Astensionismo elettorale, oltre la disaffezione: rivendicazione di appartenenza a una ideologia politica che non trova più partiti a rappresentarla
Nel 1892 Leopoldo Ferrarini pubblica il saggio Cause dell’astensione elettorale: i cittadini del giovane Regno d’Italia erano talmente renitenti all’esercizio del loro diritto di voto da meritare il primo studio statistico sull’argomento. Alle elezioni del 1886 avevano partecipato infatti solo 58,5 cittadini su cento, contro una media europea di 63,2% (ma con punte del 77% in Francia e nell’Impero germanico). La Repubblica per lungo tempo ha senz’altro fatto meglio. Fino agli anni Settanta la partecipazione alle urne è stata superiore al 90%, caso più unico che raro nei Paesi occidentali, e sebbene in seguito la tendenza si sia invertita, è solo nelle ultime consultazioni che l’astensione ha raggiunto livelli preoccupanti.
Le cause del fenomeno in Italia sono in genere identificate nel progressivo sfaldamento dei partiti e delle loro organizzazioni politiche sul territorio, che ha via via rallentato la mobilitazione degli elettori, cancellando quel senso di identificazione con il programma politico del partito di appartenenza che si traduceva in un’alta partecipazione al voto, e nella cosiddetta ‘questione morale’ e relativa diffidenza dei cittadini nei confronti della politica. Secondo alcuni studiosi l’astensionismo contraddistingue invece le democrazie mature (una su tutte quella statunitense), dove si assiste a una naturale diminuzione dei votanti collegata a una minore passionalità politica, mentre secondo altri osservatori rappresenta un pericoloso segnale di sfiducia nelle istituzioni. Non si spiega tuttavia, al di là dei titoli di testa sui giornali, la superficialità (quando non l’indifferenza) con cui il fenomeno viene analizzato e liquidato, soprattutto nel nostro Paese. Forse che la vicenda nasconda qualcosa di più, o di peggio?
I numeri dell’astensione
Ma l’affluenza elettorale è in calo ormai da anni, come mostra il grafico di Ansa-Centimetri realizzato sulla base dei dati relativi alla Camera dei Deputati (Figura 1): analizzando la serie storica si nota come nei primi decenni della Repubblica il livello di astensione fosse molto contenuto (nel 1953 si stabilì il record d’affluenza: 93,84%, oltre 18 punti sopra al livello del 2013), e che solo dal 1983 la partecipazione è scesa sotto il 90%; in seguito la tendenza negativa si è acuita, con soglie dell’86-87% negli anni di Tangentopoli e con cifre ancora più basse nel ventennio berlusconiano (fatta eccezione per la consultazione del 2006, caratterizzata dall’effimera vittoria dell’Unione di Romano Prodi per una manciata di voti), fino ad arrivare al 75,2% (astenuti pari al 24,8% della popolazione) delle ultime elezioni politiche (Figura 2).
Alle elezioni europee del 2014 le cose sono andate ancora peggio: l’astensione in Italia si è attestata al 44,4%: non ha votato il 39,2% degli uomini e il 49% delle donne, con una maggiore incidenza al sud e nelle isole (come nelle politiche del 2013), e addirittura il 77,2% degli astenuti totali ha dichiarato di non potersi o non volersi collocare politicamente (fonte: Ipsos Public Affairs). Da un’analisi dell’ultima consultazione comunitaria condotta a cura del Parlamento europeo (1), si evince che il tasso di astensione nei Paesi membri è stato in media del 57,46%. I non votanti sono stati raggruppati in astenuti convinti (24%), che sono coloro che non votano mai (in aumento di due punti dalle precedenti elezioni); astenuti riflessivi (31%), che hanno deciso di non votare nei mesi o nelle settimane precedenti (stabili rispetto al passato); astenuti impulsivi (34%), che hanno deciso di astenersi nei giorni precedenti il voto o addirittura il giorno stesso delle elezioni (in crescita di due punti); e infine astenuti indeterminati (11%), che non sanno quando hanno deciso di non andare a votare (in calo del 2%). Fra i motivi dell’astensione i principali sono stati la “mancanza di fiducia nella politica in generale” (23%), “il fatto di non essere interessati alla politica” (19%), e che “votare non ha conseguenze/non cambia nulla” (14%).
