“Fino alla pubertà Curzio visse più nei vicoli che a casa. Lì aveva fatto il puledro, la pecora, il leone e il coniglio, a seconda dei rapporti di forza. Le aveva date e prese di santa ragione”. Tre frasi che indicano il destino di un ragazzo nato in Calabria da una famiglia povera, la cui ‘unica’ risorsa sono i valori e la dignità. Con questo bagaglio, Curzio percorre la propria vita cercando di non diventare uno schiavo. Si fa una cultura, conosce l’arte e cerca di seguire il proprio desiderio, e lo fa fino al giorno in cui, testimone di un omicidio, decide di denunciarne i responsabili. Il lettore però si accorge presto che questo fatto, utile a lanciare la trama, non è che il tratto narrativo scelto dall’autore per raccontare l’Italia. Il risultato è una storia di ricchezze edificate sul sudore e il sangue degli ultimi che, per non morire di fame, sono costretti a migrare (come accade a Curzio). Un intreccio che coinvolge mafiosi, fascisti, democristiani, fino agli spietati colonnelli di Videla, nell’Argentina degli anni Settanta, a mostrare che il potere, pur nelle sue sfaccettature, è sempre violento.
All’inferno con ritorno, pubblicato da Guida Editori, è l’ultimo romanzo di Cataldo Russo, che abbiamo incontrato per due chiacchiere sulla scrittura e sulla sua opera.
All’inferno con ritorno è la parabola di Curzio, nato in Calabria alla fine del Ventennio. Il protagonista non appare subito nelle prima pagine, eppure c’è, introdotto dalla figura di Ercole, lo zio a cui Curzio è più affezionato. Un personaggio che ne presenta un altro e al tempo stesso una anticipazione perché zio Ercole sarà vittima di una tragedia, una delle ingiustizie del libro, che segnerà la vita di Curzio. Come dire, nella prima pagina troviamo buona parte del romanzo. Io le considero competenze tecniche che un valido scrittore deve possedere. È d’accordo? O pensa invece che la scrittura sia più frutto di una sorta di imprecisato istinto e di ispirazione?
Sì, credo siano competenze tecniche che derivano sia dal lungo esercizio della scrittura, sia dal racconto orale e da una conoscenza approfondita dei luoghi e dei personaggi, benché siano inventati, che ho descritto. Il primo capitolo rappresenta una sorta di trappola che ho voluto tendere al lettore per confonderlo, fargli credere, cioè, che il romanzo avesse uno sviluppo ironico, leggero, quasi si trattasse di un affresco di vita familiare eseguito con gli ingredienti della commedia, e invece questa sensazione dura lo spazio di un attimo, perché già il secondo capitolo ci immerge nel dramma di Genio, il cugino di Curzio. Zio Ercole, vittima sacrificale di un contesto impietoso verso i meno fortunati, determinerà gran parte dell’agire di Curzio, improntato sempre alla ricerca di giustizia e verità. Anche per questo il nanerottolo Ercole è un personaggio pregnante del romanzo.
Nel romanzo c’è un altro zio importante per Curzio, zio Cesare. Di nuovo, come per zio Ercole, questo personaggio e l’episodio che lo vede protagonista – vendica il figlio a cui è stato sterminato il gregge – fa da bilancino per la formazione di Curzio. E con zio Cesare cresce con forza anche il tema centrale che è saldato a quello dell’ingiustizia: la tematica dell’impunità. Già, perché zio Cesare si arrangia da sé contro i malfattori, non ricorre alle vie legali, tanto sa che non troverà ascolto. I potenti di turno se la cavano sempre, niente li scalfisce. Mi viene in mente la Chiave d’oro di Verga, dove il canonico e il giudice stipulano un tacito accordo senza dar giustizia al morto ammazzato a fucilate così da non intaccare i loro imperi, o gli incolpevoli della Notte del ‘43 di Bassani: nessuno è responsabile della strage. Nel suo romanzo tale tema è sondato in ogni ambiente dalla scuola, al paese – il giovane arso in un sacco – alla caserma. In Italia e all’estero. L’Argentina diventa infatti la nuova patria di Curzio: anche lì il protagonista conosce soprusi e delitti impuniti, nella località di Bariloche o in carcere. Il tema le sta a cuore. Perché questa scelta? È ciò che osserva e trova ricorrente nella realtà umana?
