Sabrina Campolongo
Recensione di Cani neri, Ian McEwan
Sono semplici cani randagi, inselvatichiti e resi aggressivi dalla fame, o forse affetti da rabbia, oppure creature metafisiche, vive allegorie del Male, i due grossi molossi neri da cui June viene aggredita, mentre percorre un sentiero isolato lungo le Gole della Vis, nel sud della Francia, in un torrido primo pomeriggio dell’agosto del 1946?
Attorno a questa domanda, naturalmente destinata a restare senza risposta, si giocano le esistenze di June e Bernard, i protagonisti di Cani neri, di Ian McEwan; due vite destinate a correre appaiate, pur se divise, e il cui racconto viene restituito, a ritroso, dalla voce narrante del genero della coppia, Jeremy, che già dalla prima pagina rivela al lettore la sua condizione di orfano in cerca di una famiglia di riferimento, che troverà in gioventù, di passaggio, in quelle dei suoi compagni di scuola e poi, definitivamente, nei genitori della moglie, June e Bernard appunto.
Figure monolitiche almeno quanto quelle dei due enormi cani neri – annunciati già dalle prime pagine, ma narrati compiutamente solo alla fine del romanzo, quando il lettore è pronto a comprenderne tutto il portato – June e Bernard si sono conosciuti e scelti da giovanissimi, hanno condiviso gli ideali della Resistenza e del marxismo, con lo stesso entusiasmo con cui hanno condiviso l’esaltante scoperta dei loro corpi, e i sogni più privati, come quello di un figlio o di una casa, ma poi si sono separati, a causa dell’intransigenza di entrambi, senza mai smettere di costituire, l’uno per l’altra, l’unico amore possibile, l’eterno punto di riferimento, nel bene e nel male, per quarant’anni.
Per June il punto di svolta coincide proprio con l’incontro con quei due cani di proporzioni innaturali, apparsi nel nulla come mostri mitologici, come allegorie a beneficio di June stessa, come materializzazione di tutte le paure senza nome che da tempo la attanagliavano. La loro presenza di per sé terrificante, l’aggressione e la sua resistenza segnano il momento della sua scoperta di se stessa, prima che del divino. Da quel momento, niente per lei è come prima e Bernard, che invece è rimasto fedele alle sue idee, incapace di seguirla non può che lasciarsi abbandonare, o abbandonarla.
McEwan, attraverso il suo narratore, Jeremy, non fa che contrapporre le due visioni, quella di June, mistica e critica verso tutti i sistemi, tesa alla ricerca di uno ‘scopo finale’ dell’esistenza di cui si mostra pronta a cogliere i segnali, e quella di Bernard, materialista, razionale e scientifica, sufficientemente fedele all’idea da non riuscire a venir meno alla militanza, anche dopo il fallimento del comunismo applicato.
Il punto di vista di Jeremy oscilla tra queste due opposte visioni della vita, sempre con la sensazione che una soltanto non sia sufficiente a spiegare tutto, che a entrambe manchi qualcosa, incapace di fare una scelta e allo stesso tempo consapevole che accoglierle entrambe equivarrebbe a non credere a nulla, allo scetticismo più totale, all’ignavia.
Una conciliazione non sembra praticabile, e McEwan fortunatamente sfugge alla trappola di permettere che l’Amore faccia la magia: l’amore non basta, e la storia di June e Bernard ne è la prova, dal momento che è evidente che i due non hanno mai cessato di amarsi, eppure non vi è riconciliazione possibile, nemmeno dopo la morte di June.
Dal confronto tra le due versioni della loro storia, attraverso l’intermediazione di Jeremy, risulta chiaro che entrambi barano, che è necessaria una buona dose di contraffazione della verità anche solo per restare fedeli a se stessi. June è accusata da Bernard di falsificare la sua verità privata, di alterare la vita per costruire leggende, di stravolgere i fatti per trovare conferma delle proprie convinzioni, mentre June accusa Bernard di contraffare la Storia, di mistificare la realtà per non ammettere il proprio errore, per non aprire gli occhi sul presente e poter vivere sempre nel tempo dell’ideologia, il futuro irraggiungibile del Progresso.
L’unica verità incontestabile è forse il dolore che entrambi provano per il fallimento del loro amore, per non essere riusciti a parlarsi, a stare insieme malgrado il sentimento sostanzialmente intatto, la loro inspiegabile solitudine vissuta l’uno nell’ossessione dell’altro. “Non abbiamo saputo mettere da parte l’amore, ma nemmeno piegarci al suo potere” confida June, in punto di morte, a Jeremy che cerca di scrivere la sua biografia. Allo stesso tempo, la storia privata di June e Bernard si muove come un contrappunto alla Storia.
