiche anche progressiste si affiancavano a un’ideologia conservatrice, a pratiche autoritarie, censorie.
Mi sono stupito, leggendo il romanzo, che Alfredo non sia incappato, nelle sue peregrinazioni dalle parti della Casa Rosada, in quelle straordinarie persone che sono le ‘abuelas de plaza de Mayo’, le anziane donne coraggiose che ancora oggi reclamano la verità sui bambini dei loro figli trucidati dalla dittatura, rapiti alle famiglie e spesso affidati agli stessi torturatori e assassini. È stata una scelta, quella di non sfiorare un argomento che forse meriterebbe uno scritto a sé?
Esattamente. È stata una scelta voluta, anche perché erano appena usciti dei bei libri sulle Madres/Abuelas (quello di Carlotto, e poi in seguito quello della Padoan) e non credevo di poter aggiungere altro a ciò che loro avevano raccontato così bene. In ogni caso la casa delle Madres era la mia casa, ci andavo ogni sera all’ora del caffè, frequentavo il cineforum, la libreria, la biblioteca, i seminari dell’Università popolare, i giovedì in Plaza de Mayo. Di fatto ero sempre lì. Anche se dal libro non sembrerebbe (e quindi non è un’autobiografia pura, no?)
Nel tuo romanzo, Alfredo, il pronipote del ‘florista’, nella capitale incontra il grande vecchio del movimento libertario argentino, Osvaldo Bayer, biografo, tra le altre cose, dell’anarchico abruzzese Severino Di Giovanni, teorico (e soprattutto pratico) dell’azione diretta. Visto che non è un segreto che l’Alfredo del romanzo sia un tuo alter ego, parlaci di Osvaldo Bayer e del vostro rapporto, tra l’altro so che è in uscita una tua traduzione del suo saggio Severino Di Giovanni. L’idealista della violenza.
Guarda, io ho scoperto Bayer proprio leggendo a vent’anni il Severino Di Giovanni. Ne trovai una copia nell’archivio di un vecchio anarchico, il Chessa, che era stato l’editore della prima edizione nel 1973, guarda caso proprio l’anno in cui sono nato io. Il Chessa era molto anziano e aveva spostato l’archivio della famiglia Berneri (e la relativa casa editrice, la Collana Vallera) da Pistoia a Cecina. Andai a visitare il suo archivio perché avevo amici a Cecina, e da buon bastardo post punk mi portai via il libro da una pila di ultime rese che gli erano rimaste: ero un lettore vorace e dovevo arrangiarmi. Lessi il libro e mi piacque così tanto, rimasi così emozionato, che dissi: se questo tipo ha pubblicato questo libro è un grande. Tornai all’archivio, il vecchio anarchico era un individuo eternamente incazzato e non potevo dirgli: sai ti ho rubato un libro, ecco i soldi. Nonostante la differenza di anni mi avrebbe ammazzato, magari rovesciandomi addosso una montagna di faldoni polverosi. Decisi quindi di ripagargli la copia del libro aiutandolo a risistemare l’archivio. Eravamo un gruppetto di ragazzi a dargli una mano. Entravamo in questo garage-magazzino e se Aurelio – questo il nome del Chessa – era addormentato (erano i suoi ultimi giorni ed era sempre molto affaticato) andavamo a farci qualche birra, sennò ci mettevamo a riordinare corrispondenze epistolari di anarchici morti da tempo e che, senza avere il nostro look post-punk, ne avevano fatte di cotte e di crude.
Ricordo che un giorno il Chessa non era in archivio. Andammo a casa sua dove ci presentò “un compagno argentino”. Si andava verso l’estate, i due vecchi avevano ottant’anni per gamba e ci obbligarono a guardare il giro d’Italia e a svuotare fiaschi di vino. In quell’occasione il Chessa mi disse che nel mio paese, Follonica, aveva vissuto negli ultimi suoi anni un compagno di rapine di Severino Di Giovanni. Si chiamava Umberto Lanciotti, era morto a metà degli anni Settanta e Osvaldo Bayer era anche riuscito a intervistarlo. Per me fu un tuffo al cuore. Non immaginavo che da Buenos Aires questa storia potesse portare a Follonica. Dovevo rifare quel percorso, arrivare fino a casa di Bayer e saperne di più.