Ho sempre creduto che accanto alle legge ufficiale, quella scritta sui codici, ce ne sia un’altra parallela che riguarda i potenti, i quali godono sempre, ovunque, di corsie preferenziali. Del resto, Giolitti diceva che per i cittadini le leggi si applicano e per gli amici si interpretano. In un contesto dove non si riesce ad avere ascolto, soprattutto da parte di chi è preposto al rispetto delle regole, è facile che le persone finiscano nelle fauci delle giustizia fai da te. Questo tema, che sviluppo, seppure da diverse angolazioni, costantemente nei miei romanzi mi sta particolarmente a cuore, perché sono sempre più convinto che senza le connivenze dei poteri forti e delle forze dell’ordine colluse con le organizzazioni criminali non potrebbero esserci gli abusivismi e i fenomeni delinquenziali che conosciamo e che hanno reso difficile, se non impossibile, la vita nel Sud. Come in Bassani, ne All’Inferno con ritorno, i responsabili della morte di Ercole sembrano essere in primo luogo lui, il nanerottolo, che non essendo scaltro abbastanza inciampa e cade, e le pietre di cui sono lastricati i vicoli.
Nel romanzo troviamo due soluzioni diverse riguardo il tema dell’impunità/giustizia. Quando ogni cosa sembra persa, durante un viaggio di ritorno in Italia Curzio riesce, con l’aiuto dell’amico avvocato, a dar sfogo ai propri rimorsi di vigliaccheria e trova la forza di denunciare un delitto di cui è stato testimone. Un’inchiesta viene aperta e alcune alte cariche vengono trasferite. In Argentina no. La conclusione è un gesto di ribellione estrema e personale. Come se forza selvaggia e istinto, repressi da secoli di angherie e convenzioni sociali, lì abbiano trovato sfogo. Condivide? Mi racconti di questi due finali.
In Calabria, come in tutto il Sud, il cambiamento è possibile se solo ci fosse una crescita culturale e una consapevolezza maggiore da parte dei cittadini della necessità di adire le vie legali e non praticare la giustizia fai da te. Insomma, la ‘ndrangheta si alimenta dell’indifferenza dei molti e della connivenza di alcuni poteri forti. Io dico spesso che i nemici dello Stato sono dentro di esso, non fuori. Basterebbe, quindi, iniziare a fare pulizia dal di dentro, mandando via tutti coloro che sono collusi o non fanno il loro dovere, per assestare il colpo più duro alla criminalità che si possa immaginare. In Argentina la situazione è molto più complessa in quanto lì sono le istituzioni, i governi, a essere responsabili delle involuzioni democratiche cui questo grande e ricco Paese va periodicamente incontro. E allora il cambiamento non può che passare attraverso una rivoluzione, una sorta di catarsi, che spazzi via il cancro del populismo e le radici del nazismo che lì si sono radicate in alcuni ambienti sociali particolarmente potenti e influenti.
Curzio ha mani d’oro, ama dipingere e costruire oggetti. È la sua passione, è la sua ragione di vita. Ma le preoccupazioni, il lavoro, i ricordi sono zavorre, gabbie che lo imprigionano e limitano la sua arte. In un momento di sconforto paragona la sua condizione alle macerie di cui si occupa (bellissimo correlativo oggettivo!). Eppure nonostante tutto, nonostante i fallimenti, della sua arte non può fare a meno, anche con le mani malridotte ritorna alla pittura. Lo scrittore americano Andre Dubus dice in un’intervista: La scrittura è sempre un guadagno spirituale, mentale e fisico. Anche se il libro non viene pubblicato, anche se vende poco. È d’accordo? La scrittura, o l’arte in generale, è davvero sempre un guadagno? Aiuta a essere migliori? È boa di salvataggio nelle avversità?
Concordo pienamente con le parole di Andre Dubus. Aggiungo anche, che la scrittura è una silenziosa compagna di vita che ti è a fianco in ogni momento, una compagna che sa stimolarti e sostenerti anche nei momenti di sconforto. Essa ha anche un valore terapeutico. Peccato che la società del consumismo l’abbia ridotta a una merce, il cui valore sembra essere legato sempre più alle vendite e alle classifiche drogate.
