Dentro il CETA, un altro TTIP tra Canada e Unione europea pronto alla firma: merci, servizi, accesso agli appalti pubblici, privatizzazione del welfare e aziende che possono fare causa agli Stati con la clausola ICS
Fallito il quindicesimo round di negoziati sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) con gli Stati Uniti, la cui approvazione è fortunatamente rimandata a data da destinarsi, ma che rappresenta ancora il cuore della strategia per il commercio internazionale (1), l’Europa punta ora le sue carte sul CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), un trattato di libero scambio con il Canada. Il testo dell’accordo, che, se dovesse incassare l’approvazione del Consiglio e del Parlamento europei, diverrebbe operativo dal 2017, è stato siglato dai capi negoziatori il primo agosto 2014 e reso pubblico il 26 settembre successivo, in occasione del vertice Ue-Canada. Una nuova versione del testo, rivisto sotto il profilo giuridico, è stato poi pubblicato il 29 febbraio 2016 (2). Secondo le parti firmatarie, il CETA rappresenta un accordo ambizioso che offrirà nuove opportunità per il commercio e gli investimenti agli operatori economici sulle due sponde dell’Atlantico, con l’obiettivo di “creare nuove opportunità per il commercio e gli investimenti tra l’Unione europea e il Canada, segnatamente grazie a un migliore accesso al mercato per le merci e i servizi e a norme rafforzate in materia di scambi commerciali per gli operatori economici” (3).
Il trattato rientra nella strategia del Trade for all: towards a more responsible trade and investment policy, pubblicato nell’ottobre 2015 dal commissario europeo al commercio Cecilia Malmström (4): “Negli ultimi anni il dibattito che ha attraversato l’Unione europea ha insegnato alcune lezioni importanti in tema di commercio internazionale. È chiaro che i cittadini europei si aspettano che il commercio produca benefici economici reali per i consumatori, i lavoratori e le piccole imprese”, scrive la Malmström nella prefazione. “Tuttavia – continua – essi credono anche che l’apertura dei mercati non debba compromettere i principî fondamentali, come i diritti umani e uno sviluppo sostenibile a livello mondiale, o gli standard qualitativi, le regole a difesa dell’ambiente e i servizi pubblici nei loro Paesi d’origine. Essi chiedono anche di essere maggiormente informati sulle trattative condotte in loro nome. Con la nuova strategia Trade for all, la Commissione si propone di adattare questo approccio alle politiche commerciali per renderle più responsabili, cioè più efficaci, trasparenti e portatrici non solo dei nostri interessi, ma anche dei nostri valori”.
Il riferimento agli errori compiuti durante le negoziazioni del TTIP è chiaro: scarsa trasparenza e poca attenzione ai valori non piacciono ai cittadini europei, la cui opposizione (per esempio gli oltre tre milioni di firme raccolte dalla petizione contro il TTIP), se non ha determinato di fatto il fallimento delle trattative (per questo pare esserci voluto Trump), ha acceso i riflettori sul trattato e fatto crescere un movimento dal basso di opposizione. E, sebbene la Malmström del consenso se ne faccia un baffo (“Non ho ricevuto il mio mandato dagli Europei”, ha dichiarato all’Independent a proposito delle proteste sopra citate (5), almeno a parole ha dovuto tenerne conto per evitare di incassare nuove sconfitte. Tuttavia le sue intenzioni non sono cambiate di una virgola: “Le principali priorità rimangono i più importanti progetti in corso. L’Europa deve cercare con forza di ridare energia alla World Trade Organisation e di portare a termine il TTIP, l’accordo di libero commercio col Giappone e l’accordo di investimenti con la Cina” (6).
Capire quali siano i fondamenti (economici, ma anche ideologici) della nuova strategia europea è fondamentale per inquadrare qualunque trattato internazionale verrà siglato da qui in poi, dei quali il CETA è solo il primo in ordine di tempo, e non certo il principale.
Secondo la Malmström, “il commercio non è mai stato più importante per l’Europa” (7): non solo la crisi del 2009 ha portato alla convinzione che esso possa rappresentare una forza stabilizzatrice nei periodi di recessione, ma si prevede anche che circa il 90% della crescita economica globale fra dieci o quindici anni sarà generato fuori dall’Europa; secondo la Commissione, dunque, la ripresa economica dovrà essere consolidata attraverso legami più forti con i nuovi centri dello sviluppo.
