L’immenso giro di affari dell’elective surgery. Inchiesta sullo sfruttamento economico del disagio psichico e sociale della donna
Gli anglosassoni la chiamano elective surgery, e indica tutti quegli interventi chirurgici non necessari in senso clinico di cui è innanzitutto il paziente a ravvisare la necessità: un seno più voluminoso, meno grasso sui fianchi, il nasino alla francese, o addirittura le infiltrazioni di collagene sulla pianta del piede per rendere più comode impossibili calzature dai tacchi vertiginosi. La chirurgia estetica, in cui il naturale rapporto fra il medico e la persona malata si trasforma nell’inedito rapporto fra il medico e la persona sana, è un business a tassi di espansione elevatissimi, complici le innovazioni tecniche e scientifiche che aprono al bisturi frontiere sempre nuove e la ‘democratizzazione’ dei sistemi di pagamento (finanziamenti, rateizzazioni), che permette a tutti (o quasi) di sostenerne i costi non indifferenti. Secondo i dati pubblicati dall’American Society for Aesthetic Plastic Surgery, gli interventi più richiesti nel 2007 sono stati la liposuzione, la mastoplastica additiva (aumento del seno), la mastoplastica riduttiva (riduzione del seno), la rinoplastica (rifacimento del naso) e il lifting (vedi tabella).
In Italia invece, secondo i dati della Società Italiana di Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica, sono circa 60mila ogni anno gli interventi di liposuzione: 20mila addominoplastiche (la liposuzione della parte bassa e centrale dell’addome), il 68% su donne e il 32% uomini, e 40mila fra liposuzioni e liposculture per rimodellare fianchi, addome, cosce e natiche, di cui il 92% effettuate su donne. Sono invece più di 25mila all’anno gli interventi di inserimento di protesi mammaria, a cui si aggiungono un numero circa uguale di riduzioni mammarie, con un trend complessivo in aumento soprattutto tra le ragazze più giovani. Le dimensioni del fenomeno sono tali da porre l’intervento al seno al primo posto tra gli interventi estetici richiesti dalle donne italiane, a conferma dell’importanza centrale che questa parte del corpo riveste nella cultura e nell’immaginario collettivo.
Come si deduce dai dati, i pazienti della chirurgia estetica sono in larghissima maggioranza donne, di tutte le fasce d’età, anche se i trend dicono che ci si avvicina al bisturi sempre prima, addirittura durante l’adolescenza, per comprare il seno o la linea perfetta. Questa disponibilità femminile a intervenire chirurgicamente sul proprio corpo ha ragioni biologiche e culturali.
Dal punto di vista biologico, bellezza e gioventù (cioè fertilità) sono per la donna i due elementi principali di attrazione nei confronti del maschio, e rappresentano quindi un ‘imperativo biologico’ per l’evoluzione della specie: da sempre la femmina umana usa la propria avvenenza per attirare i maschi migliori, in modo da dotare la propria prole delle caratteristiche genetiche più favorevoli al successo evolutivo. La chirurgia estetica, in questo senso, si aggiunge agli escamotage classici (il make up, l’abbigliamento) a disposizione delle donne per enfatizzare la propria desiderabilità a fini riproduttivi.
A livello sociale, il pressing biologico si combina oggi con la difficoltà di costruire legami affettivi stabili nel tempo, che forza le donne a essere, praticamente per tutta la vita, ‘esteticamente competitive’. In altri termini, se fino a una cinquantina d’anni fa le donne, una volta divenute mogli e madri, potevano dimenticarsi del proprio aspetto fisico, certe della sicurezza che l’istituzione matrimoniale offriva, ora la friabilità delle relazioni preme affinché esse siano sempre pronte a costruire nuovi rapporti, e debbano quindi poter contare su un’eterna desiderabilità. D’altra parte, i modelli estetici femminili veicolati dai media, oltre a essere difficilmente raggiungibili per vie naturali (la donna efebica con molto seno è in effetti una combinazione quasi impossibile in tutte le razze), sono sempre più globalizzati e pervasivi: negli anni ’40 una ragazza poteva vivere tutta la vita senza correre il rischio di paragonare la propria immagine a quella di Marlene Dietrich o Greta Garbo, ma con l’avvento della televisione e ancora di più nell’era internet, le donne devono fare i conti ogni giorno con una pletora di rivali incorporee, di una perfezione estetica irraggiungibile (anche perché ottenuta sempre più spesso con Photoshop e altri trucchi fotografici), e insistentemente simili a ogni latitudine.