Il paese nativo di Curzio ha una doppia faccia: è luogo di soprusi ma anche, al contrario, spazio di incontro, di aggregazione dove condividere le feste, la gioia e le sofferenze, dove stare insieme, dove raccontare eventi accaduti alla comunità per metterli a fuoco. Il sociologo Nils Christie rammenta che oggi uno dei mali peggiori è la distanza tra le persone: “Occorre creare un sistema che permetta alle persone di incontrarsi e capire, perché il punto cruciale è capire i conflitti” (1). Cosa ne pensa?
Oggi siamo tutti cittadini di questo mondo globalizzato, ma ci manca la dimensione del villaggio, quel luogo dove ognuno espone se stesso, che sia in un vicolo, in una piazza o su un sagrato, non importa, e si rafforza e si modifica con il contatto vero, quello fisico, con gli altri. Ci manca la saggezza della strada, al pari di come ci mancano i suoi eccessi e le sue brutture. I conflitti, a volte, nascono anche dalla vicinanza, ma essi vengono quasi sempre esasperati dalla distanza, che è principalmente una distanza mentale e di sensibilità, non tanto fisica. Ha ragione, quindi, Christie a insistere che il punto cruciale è sforzarsi di capire i conflitti. Questo è particolarmente vero per il più complesso, il più esplosivo e insieme il più delicato dei conflitti, quello che vede contrapposti israeliani e palestinesi da decenni, con le nefandezze di cui siamo stati e siamo testimoni.
Nel romanzo ci sono tre figure di padri molto interessanti: Caronte, il nonno di Curzio; Nicodemo, il padre; Cesare, zio di Curzio e padre a sua volta di Genio. Rappresentano la generazione antica, sono portatori di valori, come l’onestà e la pazienza. Probabilmente sono stati padri-padroni, ma qui viene messa in primo piano la loro forza di padri-testimoni che sanno trasmettere un’eredità di senso e desiderio per l’esistenza. Curzio a sua volta è padre. Lui appare però più concentrato su di sé, attento alla propria realizzazione personale; nonostante ci sia il pensiero ai figli – è ciò che lo fa ritornare dopo un litigio con la moglie – in lui viene meno la cura della ‘trasmissione’ che avevano i suoi vecchi, sembra mancare la dedizione. Quali sono i motivi? Il luogo differente di vita? O perché incarna una società sempre più individualista? Oppure è solo una scelta stilistica, cioè a un certo punto del romanzo la macchina da presa è focalizzata per esigenze di trama su Curzio?
È vero, si parla poco dei figli di Curzio nel romanzo, perché, soprattutto nella seconda parte, la macchina da presa si sposta soprattutto su di lui, ma l’esempio che lascia è forse maggiore rispetto a quello che ha ereditato, perché porta la dimensione della giustizia dal campanile locale su un piano planetario. Mentre il nonno soffre per le ingiustizie, ma ci convive, è costretto a conviverci, così come faranno Nicodemo, il padre, e zio Cesare, il più insofferente e impulsivo dei tre, Curzio lotta in entrambi i contesti, quello calabrese e quello argentino, fino a mettere in gioco la propria vita. Quale esempio più alto poteva lasciare ai propri figli?
Dopo un mese di frequentazione, lo zio Genio venne escluso dalla scuola. Si era nella prima metà del Novecento, nel romanzo è detto chiaramente che l’istituzione scolastica incoraggiava i ricchi e i fortunati, e penalizzava i poveri. Non combatteva le disuguaglianze, le favoriva. Oggi, l’indifferenza e il poco valore dato all’istruzione pubblica, i continui tagli, tolgono risorse ai più deboli, disabili e stranieri. Alla fine a rimetterci sono sempre gli ultimi… Ha la stessa sensazione?
