Per mia e vostra fortuna le generazioni non sono mai uguali le une dalle altre. Non solo: non ci sarebbe evoluzione ma neanche involuzione. Una noia mortale. Anni fa m’era venuto da scuotere la testa e sospirare guardando per aria: in un posto occupato a Bologna (età media 25 anni) vado a vedere con mia incredulità un concerto del sestetto di Don Byron. Il posto è vagamente lugubre, arredamento zero, freddo e spoglio. Lo sbombardato a cui chiedo dove si svolga il concerto ha lo sguardo assente che improvvisamente s’illumina: «Ah! Il concerto nella sala per anziani! Vai di là.» Allora avevo meno di quarant’anni e, sedendomi, mi sono domandato perché quello che ascoltavo doveva essere catalogato come musica da anziani.
Tra l’altro Don Byron in quel sestetto suona irto e spigoloso, tutt’altro che facile e ammiccante, per niente mainstream – a Bologna suonò anche con volume alto e dissonanze al massimo. Il mio Virgilio s’era affacciato sullo stipite dell’entrata e aveva un’aria piuttosto perplessa. Mi trovai a scuotere la testa pensando alla techno che probabilmente si sparava a tutta manetta. Ma quando lo vidi scuotere la testa in modo identico al mio non potei fare a meno di pensare che, tutto sommato, nessuno dei due aveva gli strumenti per capire la musica dell’altro sino in fondo, e dunque andava bene così. Quando invece ho avuto a che fare con qualcuno che gli strumenti li aveva, come con DJ Andy Baba a Roma, che poteva essere mio figlio in termini anagrafici, sono stato proprio contento: lui ha imparato da me cosa sia un suono rarefatto e acustico, io da lui cosa sia l’estetica della macchina da suono. Ed è andata altrettanto bene così. Basta avere le orecchie aperte e la mente in modalità on.
È andata ancora meglio quando, alcuni anni fa, ho cominciato a vedere con molto piacere che i fermenti musicali della provincia in cui vivo lievitavano e improvvisamente prendevano forma. Gli stessi ragazzotti che vedevo ogni tanto con uno strumento in mano, nelle situazioni più disparate, erano dentro epifanie da concerto, un po’ come i funghi che in quattro e quattr’otto raggiungono forme e dimensioni sorprendenti dopo una pioggia estiva. È stato in un parco umido e poi invaso di sole che un amico mi ha presentato Dario Trapani da Domodossola, forse un po’ goffo in certi movimenti, ma con un sorriso e due occhi brillanti che immodestamente attribuii subito a un talento che stava sbocciando. Vi risparmio il seguito.
Sono diventato crowdfunder del primo CD a nome Collettivo T. Monk capeggiato proprio da Dario e ho avuto occasione di ascoltarlo in situazioni parecchio diverse, ogni volta godendo e pensando che – come dicevo – per fortuna le generazioni non sono mai uguali tra loro. E francamente non so se quello che sto ascoltando sia dovuto (e quanto) alla sorte o al fatto che l’educazione musicale nei conservatori stia crescendo – e molto – in termini qualitativi e di stimolo. Fatto sta che fino a pochi anni fa un disco d’esordio non sarebbe uscito in crowdfunding – nessuno sapeva di cosa si trattava.
È un buon segno: trovo e incontro ragazzi con un forte senso di collettività, e soprattutto di condivisione. Le individualità ci sono sempre (Dario Trapani è una di queste) ma non sono individualismi, non trovi mai quello che vuol far vedere che ce l’ha più lungo. E se ci sono, trovano voce dentro e grazie ai collettivi. Basta guardare come vengono evidenziati nelle note di copertina i soli: ci sono tutti – ma se ascoltate il disco nessuno mai fa la parte del leone. Tutto ben bilanciato e armonico in termini di spazio destinati ai solisti.