Le vendite al resto del mondo generano, per le imprese europee, un numero crescente di posti di lavoro: “Più di 30 milioni di lavoratori dipendono oggi dalle esportazioni al di fuori dell’Unione Europea – due terzi in più rispetto a quindici anni fa – il che significa che l’export finanzia in Europa quasi un posto di lavoro su 7”. Per esempio, secondo il documento, 200.000 posti di lavoro in Polonia, 140.000 in Italia e 130.000 nel Regno Unito dipendono dalle esportazioni tedesche fuori dall’Europa; e 150.000 posti di lavoro in Germania, 50.000 in Spagna e 30.000 in Belgio dipendono dalle esportazioni francesi.
Da un lato questa vocazione internazionale renderebbe le imprese più competitive e permetterebbe loro di diversificare i mercati (e di conseguenza i rischi), e dall’altro rappresenterebbe il metodo più rapido per creare crescita e posti di lavoro. Aprire l’economia europea al commercio e agli investimenti sarebbe fondamentale per migliorare la produttività e attirare nuovi capitali privati, due fattori di cui l’Europa ha “dolorosamente bisogno”, perché questa apertura porterebbe “idee e innovazione, nuove tecnologie e i migliori ricercatori”, abbassando i prezzi e allargando l’offerta di beni, a tutto vantaggio non solo dei consumatori, ma anche delle imprese, che vedrebbero scendere il costo dei fattori di produzione.
Le imprese europee, si legge nel documento, già oggi altamente competitive, si trovano in ottima posizione per beneficiare dei vantaggi di una maggiore interrelazione a livello globale: dal 2000 al 2015 le esportazioni comunitarie sono quasi triplicate, raggiungendo i 1.500 miliardi di euro, e la quota europea dell’export mondiale rimane stabilmente, e nonostante la crisi, sopra al 15%. Se si tiene conto che nello stesso periodo quella della Cina è passata dal 5% al 15%, la performance delle imprese nostrane può essere considerata eccezionale; di certo migliore di quella degli Stati Uniti, che ha visto scendere la sua quota all’11%, e più ancora di quella del Giappone, crollato al 4,5%.
Per incrementare la nostra capacità di trarre benefici dal commercio e dagli investimenti globali, la Commissione “ha sviluppato un’ambiziosa agenda di accordi bilaterali che completano l’impegno dell’Europa nella World Trade Organization”, concludendo o negoziando tutta una serie di accordi di libero scambio (in inglese FTA, free trade agreement) con i maggiori partner mondiali. Ma, avverte la Malmström, questa ambiziosa agenda comunitaria raggiungerà il suo scopo solo se supportata da misure interne ai Paesi membri: “Riforme strutturali, meno burocrazia, un migliore accesso al credito e più investimenti in infrastrutture, competenze, ricerca e sviluppo sono essenziali per rafforzare la capacità dell’Unione di trarre vantaggi dall’apertura dei mercati”.
Ed è in quest’ottica che bisogna inquadrare anche il CETA, un “accordo ambizioso che aprirà nuove opportunità per il commercio e gli investimenti sulle due sponde dell’Atlantico e sosterrà la creazione di posti di lavoro in Europa. Il CETA sopprimerà i dazi doganali, porrà fine alle limitazioni sull’accesso agli appalti pubblici, aprirà il mercato dei servizi, offrirà condizioni prevedibili agli investitori e, cosa non meno importante, contribuirà a prevenire le copie illecite di innovazioni e prodotti tradizionali dell’Ue. L’accordo contiene anche tutte le garanzie necessarie per far sì che i vantaggi economici ottenuti non vadano a scapito dei diritti fondamentali, delle norme sociali, del diritto dei governi di legiferare, della protezione dell’ambiente o della salute e sicurezza dei consumatori” (8).
Il CETA uniformerebbe dunque le condizioni di concorrenza in Canada, “uno dei partner strategici più stretti e di più vecchia data, l’undicesima economia mondiale per ordine di grandezza e il dodicesimo partner commerciale più importante”.
L’accordo, nelle intenzioni della Commissione, dovrebbe creare nuove opportunità per il commercio e gli investimenti grazie a un migliore accesso al mercato per le merci e i servizi e a norme rafforzate in materia di scambi commerciali. A parere della Commissione, il CETA “è pienamente coerente con le politiche dell’Unione”: in particolare “l’accordo non indebolirà né modificherà la legislazione dell’Ue né modificherà, ridurrà o eliminerà le norme dell’Ue nei settori regolamentati”, e “comprende anche capi su commercio e sviluppo sostenibile, commercio e lavoro nonché commercio e ambiente, che collegano l’accordo commerciale agli obiettivi globali dell’Ue in materia di sviluppo sostenibile e agli obiettivi specifici negli ambiti del lavoro, dell’ambiente e dei cambiamenti climatici”.