Cominciai a parlare a Follonica con alcune persone che avevano conosciuto Lanciotti, sfogliai il suo fascicolo presso il Casellario politico centrale a Roma. Quel materiale finì nel mio primo libro, Potassa. Le combinazioni non finiscono qui. Presentando Potassa in un centro sociale del nord est, comincio a raccontare questa storia: il Chessa, il Lanciotti, Severino Di Giovanni, Bayer. Finito il dibattito si fa avanti una signora che mi dice: sono la figlia di Osvaldo Bayer. Viveva in Italia e dava lezioni di tango in un centro sociale. Ana mi ha messo in contatto con suo padre e dopo una serie di peripezie sono andato a visitarlo nel suo tugurio, il rifugio in cui vive a Buenos Aires. Lì l’ho intervistato per il Manifesto e lui mi ha fornito dei contatti per conoscere meglio la città e la sua storia.
A Baires ci siamo visti spesso, nelle sue mille conferenze, ma anche a casa sua o a cena al ristorante all’angolo. Poi ho trasfigurato quest’incontro nel mio ‘fioraio’. Intanto ho trovato un editore per uno dei suoi libri più importanti, La Patagonia rebelde. Ho continuato a dialogare con lui via mail e l’ho incontrato un’altra volta. Poi quest’estate ho trovato un altro editore in Marco Philopat di Agenzia X, che è rimasto entusiasta all’idea di pubblicare la nuova edizione del Severino Di Giovanni, che risulta arricchita, estesa e anche corretta di alcuni errori rispetto alla precedente. Errori e precisazioni che Bayer ha potuto sistemare grazie al suo incontro con Umberto Lanciotti. In conclusione, c’è una sorta di circuito tra i libri che ho scritto (Potassa, che parla anche di Lanciotti e il ‘fioraio’, che ha come protagonista Bayer) e i libri di Bayer che ho tradotto. Spero in futuro di tradurre altre opere di Bayer, ma per quanto riguarda la mia scrittura il ciclo si interrompe qui, i prossimi temi della mia ricerca narrativa si sposteranno su altri fronti.
Sempre a proposito di Osvaldo Bayer, mi è venuto in mente che anche in un altro romanzo, e precisamente in Un caffè molto dolce di Maria Luisa Magagnoli, la protagonista parte per l’Argentina, ossessionata dal fantasma di Severino Di Giovanni. Decisa a indagare sull’universo dell’anarchico abruzzese, proprio da un personaggio di cui non fa il nome, nel quale si può però facilmente riconoscere la figura di Bayer, viene a sapere che America Josefina Scarfò, la donna di Severino, è ancora viva (il romanzo è del 1996 e America morirà nell’agosto 2006) e vive a Buenos Aires. Conosci il libro della Magagnoli?
Sì, l’ho letto. Ma devo dirti che non ho trovato il Severino che conoscevo io. Non so, al di là dell’amore evidente dell’autrice per l’Argentina, ho notato un’atmosfera da realismo magico che secondo me non riusciva a dar conto della storicità del personaggio. Sarà colpa della mia passione per la storia sommersa, ma Severino Di Giovanni è già stato caricato in passato di un’aura leggendaria che non rende giustizia al personaggio storico, al suo impegno politico, alla sua radicalità, al suo anticonvenzionalismo nei confronti della morale dell’epoca (vedi il suo rapporto, lui ventiquattrenne, con la quindicenne America, che quest’ultima rivendicò pubblicamente in una lettera pubblicata il 20 gennaio 1929 su un giornale individualista francese, l’en dehors, diretto da Émile Armand).