Nessuno stupore che l’intervento più richiesto dalle giovani donne orientali sia l’occidentalizzazione dei lineamenti, che elimini i loro tipici occhi a mandorla così distanti dal modello Barbie: “Il culto della bellezza nella società dei consumi costringe a passi obbligati. Su questa premessa si gioca il valore della libertà personale, e gli uomini (e le donne, n.d.a.) sono liberi di scegliere solo quello che altri hanno già scelto per il loro destino” (1). Come è facile immaginare, questi diktat estetici, che continuano a imperare grazie alla fragilità delle proprie vittime (la necessità di essere desiderabili è oggettivamente una fonte di grande fragilità rispetto alla dimensione corporea, come pure la limitata finestra riproduttiva femminile), creano più di qualche disagio: se la repressione sessuale ottocentesca si accaniva sul corpo delle donne causando ogni forma possibile di isteria, la pressione estetica attuale ha inventato patologie – squisitamente femminili – come l’anoressia e la bulimia, che continuano a svilupparsi in trend crescenti. E non solo: una quantità di disturbi emotivi di origine diversa trova nel corpo della donna il perfetto terreno di battaglia, e le trasforma nelle vittime inconsapevoli del marketing chirurgico.
L’Organizzazione mondiale della sanità definisce la salute “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, che non consiste soltanto nell’assenza di malattie e di infermità”. Sotto questo profilo, ogni individuo ha il diritto di ricorrere alla elective surgery per modificare le parti del corpo che gli precludono questo benessere psico-sociale o, come comunemente si dice, per stare meglio con se stessi. D’altra parte, è anche possibile (teoricamente addirittura probabile) che individui con scarso equilibrio interiore, o con specifiche patologie mentali, trasferiscano – inconsciamente – sul corpo un malessere la cui origine risiede in tutt’altro: in parte perché il corpo è immediatamente modificabile, a differenza del cervello e del suo funzionamento; in parte perché vi sono naturalmente spinti dal livello pervasivo dei condizionamenti sociali sulla dimensione estetica. Cosa c’è dunque dietro la richiesta di un intervento estetico?
Diverse ricerche scientifiche sottolineano l’importanza di una maggiore collaborazione tra chirurgo estetico e psichiatra o psicologo, per determinare la vera motivazione alla base del miglioramento chirurgico e per evitare interventi di chirurgia estetica su pazienti che presentano disturbi psichiatrici, i quali non potrebbero beneficiare in nessun modo dell’operazione, a prescindere dal buon esito clinico. E una valutazione psicologica preventiva sarebbe davvero necessaria stando ad alcuni lavori di riferimento, i cui dati testimoniano senza eccezioni l’elevata rilevanza statistica dei disordini mentali fra i candidati alla chirurgia estetica.
La dismorfofobia corporea, una malattia psichiatrica che consiste in “una sensazione soggettiva di deformità o difetto fisico, per il quale il paziente ritiene di essere notato dagli altri, nonostante il suo aspetto rientri nei limiti della norma” (2), viene diagnosticata nel 20% circa dei pazienti che chiedono di sottoporsi a un intervento di chirurgia estetica (Hodgkinson, 2005): come riporta il DSM-IV (il più diffuso manuale diagnostico dei disturbi mentali), “le lamentele riguardano facilmente difetti lievi o immaginari della faccia o della testa, come i capelli più o meno folti, l’acne, le rughe, le cicatrici, il pallore o rossore e l’eccessiva peluria. Altre preoccupazioni comuni riguardano la forma, le misure o qualche altro aspetto di naso, occhi, orecchie, bocca, denti, labbra, mento, guance e palpebre; può tuttavia diventare motivo di preoccupazione ogni altra parte del corpo come i genitali, le mammelle, l’addome, i fianchi, le spalle, le mani, le gambe, o le misure corporee globali. La preoccupazione può anche riguardare simultaneamente diverse parti del corpo”.