Tutte le importazioni dal Canada dovranno soddisfare le norme e i regolamenti interni della Ue, per esempio le norme tecniche e di prodotto, le norme sanitarie o fitosanitarie, i regolamenti sulla sicurezza degli alimenti, le norme in materia di OGM, protezione dell’ambiente, protezione dei consumatori, e così via. Sembra tutto favoloso, ma è davvero così?
Per comprendere quanto sia ampia la portata del trattato, basti pensare che esso contiene disposizioni che riguardano il trattamento nazionale e l’accesso al mercato per le merci, misure di difesa commerciale, ostacoli tecnici agli scambi, misure sanitarie e fitosanitarie, dogane e agevolazione degli scambi, sovvenzioni, investimenti, scambi transfrontalieri di servizi, ingresso e soggiorno temporanei di persone fisiche per motivi professionali, riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali, regolamentazione interna, servizi finanziari, servizi di trasporto marittimo internazionale, telecomunicazioni, commercio elettronico, politica della concorrenza, imprese pubbliche, monopoli e imprese cui siano riconosciuti diritti o privilegi speciali, appalti pubblici, proprietà intellettuale, cooperazione regolamentare, commercio e sviluppo sostenibile, commercio e lavoro, commercio e ambiente, dialoghi e cooperazione bilaterali, disposizioni amministrative e istituzionali, e, per finire, trasparenza e risoluzione delle controversie.
Fra i vantaggi del trattato, la proposta della Commissione sottolinea innanzitutto la possibilità di “offrire risparmi sui dazi doganali, opportunità per i prestatori di servizi e meccanismi trasparenti ed efficaci di protezione degli investimenti e di risoluzione delle controversie” (9).
L’ultimo punto merita una particolare attenzione: il CETA, in “netta rottura rispetto all’approccio tradizionale”, prevede la creazione di un sistema giudiziario specifico per la protezione degli investimenti, il cosiddetto ICS (Investors Court System), costituito da un tribunale permanente e da un tribunale d’appello, che “condurrà i procedimenti di risoluzione delle controversie in modo trasparente e imparziale”. Il meccanismo dell’ICS consentirebbe agli investitori canadesi nell’Ue – e agli investitori Ue in Canada – di citare in giudizio uno Stato davanti a un tribunale speciale qualora esistano normative nazionali o comunitarie che ledano i loro interessi e i loro diritti. L’ICS si discosta solo in alcuni dettagli da una clausola più celebre e molto controversa nota come ISDS (Investor State Dispute Settlement) contenuta nel TTIP, che consente agli investitori di citare in giudizio uno Stato e di chiedere un risarcimento in caso di trattamento iniquo o discriminatorio, esproprio indiretto o esproprio diretto (nazionalizzazione): sfortuna vuole che i primi due concetti abbiano, nella definizione della clausola, contorni talmente indefiniti da includere qualsiasi provvedimento pubblico in grado di danneggiare gli interessi di un investitore. Nel CETA, la clausola ICS lascia intatta la sostanza della clausola ISDS, cioè la possibilità degli investitori stranieri di citare in giudizio uno Stato in caso di trattamento discriminatorio, ingiusto, iniquo e in caso di esproprio ed esproprio indiretto (10).
Nonostante lo sforzo di dare nel testo del CETA una precisa definizione del concetto di “giusto ed equo” trattamento, infatti, viene espressamente riconosciuto agli investitori la possibilità di ricorrere al tribunale speciale quando lo Stato “frustra” le “legittime aspettative” di guadagno che si sono create. Evidentemente né la clausola ISDS né la clausola ICS impediscono alle autorità di adottare qualsivoglia provvedimento nell’interesse pubblico, ma scoraggiano altrettanto chiaramente misure tali da ledere gli interessi degli investitori stranieri, cosicché gli Stati non corrano il rischio di dover pagare risarcimenti colossali.