I due si sono sposati alla fine della seconda guerra mondiale, hanno vissuto gli orrori del nazismo, la fede nel comunismo e la sua caduta. Quarant’anni dopo, nel 1989, Bernard conduce Jeremy a Berlino, per partecipare all’esplosione di ingenuo entusiasmo e collettiva ubriacatura che accompagna la demolizione del Muro e già cova i semi di una nuova ondata di violenza. Il fallimento della Storia si intreccia con il fallimento della loro storia, i ‘cani neri’ (che il sindaco del paese dove si sono materializzati in quell’estate del 1946 ha affermato essere quelli portati durante la guerra dai nazisti, e usati per torturare i prigionieri), corrono ancora liberi, pronti a materializzarsi in altri luoghi, lasciando una scia rossa di sangue sulle pietre bianche, come nel sogno ricorrente di June.
A Berlino, Bernard incontra i suoi, un gruppo di naziskin che lo aggredisce per aver tentato di difendere uno strambo nostalgico con una bandiera rossa, ma viene salvato da una ragazza – una sconosciuta incrociata poco prima e notata da Bernard stesso per una certa somiglianza con June, morta due anni prima – che interviene come un angelo vendicatore, scacciando i ragazzi. Ma, a differenza di quanto aveva fatto June, Bernard non è intenzionato a trovare un significato simbolico in questo avvenimento, nonostante poche ore prima fosse stato proprio lui a raccontare a Jeremy di aver atteso ‘un segno’ da June, nei primi mesi dopo la sua morte, e di aver continuato, poi, a guardare le ragazze, cercando in loro una somiglianza con quella che aveva sposato. Ma, quando la stessa ragazza che lui aveva notato nella folla lo salva da un gruppo di teppistelli intenzionati a dargli una lezione, Bernard, coerente fino in fondo, si limita a liquidare il fatto come una mera coincidenza.
È forse proprio con questa scelta che l’autore sembra far pendere la bilancia in favore della visione di June. La caparbia negazione di Bernard appare eccessiva, così come sarebbe risultata incoerente e improbabile una sua resa: è nella costruzione stessa dell’episodio – la ragazza notata in quanto somigliante a June, la confidenza di Bernard, l’attesa di un segno, l’aggressione e quindi il salvataggio a opera proprio di quella ragazza, intravista e poi persa nella folla – che l’autore inserisce il dubbio, mettendo in dubbio anche l’ateismo del lettore.
Chi non sarebbe pronto, in quelle circostanze, a vedervi un segno? Altri episodi sembrano rafforzare la posizione di June: Jeremy, tornato al buio nella casa in cui lei ha vissuto – una fattoria acquistata proprio poco dopo l’episodio dei cani neri, a poca distanza dalle Gole – avverte la sua presenza tanto da esserne inquietato e cercare un fiammifero invece di riattivare l’interruttore generale alla cieca, risparmiandosi così uno scontro con uno scorpione, una giovane June, accortasi da poco di essere incinta teme che l’uccisione di una bellissima libellula possa causare una punzione al suo bambino, e la piccola Jenny nasce in effetti con un sesto dito; questo mentre la fede di Bernard nel progresso e nella scienza sembrano essere messe a dura prova dagli avvenimenti.
Il momento del ritorno a Berlino, la passeggiata di Bernard e Jeremy tra la folla festante, lungo le barricate, sulla piattaforma di legno di Potsdamer Platz, è avvolta da un senso di amarezza e di inquietudine, è chiaro che la caduta del Muro non sancisce la fine di uno stato di belligeranza, ma è destinato a riaprire vecchie ferite e riaccendere vecchi e nuovi conflitti, rimasti sopiti sotto la cappa pesante della guerra fredda, come la sanguinosa guerra jugoslava rivelerà di lì a poco. Eppure, Bernard è ancora pronto, nonostante l’età e la disillusione, a intervenire in prima persona contro l’ingiustizia, a rischiare la pelle per salvarla a uno sconosciuto, esattamente come fa l’alter ego di June, la ragazza di Berlino.
Sperando di sfuggire a una metafora troppo semplice, se Bernard e June rappresentano un passato di idee forti e di lotta e la ragazza di Berlino potrebbe rappresentare il futuro, o la speranza per il futuro, Jeremy, nella sua veste di testimone ‘orfano’ di una guida e troppo incerto nei suoi passi sembra il ritratto più verosimile del presente. “Non so dire se la nostra civiltà che ormai si affaccia alla fine di questo millennio soffra più per una mancanza o per un eccesso di fede, se siano stati individui come Bernard e June a ridurci così, o non piuttosto tipi come me”.
Cani neri, Ian McEwan, Einaudi, 1992