Ma siccome al peggio non c’è mai fine, il 23 novembre 2014 si sono svolte le elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria. Il risultato, per quanto previsto dai sondaggi, è stato uno shock: in Calabria ha votato il 44% della popolazione, e in Emilia solo il 38%, la metà rispetto alla tornata elettorale precedente: l’astensione ha raggiunto quindi quote da capogiro, pari rispettivamente al 56 e al 62%. L’Istituto Demopolis ha indagato le motivazioni di quei milioni di cittadini che non hanno voluto o saputo scegliere: “Il 43% – sostiene il direttore Pietro Vento – attribuisce la propria scelta a sfiducia e delusione verso partiti e candidati; un ampio segmento, il 31%, appare pericolosamente convinto che la politica non incida più sulla vita reale dei cittadini. Per il 16% l’esito della consultazione appariva scontato, e uno su dieci non sapeva che si votasse domenica” (2).
E il 31 maggio 2015 (chi scrive non conosce ancora il risultato elettorale) si svolgeranno le elezioni per rinnovare il presidente e la giunta regionale in altre sette regioni: Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Umbria e Veneto. Nello stesso giorno si svolgeranno le elezioni amministrative in 1.062 comuni, tra cui 18 capoluoghi di provincia. La maggioranza degli elettori italiani (52%) secondo un’indagine di Cmr Intesa Sanpaolo per La Stampa, non si sente vicina ad alcun partito: “A prendere sempre più piede sembra quindi essere il partito dell’astensionismo, o del potenziale astensionismo […] Per il 37,4% i politici non si interessano alla gente comune, per il 27,5% votare è inutile, tanto le cose non cambiano e per il 15,2% i partiti fanno schifo. Accanto a questa distanza che sembra dividere gli elettori dal mondo politico, c’è la concezione che le tradizionali categorie di destra, centro e sinistra non abbiano più significato (questo è vero per il 75% degli intervistati)” (3). Lo scenario peggiore sembra essere quello della Liguria, dove l’affluenza alle urne è prevista al 37-42%, come indica Luca Sabatini, analista dei processi elettorali e docente di Statistica e Sociologia dei processi economici all’università di Parma: “Se prendiamo una previsione ottimistica parliamo di una partecipazione del 40- 45%, quella più pessimistica si attesta sul 35-40%” (4).
E non si tratterebbe solo della Liguria: da varie rilevazioni si evincerebbe che nel Centro-Nord del Paese e, in particolare, nelle cosiddette regioni ‘rosse’, quasi due terzi degli elettori non andrebbero a votare. Se finora l’astensionismo aveva colpito di più le regioni meridionali e storicamente sembrava un fenomeno riguardante maggiormente il centro-destra, adesso sembra che sia proprio l’elettorato di sinistra a mostrare più insofferenza. Il 24 aprile 2015 Fausto Anderlini, sociologo, ha presentato a Bologna un sondaggio politico sulla città condotto da Delos. Da culla della partecipazione e del buon governo Bologna si avvicina a grandi passi all’astensionismo ideologico: attraverso l’analisi di un campione di 600 casi stratificato per sesso, età e zona di residenza, emerge che l’orientamento di voto a Bologna consegna il 72,3% all’astensione. Anderlini spiega che “ormai esiste un vero e proprio partito dell’astensione anche a Bologna dove pure l’elettorato continua a considerarsi di sinistra. Si configura dunque una forma di ‘astensione ideologica’ perché questo dato si colloca in un contesto in cui viene ancora, nonostante tutto, rivendicata un’appartenenza politica sebbene non più partitica”. E nel testo elaborato per l’occasione si legge: “Stupisce il modo esplicito col quale l’astensionismo si dichiara adducendo moventi politici. Sino a poco fa tale comportamento era nascosto nella reticenza. Oggi si palesa quasi come una nuova coscienza di sé. L’astensionismo sembra essere diventata una forma di orgogliosa consapevolezza”(5).