A seguito dell’acceso dibattito sulla legittimità della clausola, gli Stati membri, con il sostegno della Commissione, hanno scelto di escludere l’ICS dal campo di applicazione provvisoria del CETA. Ciò significa che l’attuazione del nuovo sistema giudiziario per la protezione degli investimenti avverrà solo una volta che tutti gli Stati membri avranno completato le procedure nazionali di ratifica. Nel frattempo la Commissione procederà con il Canada all’ulteriore definizione di alcuni aspetti del nuovo sistema, quali la selezione dei giudici, l’accesso delle imprese più piccole e il meccanismo di ricorso (11).
Il secondo gruppo di vantaggi evidenziati dalla Commissione è costituito dal “riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali”, il che si tradurrebbe in trasferimenti più agevoli di personale e di altri professionisti tra l’Ue e il Canada e in un miglioramento della capacità delle società europee di fornire assistenza post-vendita (esportando attrezzature, macchinari e software, e inviando tecnici addetti alla manutenzione e altri specialisti). Questa caratteristica è particolarmente importante nel settore dei servizi, da cui attualmente dipende il 70 % del Pil europeo. Non solo, grazie alle nuove tecnologie, le esportazioni di servizi in senso stretto negli ultimi dieci anni sono raddoppiate, fino a raggiungere i 728 miliardi di euro, ma anche le imprese manifatturiere hanno cominciato a comprare, produrre e vendere servizi per agevolare la vendita dei loro prodotti (si pensi ai finanziamenti per l’acquisto di una nuova auto, o alla consegna dei prodotti acquistati online); il fenomeno continua a crescere, tanto che ormai i servizi ‘incorporati’ nei beni rappresentano il 40% del valore delle merci esportate.
Il commissario Malmström dichiara che circa un terzo dei posti di lavoro generati dalle esportazioni di prodotti manifatturieri fanno riferimento a servizi ausiliari come i trasporti o la logistica, e la proporzione è addirittura maggiore nel settore dei macchinari complessi (apparecchi medici, turbine eoliche, ecc.), in cui l’installazione, la manutenzione e il training del personale fanno parte del pacchetto di vendita. È evidente, tuttavia, che questo “riconoscimento reciproco” da un lato potrebbe portare a un ‘annacquamento’ delle qualifiche imprudente o ingiustificato, e dall’altro aumenterebbe di certo la concorrenza all’interno delle professioni, con conseguenze non sempre positive dal punto di vista del bene comune.
Il terzo filone di possibili vantaggi per le imprese nostrane è costituito, secondo la Commissione, dalla possibilità di accesso agli appalti pubblici canadesi: “Il Canada ha aperto alle società dell’Ue le proprie gare d’appalto pubbliche in misura maggiore rispetto agli altri suoi partner commerciali. Le aziende dell’Ue potranno partecipare a gare d’appalto per la fornitura di beni e servizi non solo a livello federale ma anche a livello di province e comuni canadesi e saranno le prime aziende non canadesi a poterlo fare. Si stima che le dimensioni del mercato canadese degli appalti pubblici a livello provinciale siano il doppio di quelle del suo equivalente federale” (12).
Quello che la proposta non esplicita è che la stessa disponibilità verrà concessa nell’Unione alle aziende canadesi. Perciò, se da un lato le nostre imprese potranno accedere liberamente agli appalti in Canada, dall’altro aumenterà il numero dei concorrenti nelle gare europee: chi si avvantaggerà del nuovo sistema saranno, come al solito, le aziende più competitive, ma cosa questo davvero significhi in termini di costi per la collettività (qualità delle infrastrutture o dei servizi, posti di lavoro persi o creati, livello di sicurezza, ecc.), resta avvolto nella nebbia.
Ma che qualche rischio ci sia, soprattutto sul versante del welfare, è la stessa Commissione a riconoscerlo, anche se implicitamente: “Come in tutti gli altri suoi accordi commerciali, nel CETA l’Ue salvaguarda pienamente i servizi pubblici. Se lo desiderano, per un determinato servizio gli Stati membri dell’Ue potranno gestire monopoli pubblici. Il CETA non obbligherà né inviterà i governi a privatizzare o deregolamentare servizi pubblici quali l’approvvigionamento idrico, la sanità, i servizi sociali o l’istruzione. Gli Stati membri dell’Ue conserveranno la facoltà di decidere quali servizi desiderano mantenere universali e pubblici e se sovvenzionarli. Nessuna disposizione del CETA impedirà inoltre a un governo di uno Stato membro dell’Ue di revocare in futuro, in un qualunque momento, qualsiasi decisione autonoma eventualmente adottata per la privatizzazione di tali settori” (13).