È un argomento questo che mi è particolarmente caro, anche per i miei trascorsi di docente di lingue e di dirigente scolastico. Ai tempi di Curzio la situazione era diversa. Ai figli dei poveri l’istruzione era negata. Ora non è più così, anche i figli dei meno abbienti possono accedervi, ma la nostra scuola rimane ancora un’istituzione basata sulla disuguaglianza, soprattutto perché non sa valorizzare il talento dei giovani, sacrificandolo spesso alle scelte ‘geriatriche’ di una società sempre più conservatrice. Direi che siamo passati dalla scuola della discriminazione alla scuola dell’inganno, dove i figli dei poveri studiano, si diplomano, si laureano, ma devono accontentarsi di posti di ripiego, da sempre appannaggio di figli di piduisti, baroni universitari, politici, giornalisti, industriali e primari. I tagli e le mancanze di risorse giocano un ruolo importante, soprattutto per quel che concerne il recupero nella sua accezione più ampia, ma le resistenze maggiori io le ho riscontrate dal di dentro, in quel modello di docente che crede di essere solo ed esclusivamente uno specialista di una branca del sapere e non sa proporsi come
modello culturale ed educativo.
Penso alla scena dell’uccisione del maiale. “A casa Palmisano il maiale si uccideva immancabilmente il 6 gennaio, giorno dell’Epifania”. Il lettore è calato nella realtà di quella famiglia calabra, ride con loro per la buffa caduta di Ercole, strattonato dall’animale, patisce con loro per l’arresto imprevisto e senza colpa degli uomini di casa, cioè gli è dato di provare ciò che provano i personaggi e attraverso l’immedesimazione vive l’esperienza di quella festa e del conseguente sopruso. Un espediente narrativo molto efficace, a mio parere. Talvolta nel romanzo compaiono invece brani, quasi piccole digressioni, dove la situazione non è rappresentata attraverso un episodio ma è spiegata (per esempio il punto sull’abusivismo edilizio). Al lettore è chiesto di stare a sentire. E la scrittura perde in vivacità e coinvolgimento. Non trova che in un romanzo sia sempre da privilegiare l’episodio a dispetto della cronaca di fatti? O al contrario, entrambe le narrazioni possono funzionare?
È vero, quando la narrazione cede alla tentazione di spiegare, può perdere la sua efficacia, ma l’inganno dell’edilizia in Calabria mi sta particolarmente a cuore, perché so con certezza che molti calabresi hanno dedicato le risorse di una vita, percorrendo anche le strade dell’abusivismo e dell’illegalità, per realizzare case destinate a restare disabitate, per figli costretti perennemente alla diaspora. Io credo che entrambe le narrazioni possano funzionare, a patto che si renda meno esplicita l’esigenza della denuncia.
Diamo la parola a un pensiero di zio Cesare: “I colpi bassi del destino li aveva accettati con coraggio e dignità, ma le cattiverie degli uomini non riusciva proprio a tollerarle”. I colpi bassi del destino. Per ironia della sorte i nomi dei componenti della famiglia Palmisano, ma nel romanzo non scapperanno al maleficio neppure altri compaesani, contrastano con l’aspetto fisico o l’attitudine di chi li porta. I familiari hanno imparato a prenderla con filosofia e sanno anche riderci sopra. Colpa del destino o no anche in questo caso ritorna però il tema dell’ingiustizia. Ogni pezzo del puzzle combacia pur avendo un suo posto. Come l’è venuta questa idea? Ha attinto dall’esperienza diretta? Esiste l’Ercole alto quanto un ometto lillipuziano?
Fino a poco tempo fa, ma ancora oggi, in alcuni paesi della Calabria si è conosciuti più per i soprannomi che non per il nome e il cognome. Quasi sempre un soprannome tende a enfatizzare un vizio, una virtù, o anche l’aspetto fisico di una persona. Mi sembrava che fosse anche il modo migliore per fare amare o odiare i personaggi. Mi chiede se esiste un ometto alto quanto Ercole nella realtà e io le rispondo di sì, sicuramente, e più di uno, ma soprattutto la nostra società va sempre più verso il modello del lillipuziano che si crede un gigante, e questo è ancora più preoccupante di una tara fisica.
Cataldo Russo è nato nel 1948 a Crucoli, in provincia di Crotone, ed è docente di lingua e letteratura. È autore dei romanzi: Amori disamori a blablaismi (1990), Il precario (1994), I recinti di Don Pietraviva (1997), Il cielo sopra di me (2002), Cortigiani Giullari e mammasantissima (2010), All’inferno con ritorno (2013).
(1) Quali alternative al sistema penale?, Nils Christie, Giuliano Spazzali e Tommaso Spazzali, Paginauno n. 33/2013