Un’analisi dell’astensione
Per tentare di analizzare l’astensione elettorale, bisogna, come si sarà intuito, considerare che il fenomeno del non-voto racchiude al suo interno forme del tutto diverse fra loro. Sebbene le classificazioni possano avere gradi maggiori o minori di specificità, riteniamo sia utile distinguere almeno quattro gruppi distinti: un astensionismo fisiologico-demografico, che si realizza quando il non recarsi a votare è determinato da cause fisiche (malattie invalidanti, ospedalizzazione), catastrofi naturali, oppure da un minor numero di iscritti nelle liste elettorali dovuto alla diminuzione della natalità o all’invecchiamento degli aventi diritto al voto (e questa è una forma ‘naturale’ di astensione, che prescinde dalla volontà dei soggetti di recarsi alle urne); un astensionismo tecnico-elettorale, che si realizza quando le modalità del voto sono così complicate da scoraggiarne l’esercizio o per una scarsa efficienza nel recapito dei certificati elettorali (anche in questi casi i cittadini hanno poche responsabilità); un astensionismo apatico, tipico di coloro che non si interessano alla politica e che pertanto non votano mai; un astensionismo che abbiamo deciso di chiamare da bipolarismo, che raggruppa chi non trova più un organismo politico che ne rappresenti le istanze dopo la dissoluzione dei partiti tradizionali nelle macro-compagini attuali; e infine un astensionismo di protesta, di chi sceglie di non votare come ritorsione contro la mala gestione della cosa pubblica o per sfiducia verso il ruolo della politica. Dato che in genere i numeri dell’astensionismo fisiologico, di quello tecnico e di quello apatico sono piuttosto stabili, sono le ultime due forme quelle che determinano la crescita esponenziale del fenomeno.
Quando il non-voto rispecchia una non-azione, il che avviene quando ha alle spalle indifferenza e disinteresse come nel caso dell’astensionismo apatico, è possibile inquadrarlo nello schema esplicativo più utilizzato per analizzare la partecipazione politica, quello che fa riferimento alla dimensione centro-periferia, per la quale la partecipazione politica di un individuo dipende soprattutto dalla sua posizione sociale, ed è tanto maggiore quanto più questa posizione si trova prossima al centro della società. Alla centralità sociale concorrono tutta una serie di fattori: innanzitutto l’età, il genere, la condizione occupazionale (sono più centrali gli adulti che lavorano degli anziani, dei giovani e delle casalinghe); poi lo status socio-economico (più centrali le classi superiori di quelle inferiori); il livello culturale (più centrali i più istruiti); l’esposizione alla comunicazione politica; l’integrazione nella comunità locale e nell’istituzione familiare (più centrali i residenti da tempo nel comune e i coniugati); e infine le componenti geografiche (più centrali gli abitanti delle grandi città e del centro-nord). In questo schema le classi socialmente centrali partecipano di più, e quando per un qualunque motivo diminuisce l’effetto di mobilitazione proveniente dal sistema politico, le prime categorie sociali a non partecipare sono quelle più periferiche (per esempio le donne anziane, i giovani disoccupati, i residenti nei comuni minori del sud, e così via) (6).
Quando invece il fenomeno dell’astensione non è la conseguenza di un estraniamento sociale, ma è un comportamento consapevole che esprime la distanza tra sé e la politica così come si esprime in un dato momento storico (astensionismo da bipolarismo e di protesta), esso non è più inquadrabile in termini di centro-periferia, ma necessita di nuove dimensioni interpretative (anche se presumibilmente coinvolgerà i gruppi più capaci di innovazione, per esempio i maschi adulti occupati dei capoluoghi del centro-nord o gli intellettuali). Come scriveva Piero Gobetti nell’articolo La nostra fede (1919): “Guardate la vita politica da un punto di vista di onestà illimitata: ne provate disgusto; e il disgusto degenera in astensionismo, scherno, indifferenza per i supremi interessi”. Bisogna ricordare tuttavia che l’astensione attiva esprime sì distacco dalla vita politica, ma non necessariamente da quella pubblica. Politico e pubblico si somigliano ma non sono la stessa cosa, perché l’impegno civile, ossia il contributo che l’individuo dà alla società, non si esaurisce nel recarsi periodicamente alle urne (e Gobetti ne è un ottimo esempio).