E ancora: “Il CETA garantisce che il diritto dei governi di legiferare nel settore delle politiche pubbliche sia pienamente preservato. La proposta non incide sulla protezione dei diritti fondamentali nell’Unione”. Ma se il CETA non influenzasse in senso privatistico le politiche sul welfare dell’Unione, che bisogno ci sarebbe di anticipare eventuali obiezioni, rassicurando gli Stati membri sulla presunta ‘neutralità’ dell’accordo? Come si dice, excusatio non petita, accusatio manifesta.
Un altro tipo di problema è rappresentato dai danni (certi) collegati all’abolizione dei dazi doganali a fronte di (possibili) nuove opportunità. Il dazio, in campo economico, è definito come una barriera artificiale ai flussi di beni e/o servizi tra due o più Paesi, barriera che nasce dalle esigenze di politica economica di un singolo Stato (o gruppo di Stati) di controllare i flussi di beni in entrata (importazioni) e in uscita (esportazioni) dallo Stato stesso.
Nella maggior parte dei casi il dazio viene riscosso attraverso una dichiarazione doganale, ed è rappresentato da una somma di denaro (una percentuale del valore dei beni sottoposti a dazio), che l’importatore paga per avere il diritto di commercializzare, nel Paese in cui esercita la sua attività, merci prodotte all’estero: per esempio, un importatore italiano, per commercializzare in Italia merci prodotte in India, deve versare allo Stato una determinata somma di denaro, proporzionale al valore di tali merci. Il dazio fa aumentare il costo totale dei beni importati, e pertanto influenza al rialzo il prezzo al quale queste merci saranno offerte al pubblico: essi vengono definiti una misura protezionistica proprio perché proteggono il mercato interno dalla concorrenza dei Paesi stranieri, incentivando l’uso dei prodotti nazionali, più appetibili in termini di prezzo.
Con l’attuazione del CETA le aziende italiane (ma il discorso vale per ogni Paese della Ue) si troveranno ad affrontare non solo i competitor dei Paesi membri (in Europa le merci circolano liberamente), ma anche quelli di oltreatlantico, e non saranno solo i prezzi dei beni e servizi canadesi a scendere, ma anche quelli dei beni e servizi comunitari, per effetto dell’aumento della concorrenza. E prezzi più bassi (a parità di altri fattori) significano utili più bassi, con le conseguenti pressioni per il contenimento dei costi, primo fra tutti quello dei salari.
D’altro canto, rinunciare ai dazi impoverisce gli Stati, perché, come abbiamo visto, essi rappresentano entrate fiscali, che possono essere investite a favore delle aziende, per esempio per sostenere la domanda interna, o a favore dei cittadini, per esempio in servizi. “La Commissione stima che, una volta completata l’attuazione dell’accordo dopo sette anni, i dazi non riscossi raggiungeranno un importo pari a 311 milioni di euro, poiché, alla data di entrata in vigore dell’accordo, sarà soppresso il 97,7% delle linee tariffarie dell’Ue e, successivamente, un ulteriore 1% gradualmente entro 3, 5 o 7 anni. L’importo di 311 milioni di euro corrisponde all’80% dei dazi stimati riscossi dagli Stati membri dell’Ue sui prodotti canadesi importati in base ai dati del 2015. La stima prende in considerazione la nuova decisione sulle risorse proprie, che riduce dal 25% al 20% le spese di riscossione che gli Stati membri mantengono” (14).
Inoltre, a causa dell’ICS, “un importo pari a 0,5 milioni di euro di spese annuali supplementari è previsto a decorrere dal 2017 (con riserva di ratifica) per finanziare la struttura permanente che comprende un tribunale di primo grado e un tribunale d’appello”.
Anche ammesso che le imprese comunitarie siano tanto competitive, a livello globale, da crescere a forza di esportazioni, erodendo le quote di mercato dei concorrenti extraeuropei, non è per nulla detto che ciò possa essere considerato positivo. Per capirlo bisogna, purtroppo, fare una piccola digressione tecnica e ripescare il concetto che in macroeconomia è conosciuto come “equilibrio dei saldi settoriali”.