La gran parte dei soggetti con questo disturbo sperimentano grave disagio per la supposta deformità, descrivendo spesso le loro preoccupazioni come ‘devastanti’ o ‘intensamente dolorose’. I più trovano le loro preoccupazioni difficili da controllare e fanno pochi o nessun tentativo per resistervi; come conseguenza, essi passano molto ore al giorno pensando al proprio difetto, al punto che questi pensieri possono dominare la loro vita. I sentimenti di vergogna li possono portare a evitare le situazioni che comportano un contatto sociale (scuola, lavoro, relazioni interpersonali), conducendoli a una situazione di isolamento estremo. Come è prevedibile, questi pazienti vedono nella chirurgia la soluzione magica al problema: tuttavia dal momento che la dismorfia risiede nell’immagine corporea a livello mentale e non in quella reale, l’intervento non altera minimamente la loro visione del corpo e non allevia la loro sofferenza, con la conseguenza di spingerli a interventi successivi nel vano tentativo di correggere chirurgicamente ciò che andrebbe affrontato psichiatricamente. Come nel caso dell’attrice tedesca Caroline W., ex concorrente del Grande Fratello germanico, entrata in coma, e in seguito deceduta, durante l’ennesimo intervento di mastoplastica additiva per portare la taglia del seno dalla sesta all’ottava.
Ma la dismorfofobia non è l’unica patologia psichica rintracciabile in chi si rivolge alla chirurgia estetica. Valutando il profilo di personalità di un gruppo di pazienti della California del Sud, ospedalizzati in attesa dell’intervento di chirurgia estetica, Antony Napoleon (3) ha evidenziato come il 25% dei soggetti soffrisse di disturbo narcisistico; il 12% di disturbo dipendente; il 9,75% di disturbo istrionico; il 9% di disturbo borderline di personalità; il 4% di disturbo ossessivo-compulsivo; e il 3% di altri disturbi di personalità (antisociale, evitante, paranoide, schizotipico). In sintesi, solo il 29% dei pazienti non rispondeva a nessun criterio diagnostico per la classificazione dei disturbi di personalità, cioè rispecchiava parametri di normalità.
Il disturbo narcisistico di personalità (DNP), secondo il DSM-IV, fa riferimento a un quadro pervasivo di grandiosità, ed è composto da mancanza di empatia, richiesta eccessiva di ammirazione, fantasie illimitate di successo, potere, bellezza e vivacità, e comportamenti arroganti e superbi; i difetti di maggiore preoccupazione per i pazienti con un DNP sono quelli legati all’avanzare dell’età, e ciò li trasforma nei migliori candidati per gli interventi di lifting.
Il disturbo dipendente di personalità (DDP) consiste nella necessità eccessiva di essere accuditi; questo bisogno totalizzante determina un comportamento sottomesso e dipendente, e timore della separazione, a partire da una percezione di se stessi come incapaci di funzionare adeguatamente senza l’aiuto di altri; per quanto concerne la richiesta di intervento, il paziente con un DDP concentra la sua attenzione sul seno, e la mastoplastica additiva risulta l’intervento di gran lunga più scelto.
Il criterio diagnostico che permette di identificare un disturbo istrionico di personalità è, sempre secondo il DSM-IV, un quadro pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione. L’interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamenti sessualmente seducenti
e provocanti; questi pazienti infatti utilizzano l’aspetto fisico per attirare attenzione su di sé, mostrano teatralità, autodrammatizzazione ed espressione esagerata delle emozioni. Le persone con questo tipo di disturbo si rivolgono al chirurgo estetico per riempire seni, occhi e labbra, in modo tale da aumentare la propria desiderabilità e allontanare la possibilità di un eventuale rifiuto.
Il disturbo borderline di personalità (DBP) consiste in una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore; in una marcata impulsività, con un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di idealizzazione e svalutazione, da un’alterazione dell’identità con un’immagine di sé marcatamente e persistentemente instabile, rabbia immotivata e difficoltà a controllarla con ricorrenti minacce e comportamenti automutilanti. I pazienti con un DBP dividono le parti del proprio corpo in parti buone e in parti cattive, attribuendo al chirurgo il compito di rimuovere quelle cattive, sede di problemi fisici e mentali (Harth, Hermes, 2007).