Pietro Polito, filosofo e politologo torinese, amico e collega di Norberto Bobbio (con cui ha pubblicato come coautore), suggerisce inoltre di distinguere ulteriormente l’astensionismo attivo e quello passivo fra astensionismo contingente e astensionismo strutturale: “Per astensione contingente intendo quella praticata episodicamente in base alle circostanze politiche del momento. Questo potrebbe essere il caso di un elettore attivo che diventa passivo e potrebbe essere la scelta di tanti giovani al primo voto che non si riconoscono in nessuna offerta politica (che brutto modo di definire e presentare la politica alla stregua di uno spettacolo televisivo di prima serata o come una delle innumerevoli marche di un prodotto esposto ai grandi magazzini). Venendo all’astensione strutturale, per essa intendo quella di lunga durata, praticata sistematicamente, per anni, da anni, elezione dopo elezione, senza dubbi né rimorsi. Il più noto astensionista strutturale attivo dichiarato è stato il grande Giorgio Gaber, anarchico, individualista, certo non qualunquista. Ma io stesso conosco personalmente molti astensionisti attivi, vecchi e nuovi. I più antichi – attenzione alle date – non votano dal 1989 (la fine del comunismo), i più giovani non lo fanno dal 1994 – l’avvento di Berlusconi” (7).
Le ragioni dell’astensionismo
Se l’indifferenza, con la sua perdita totale della concezione della polis e un ritiro narcisistico nella sfera del privato, è uno dei fattori essenziali per comprendere a pieno l’astensionismo passivo, interrogarsi sui motivi degli elettori che, abituati da sempre alla partecipazione alla vita pubblica, scelgono consapevolmente di disertare le urne non è altrettanto semplice. Uno dei motivi più citati, insieme allo scoramento generato dalla corruzione della politica, è la fine delle ideologie e l’appiattimento dell’antitesi destra-sinistra cui ha fatto seguito una sorta di ‘omogeneizzazione’ dei programmi dei partiti, per cui le differenze appaiono ormai più lessicali che sostanziali. Come scrive Alessandro Parodi: “In tutta la Prima Repubblica il voto in Italia si è estrinsecato nella contrapposizione fra due grandi partiti: la Dc e il Pci. La narrazione era semplice, lineare. O di qua, o di là. L’appartenenza sociale e valoriale, sulla scorta della narrazione più ampia rappresentata dalle due superpotenze mondiali, con il loro universo ideologico in conflitto, garantiva un’identità monolitica, incontrovertibile. Era la società di massa, quella in cui prima di essere individui si era comunisti o operai o cattolici o travet. Una mondo che declinava nella modernità gli stilemi della millenaria suddivisione per categorie umane della società contadina, sopravvissuta come forma mentis alle rivoluzioni industriali. Ma oggi quella società non esiste più. Tutto questo si ripercuote sulla scelta politica” (8).
Ma non è solo un problema di narrazioni alternative: “Guardando bene, uno dei fenomeni che più balza agli occhi è la fine, non tanto delle ideologie che continuano a rigenerarsi imperterrite come ramificazioni del pensiero unico dominante […] quanto la fine dell’offerta politica idealistica. L’idealismo è incarnato nella storia d’Italia, dall’Unità al ventennio fascista, passando per la Resistenza, la fase costituente e gli anni di piombo, la cronaca di questa nazione è profondamente segnata dall’idealismo come causa scatenante la quasi totalità dei fenomeni politici. Persino all’interno del bipolarismo in salsa berlusconiana sono esistiti partiti profondamente incentrati su aspetti idealistici della politica. Esempi possono essere Rifondazione comunista e Alleanza nazionale […] In Italia ci sono ancora, anche tra i giovani, molte connotazioni antiborghesi, anticapitalistiche e, si potrebbe dire, terziarie, rispetto alla dicotomica e attualmente obbligata scelta tra il partito liberaldemocratico e filocapitalista e il partito neoliberale e filocapitalista. In questo senso si comprende anche una parte del successo del Movimento 5 stelle, che avrà sì cavalcato l’antipolitica per attirare consensi ma ha sicuramente attirato, nel frattempo, una parte di quell’elettorato che si è sentita tradita dall’omologazione, dall’appiattimento e dalla rinuncia alle lotte ideali da parte dei rispettivi leader.