Questo principio postula che la somma dei saldi tra i tre macro-settori economici di uno Stato (saldo pubblico, ovvero la differenza tra spese e tasse, saldo privato, ovvero la differenza tra risparmi e investimenti, e saldo estero, ovvero la differenza tra esportazioni e importazioni) debba essere pari a zero. Considerando che i Paesi dell’area euro hanno aderito al principio del pareggio di bilancio e che quindi il saldo pubblico deve essere per definizione nullo, l’equazione dei saldi settoriali si può ridurre a: saldo privato + saldo estero = 0, cioè saldo privato = saldo estero. Ciò significa che la differenza fra risparmi privati e investimenti privati coincide con la differenza fra esportazioni e importazioni: di conseguenza se un Paese esporta molto più di quel che importa, deve necessariamente investire molto meno di quel che risparmia, cioè non può azionare la leva degli investimenti.
Questo è quello che è successo in Germania, che da più di otto anni viola le regole europee sul surplus, danneggiando non solo gli equilibri già precari dell’eurozona, ma anche se stessa, proprio a causa della caduta degli investimenti. Chen Zhao, co-direttore del settore Global Macro Research di Brandywine Global, una società di investimenti che gestisce 70 miliardi di dollari, dichiara: “Una scarsa propensione agli investimenti in manutenzione e sviluppo delle infrastrutture è in gran parte dovuta a una concezione, a mio avviso, errata delle politiche di gestione del bilancio statale, che sembrano idealizzare una soluzione di bilancio in pareggio […] La mancanza cronica di investimenti a lungo termine e il deterioramento delle infrastrutture pubbliche che ne consegue rappresenta in realtà un’opportunità per i governi per impiegare capitale in maniera produttiva nella ricostruzione. Purtroppo, al contrario, molti Paesi – Germania inclusa – non stanno andando in questa direzione […] sprecando così un’interessante opportunità di investimento e rilancio […] che potrebbe rendere invece la Germania ancora più competitiva in futuro” (15).
Gli fa eco Alessandro Picchioni, presidente e direttore investimenti di WoodPecker Capital, società di gestione del risparmio: “Keynes diceva che l’equilibrio di un gruppo di nazioni in un regime di moneta unica è incompatibile con un surplus commerciale strutturale di una singola nazione verso le altre […] Dalla riunificazione, la Germania ha approfittato del debito creato da alcuni Paesi come una forma di vendor financing per incrementarvi le esportazioni, ha poi dato il via alla compressione salariale e alla delocalizzazione selvaggia nell’Europa dell’Est. Il surplus commerciale è il frutto di un progetto pluriennale sul quale si fonda la politica tedesca. Adottato come strategia all’interno di una comunità di nazioni che condividono la stessa moneta, ha un effetto di alterazione dell’equilibrio tra le stesse nazioni e rende la moneta unica l’epicentro della propagazione degli squilibri” (16).
Puntare tutto sulle esportazioni, all’interno del patto di stabilità, presenta dunque un grosso rischio per i cittadini europei, e non solo per quelli dei Paesi più fragili e meno competitivi (i cui mercati verrebbero ulteriormente impoveriti dalla concorrenza straniera), ma anche per quelli dei Paesi più forti, che già vedono degenerare la qualità delle infrastrutture e dei servizi statali in nome della crescita del surplus. La grande domanda a cui il CETA non risponde infatti è: se tutti vendono, chi compra?
1) Si veda per esempio http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ttip/index_it.htm
2) Cfr. http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2014/september/tradoc_152806.pdf
3) http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52016PC0444
4) Il testo in versione originale (inglese) è consultabile all’indirizzo: http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2015/october/tradoc_153846.pdf
5) J. Hilary, I didn’t think TTIP could get any scarier, but then I spoke to the EU official in charge of it, Independent, 12 ottobre 2015
6) http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2015/october/tradoc_153846.pdf
7) Trade for all, cit.
8) Proposta di Decisione del Consiglio relativa alla firma, a nome dell’Unione europea, dell’accordo economico e commerciale globale tra il Canada, da una parte, e l’Unione europea e i suoi Stati membri, dall’altra, Strasburgo, 7 luglio 2016
9) Ibidem
10) Cfr. CETA, articolo 8.9 e seguenti
11) Cfr. http://www.euroconsulting.be/2016/11/03/vertice-ue-canada-standard-elevati-per-il-commercio-internazionale-nellaccordo-commerciale-appena-firmato
12) Proposta di Decisione del Consiglio, cit.
13) Ibidem
14) Ibidem
15) Vito Lops, Perché alla Germania conviene ridurre il surplus commerciale, Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2016
16) Ibidem