Il disturbo ossessivo compulsivo si presenta infine come un quadro uniforme di preoccupazione per l’ordine, per il perfezionismo, per il controllo mentale e interpersonale in un’ampia varietà di contesti. I criteri diagnostici per descrivere questo disturbo comprendono un’attenzione per i dettagli, le regole, l’ordine, gli schemi, l’organizzazione così elevata da far dimenticare lo scopo
principale dell’attività; un’eccessiva dedizione al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago; un eccessivo perfezionismo che interferisce con il completamento dei compiti; e una esagerata coscienziosità, scrupolosità e inflessibilità in tema di moralità, etica o valori. Le aree di maggior preoccupazione per questo tipo di pazienti sono il seno, le labbra e gli occhi. Ma il lavoro di Antony Napoleon non è l’unico a sottolineare la presenza massiva di pazienti con disturbi emotivi fra i candidati alla chirurgia estetica: sulla base dell’insieme dei dati scientifici è possibile affermare che la loro percentuale sul totale varia dal 30% al 70%.
Come si intuisce, accettare di operare questo tipo di pazienti è rischioso anche per il chirurgo: i pazienti con un disturbo narcisistico o istrionico di personalità risultano sempre insoddisfatti del risultato raggiunto, viste le loro aspettative irrealistiche; proprio questa insoddisfazione li porterà successivamente a sottoporsi a ulteriori interventi estetici (Malik et al., 2008), o addirittura a fare causa ai medici ‘responsabili’ dell’insuccesso. Nei pazienti con un disturbo ossessivo-compulsivo, l’atteggiamento rispetto all’esito dell’intervento estetico è quasi sempre caratterizzato da critiche molto pignole: ogni dettaglio viene analizzato e giudicato negativamente, con una vera e propria incapacità di riconoscere il risultato positivo dell’intervento: la zona operata, a opinione di questi pazienti, spesso è investita da nuove deformità, irregolarità nel contorno e nella forma. Ma sono i pazienti con un disturbo borderline di personalità i peggiori candidati alla chirurgia estetica: costoro spesso richiedono un rifacimento completo del corpo, che rispecchia il rifiuto totale del loro io psicologico. In questi pazienti, la soddisfazione post-operatoria non è collegata alle misurazioni oggettive dell’esito chirurgico, e proprio per questo risultano essere il gruppo maggiormente insoddisfatto, capace addirittura di aggredire fisicamente il chirurgo.
A questo proposito Meningaud, Servant e altri hanno condotto uno studio retrospettivo analizzando le denunce a una compagnia francese di assicurazione in cui il danno estetico valutato era minimo o inesistente: sono stati ricavati venti casi (17 donne e 3 uomini), rappresentativi di tutte le categorie socio-professionali, con un’età media di 38 anni. Gli autori hanno individuato in questo campione due casi di depressione, un caso trattato ‘per i nervi’, un tentativo di suicidio, e due casi di alcolismo; la percentuale delle denuncia senza o con scarsa motivazione (30%), è dunque in linea con la media dei pazienti con disturbi emotivi che si rivolgono alla chirurgia estetica.
Un discorso a parte meritano i disturbi d’ansia e la depressione. Nell’ambito degli studi sull’ansia, diversi autori hanno valutato il livello di quest’ultima dopo un intervento di chirurgia estetica, giungendo alla conclusione che i pazienti che si rivolgono alla elective surgery sono più ansiosi della popolazione generale; tuttavia, la mancanza di fiducia in se stessi a seguito dell’intervento diminuisce, sia per l’eliminazione dell’imperfezione, che per l’effetto positivo collegato all’aumento dell’autostima. Nell’analisi della condizione dello stato depressivo, invece, si rileva una sostanziale stabilità anche dopo l’intervento: la chirurgia estetica per i pazienti depressi è quindi statisticamente inefficace (Meningaud et al., 2003).