Sono d’accordo, ma forse la Magagnoli era più interessata alla storia d’amore tra Severino e America che a condurre una ricerca storiografica. Ma ora è giunto il momento del… tango! Quando penso al tango, a me vengono in mente il bellissimo disco di Astor Piazzolla e Jerry Mulligan (bandoneon e sax baritono, pensa che improbabile accoppiata!), e il commovente lavoro di Hugo Pratt, Tango appunto, dove compare un sorprendente Corto Maltese con i capelli imbrillantinati e leccati all’indietro, perché al club de La Parda, “faceva parte dell’abbigliamento con lo smoking bianco, giacca taglio lungo incrociato doppio petto e cravatta nera”. E a te, la parola tango, cosa evoca?
La parola tango, per quel che ne so, potrebbe avere origini africane. Il tango è l’effetto del multiculturalismo argentino, l’ibridazione di una nazione di immigrati, di tedeschi che ci hanno messo il bandoneon (una variante della fisarmonica), di italiani che hanno messo la voce della canzonetta d’amore, di ritmi africani mediati da candomblé e habanera. E non dimentichiamo le radici criolle, perché anche il folclore ha contribuito a quel frutto ibrido che è il tango. Lo stesso Gardel comincia come cantante di folclore, prima di cambiare registro.
C’è stato un periodo in cui tutte questi contribuiti erano leggibili sincronicamente. Poi qualcosa è cambiato, lo stile del tango ha preso una sua linea che passa da Parigi e da New York per poi tornare alle case di lamiera della Boca. Io non sono un musicologo, né un melomane, non sono neanche capace di ballare il tango… mi piace però molto il canto-canción, quello di Gardel, ma anche quello del polaco Goyeneche. Mi piace Piazzolla, ma molto di più Pugliese, però non chiedermi quali pezzi perché sono un ascoltatore casuale. Mi rimane un senso di rimpianto: che si sia persa l’anima afro del tango. Dove sono a Buenos Aires gli africani che contribuirono con la loro ritmica all’evoluzione di questo stile, che forse crearono la parola tango? Credo che siano stati decimati dalle politiche genocide, dall’immigrazione selezionata che ha fatto scomparire gli ultimi neri in un’epidemia di colera a San Telmo.
Ma per concludere… non si può dire di aver parlato di Argentina senza citare la bevanda nazionale: il mate (termine col quale si definisce sia la bevanda che il suo contenitore). A proposito, nel libro, Veronica, un’amica del fioraio, mentre insegna la preparazione dell’infuso a Cosimo si raccomanda: “Ricordati: se una persona non termina il mate, lo terminerà il cebador”. Siccome non spieghi chi è il cebador, mi ero fatto l’idea che potesse essere una figura mitologica, una sorta di demone, e mi sarebbe piaciuto chiudere su un personaggio magico un’intervista incentrata su una terra magica. Poi ho scoperto che il cebador, molto semplicemente, è colui che prepara il mate per gli amici.
Sì, infatti. Il mate viene bevuto in maniera collettiva, conviviale, in Argentina, e il cebador è quello che lo prepara, che di solito lo assaggia per primo e poi lo passa agli altri. Il mate non gira da persona a persona ma, una volta svuotato, torna sempre al cebador, ed è il cebador a riempirlo. Si ringrazia il cebador solo quando non si vuole più bere mate.
La maniera in cui il cebador offre il mate (e di converso la maniera in cui lo si restituisce) può avere implicazioni simboliche quasi aggressive. Esiste una grammatica, se vuoi una diplomazia del mate. Se ti offro mate freddo, per esempio, significa che non sei un ospite gradito. Il cebador non è certo una figura demoniaca ma ha sicuramente un potere molto forte. Nella mitologia dei compadritos d’un tempo, non ci voleva molto per passare da un mate mal servito alla lama di un coltello. Per questo anche se sono un buon matero, preferisco, quando ci sono degli argentini, che il cebador sia sempre uno di loro.
Alberto Prunetti (1973) è scrittore, traduttore, fotografo e insegnante di italiano per lavoratori immigrati. Per Stampa Alternativa ha pubblicato i romanzi Potassa (2004) e Il fioraio di Perón (2009), e ha curato l’antologia L’arte della fuga (2005). Ha scritto su il Manifesto, Carta, A rivista e al momento è redattore di Carmilla.