Per questo, chi si occupa di politica in prima linea, dovrebbe riflettere sul fatto che esiste una larga percentuale di votanti che semplicemente aspetta nostalgicamente di tornare a casa propria, una nostalgia, spesso, non mossa da nefasti e inopportuni torcicollo storico-ideologici, quanto da una mai rimossa passione della coerenza […] Poiché nessun idealista che rispetti in se stesso questa definizione, potrà con facilità d’animo dirsi sinceramente socialista in Italia alleandosi con Renzi e nessun conservatore, equivalentemente, potrà mai dirsi tale, sentendosi in pace in un’alleanza con Silvio Berlusconi” (9).
La pensa allo stesso modo Paolo Gambi, scrittore e giornalista, che scrive sull’Huffington Post: “Senza un ideale forte tutto si appiattisce sulla gestione del potere, che senz’anima diventa grigia. Non serve cambiare le persone se non si trovano nuove idee, nuove visioni, nuove energie. Questo è il progresso. E sembra si sia fermato, insieme allo sviluppo di tutto il Paese. Ma dalle stanze della politica silenzio e buio totale. Ogni giorno sembra un’occasione per navigare ancora a vista, senza una visione, senza un piano, senza un ideale di riferimento” (10).
Le conseguenze dell’astensione
L’astensionismo è diventato il primo partito, ma la politica che conta fa orecchio da mercante. Come mai? In fondo c’è un enorme serbatoio di voti in palio, voti che potrebbero scardinare lo status quo. E forse proprio per questo nessuno si azzarda a muovere un dito e, anzi, il nostro presidente del Consiglio liquida il fenomeno, all’indomani delle elezioni regionali in Emilia lo scorso novembre (vinte dal Pd con il voto, lo ricordiamo, solo del 37% dei cittadini), come “secondario”. Sembra che la giusta domanda da porsi, da parte dei politici ‘realisti’, non sia chi non vota e perché, semmai il contrario: chi sono quelli che ancora votano e come conquistarli? A quali tasti sono sensibili le corde del loro cuore (o meglio, vista la scarsità di ideali in gioco, del loro portafoglio)? Perché una cosa è sicura, e gli statistici lo sanno bene: meno persone vanno alle urne, più è facile prevedere il risultato.
Le elezioni più incerte sono quelle con un’alta affluenza, in cui entrano in gioco gli umori mutevoli di chi non sa come schierarsi, e per il potere costituito gli astenuti sono molto meno rischiosi degli indecisi. Non solo: con le nuove leggi elettorali, che mirano alla tanto decantata ‘governabilità’, bastano pochi voti e (grazie al premio di maggioranza) uno scarto minimo sul secondo arrivato per controllare il Paese. Lo sa bene Renzi, che governa alla Camera (345 seggi su 630) con il voto di 22 italiani su cento (il 29,74% del 75% di cittadini che si sono recati alle urne), e al Senato (123 seggi su 315) grazie al voto di 23,7 italiani su cento. Voti quasi sicuri: difficile che chi non ha smesso di votare Pd fin qui decida di farlo nel prossimo futuro.