Non stupisce quindi che, scorrendo la letteratura scientifica, ci si imbatta in un aumento del rischio di suicidio, soprattutto tra le donne che richiedono un intervento di mastoplastica additiva. Diversi studi epidemiologici hanno valutato la mortalità tra le donne con impianto di gel siliconico al seno, rilevando che il rischio di morte per suicidio è di due o tre volte superiore rispetto alle donne di età comparabile della popolazione generale (McLaughlin, Wise et al., 2004; Brinton, Lubin et al., 2001).
In uno studio pubblicato sul British Medical Journal, Koot, Peters e altri hanno valutato il tasso di mortalità nelle donne svedesi che avevano subito un aumento del seno (non dovuto a ragioni cliniche, per esempio per un tumore), fra il 1965 e il 1993, rilevando non solo una percentuale di suicidi superiore alle attese (+50%), ma anche una maggiore incidenza del cancro ai polmoni. Le donne che scelgono questo tipo di intervento sembrano differire dalla popolazione generale, o dalle donne che richiedono altri tipi di interventi estetici, in relazione a diverse caratteristiche come lo stile di vita, l’uso o abuso di alcool, il fumo e lo stato civile, e questi elementi potrebbero influire sia sul rischio di suicidio, che su quello di cancro.
Villeneuve, Holowaty e altri hanno condotto uno studio su donne canadesi con protesi mammarie, seguite nei quindici anni successivi all’intervento: dai risultati ottenuti emerge che la mortalità delle donne con protesi mammarie è sensibilmente più bassa (-26%) di quella della popolazione femminile generale, e in particolare si sono verificate meno morti per tumore al seno o problemi cardiovascolari; nonostante ciò, tra le cause di morte il suicidio è risultato 73 volte più frequente.
Gli stessi autori hanno inoltre verificato la mortalità e il rischio di suicidio in 16mila donne che avevano effettuato interventi di chirurgia estetica diversi dalla mastoplastica additiva: la loro mortalità è risultata più bassa del 32% rispetto alla popolazione generale, e il loro rischio di suicidio più alto del 55%. La spiegazione per la ridotta mortalità riscontrata risiederebbe in due fattori: i pazienti che effettuano interventi di chirurgia estetica sono in buone condizioni di salute generale (diversamente sarebbero rifiutati dal chirurgo); le loro condizioni socio-economiche sono migliori della media, e contribuiscono a determinare una maggiore aspettativa di vita (Villeneuve, Holowaty, et al., 2006).
L’opinione in letteratura è unanime: i medici estetici dovrebbero far precedere all’intervento un approfondito screening psicologico, per evidenziare eventuali disturbi emotivi che potrebbero, nell’interesse del paziente, sconsigliare il ricorso alla chirurgia e far considerare una terapia psichiatrica o psicologica alternativa. Eppure questi test, a differenza degli esami di routine per confermare un buono stato di salute generale (e necessari per valutare il rischio operatorio), non vengono quasi mai proposti. Come mai? Probabilmente la risposta è in un famoso adagio americano: It’s the economy, stupid!
In Italia, nessuno dei più diffusi interventi estetici (vedi tabella), a eccezione della riduzione del seno nei casi in cui genera gravi scompensi posturali, è coperto dal sistema sanitario, e i pazienti che desiderino effettuarli devono pagare di tasca propria l’èquipe chirurgica, l’anestesista e la struttura privata in cui l’operazione verrà effettuata. Se i medici rifiutassero i pazienti che accusano disordini psicologici, il sistema della chirurgia estetica dovrebbe rinunciare a una percentuale del fatturato che va dal 30 al 70%. Considerando i dati della Società Italiana di Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica, si tratterebbe di mancate entrate per una cifra compresa fra i 215 e i 502 milioni di euro per i soli interventi di addominoplastica, liposuzione e mastoplastica (additiva e riduttiva). Senza parlare del giro d’affari perso dalla dermatologia, dalla medicina estetica, dalla cosmetica, e chissà che altro. Non c’è che dire: sono davvero in tanti a fare affari sul corpo delle donne, ma della loro mente dimenticarsi è facile.
(1) Etica e chirurgia estetica, Renato Malta, rivista Bioetica e Cultura, 8(1), 1999, pagg. 89-90
(2) Sulla dismorfofobia e sulla tafofobia, Enrico Morselli, 1891
(3) Annals of plastic surgery, 31:33, 193-208, Lippincott Williams & Wilkins, 1993