Il problema di cui nessuno vuole parlare, politici in primis, è l’altra faccia della medaglia: “Il nostro non è più un regime democratico, cioè non esistono più istituzioni legittimate dal consenso popolare. Le élite si riproducono in luoghi che non sono più riconosciuti dalle persone normali. La politica dall’alto riduce gli spazi di democrazia auto-legittimandosi e auto-fondandosi (si pensi alle nuove province e al nuovo Senato) e il popolo non partecipa più, disertando l’esercizio democratico […] Il Movimento 5 stelle si è già sgonfiato (come era prevedibile) e il voto di protesta diventa nero-verde. Su questo si rifletta: la Lega Nord sta cambiando pelle, si sta facendo partito nazionale sul modello francese, inglobando dentro di sé (anche) tutto l’armamentario ideologico dei gruppuscoli neofascisti […] Qui c’è un Paese con sempre meno democrazia e sempre meno legittimazione popolare. Con un vertice che si rinchiude nella torre d’avorio e un popolo che non partecipa più, perché non si sente rappresentato dalla politica e che, quando partecipa, sceglie o la conservazione rassicurante (il partito della Nazione) o il populismo di destra (ieri il M5s, oggi direttamente Salvini)” (11).
E, dal momento che per le ragioni sopra esposte è da folli attendersi che i partiti (pentastellati compresi) si auto-riformino (e poi perché dovrebbero?), l’unica possibile alternativa non può che arrivare dal basso. È successo in Spagna, dove un nuovo partito dal nome evocativo di Podemos (Possiamo), nato lo scorso anno per iniziativa di un giovane professore di economia politica, Pablo Iglesias Turriòn (classe 1978) proveniente dal movimento degli Indignados, dopo aver ottenuto l’8% dei consensi e 5 deputati nelle elezioni europee, ha vinto il 25 maggio le elezioni amministrative nelle due ‘capitali’, Barcellona (battendo lo storico partito nazionalista catalano) e Madrid dove, pur essendo arrivato secondo (lo superano i Popolari per una manciata di voti), governerà in virtù di già annunciate alleanze.
Il programma di Podemos ruota intorno a pochi principi cardine: il controllo pubblico dell’economia, attraverso il rilancio dello stato sociale (sanità e istruzione), la riduzione della povertà grazie al reddito di base, la lotta alle lobby della finanza e all’evasione fiscale delle grandi imprese multinazionali; la promozione della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità di tutti i cittadini, attraverso serie misure antidiscriminazione; la ridefinizione della sovranità nazionale, non soltanto revocando il Trattato di Lisbona e abbandonando la Nato, ma promuovendo il meccanismo referendario per ogni modifica costituzionale; e infine l’attenzione all’ambiente, attraverso politiche energetiche sostenibili e il rilancio delle produzioni agricole locali. Non a caso in Europa è alleato con Tsipras. Forse, potendo, lo voterebbe anche qualche astenuto di casa nostra.
1) Cfr. Studio post-elettorale 2014, Elezioni europee 2014, sintesi analitica, ottobre 2014
2) Le ragioni del non voto: analisi Demopolis sull’astensione alle Regionali, www.demopolis.it
3) Elezioni, l’Italia dell’astensionismo. Il 52% non si riconosce in nessun partito, Il fatto quotidiano, 18 maggio 2015
4) M. Bompani, Fuga dalle urne: a fine maggio astensione al 60%, La Repubblica, 12 maggio 2015
5) C. Alessandrini, Da culla della partecipazione politica all’astensionismo esistenziale: il caso di Bologna, www.huffingtonpost.it, 27 aprile 2015
6) Cfr. P. Corbetta e D. Tuorto, Astensionismo elettorale: di destra o di sinistra?, Istituto Cattaneo, 31 ottobre 2004
7) P. Polito, Il significato dell’astensione, Centro studi Sereno Regis, www.serenoregis.org, 25 gennaio 2013
8) A. Parodi, Astensionismo: la parola sbagliata sulla bocca di (quasi) tutti, www.huffingtonpost. it, 25 novembre 2014
9) F. Boezi, Le ragioni dell’astensionismo, www.lintellettualedissidente.it, 18 settembre 2014
10) P. Gambi, Chi non vota vuole un leader e ideali per la sinistra? L’unica risposta arriva da papa Francesco, www.huffingtonpost.it, 29 novembre 2014
11) S. Oggionni, Post-democrazia: cambiamo tutto, www.huffingtonpost.it, 25 novembre 2014