Altra cosa: quasi ovunque nel mondo, se esce un disco d’esordio dove si suona musica di un gigante – in questo caso Thelonious Monk, mai abbastanza studiato a mio avviso – il discorso prende la forma di ‘omaggio a’. Il più delle volte sono gli stessi discografici a non voler rischiare – e i musicisti gli vanno dietro, nel senso che si rischia molto di meno in un compitino di rilettura pedissequa che reinventando (e molto) ciò che è stato scritto. Non parliamo poi di mettere dentro un disco materiale proprio. Quasi tabù. È un po’ come se si sentisse il peso di una gerontocrazia discografica che dicesse: «Ok il disco te lo faccio incidere, ma tu devi dimostrarmi prima di saper fare gli standard alla lettera».
Dario ha optato saggiamente per una soluzione sostanziale e formale del tutto fuori da queste secche. Indipendenza di produzione = indipendenza nella scelta artistica. Mica per nulla il nostro è uno di quei musicisti/leader/arrangiatori che hanno in testa già da prima come debba suonare un certo brano, ma per loro stessi, non per il discografico di turno. Scuserete il paragone, ma è per capirci: c’è un alternate take storico di One day my prince will come (Capitol Years) in cui Davis ascolta la partenza del brano suonata da Phil Chambers al contrabbasso con una serie di note ribattute e sincopate e gli borbotta dietro, interrompendolo: «No, no, non: tum tum tum TuTum tum tum tum: just tum tum tum, straight, ok?» Chambers esegue fedelmente: e infatti in tutte le incisioni a nome di Davis non trovate mai quella sincope. Non ho potuto fare a meno di ricordarla ascoltando la nota ribattuta di piano all’inizio di Think of one, che prepara l’intelligente interplay successivo tra vibrafono (Andrea Dulbecco) e pianoforte (Giovanni Agosti). Se ascoltate la versione in It’s Monk time c’è invece una scala discendente di contrabbasso che prepara il 4/4 dell’insieme.
Questo per dire che Dario è uno di quei musicisti che ha già in testa cosa vuole dal suo gruppo in termini di suono e di interpretazione prima di preparare l’arrangiamento, che per nostra fortuna non è mai una piatta rilettura. Prendiamo l’esecuzione della title track Ugly Beauty: piuttosto fedele, ma potete sempre percepire un non so che di aereo che non c’è nell’originale, in cui i corposi passi di danza del contrabbasso si sentono, e come! (1), mentre qui il contrabbasso è più che sobrio, quasi assente.
Spostiamoci adesso sui due brani di Coltrane (arrangiati stavolta da Nicolò Ricci) ovvero Wise One e Crescent [pt.1]. Nel primo direi che la scelta di sostituire il sax Coltrane con una voce femminile è ardita, ma ha un suo senso estetico – il resto è soffuso come deve essere. In Crescent [pt.1] l’operazione è assai più ardita: mentre l’originale è sostanzialmente una ballad meditativa, qui l’arrangiamento spariglia tutto. Ben 5 cambi di ritmo (tra cui almeno 4 battute in levare alla reggaemaniera) e poi la ballad con gli accordi ripetuti della chitarra che mimano quelli delle note basse del piano all’inizio. Black Narcissus è un altro bell’arrangiamento di Dario che dovendo fare i conti con il piano elettrico di Hancock della versione originale (l’album di Joe Henderson è Power to the people, 1969), un piano tenue e soffuso, quasi una nebbia psichedelica, ha saggiamente spazzato via ogni tastiera (nella prima parte) a vantaggio di bei contrappunti dei fiati e della sua chitarra che infondono vivacità e movimento all’intero brano.
Altro merito di questo giovane ensemble nato attorno, dentro e fuori dal Conservatorio di Milano dalla tesi di Dario (su Monk, ovviamente) tra co-allievi e amici, è quello di aver scelto, come modello di gruppo musicale, l’attitudine alla rilettura del San Francisco Jazz Collective (con dentro calibri pesanti come Joe Lovano, Dave Douglas, Stefon Harris e Miguel Zenon) condita, se possibile, da uno spirito di esplorazione alquanto più sbarazzino. La prova sta nella rilettura finale di It’s a wonderful life di Sparklehorse, affidata alla deliziosa vocina filtrata di Marcella Malacrida: l’accorto amalgama jazzato riesce a far decollare il brano verso latitudini tenere, del tutto estranee al suo spirito indie originario, nobilitandolo non poco. Insomma, gente mia, un album d’esordio da leccarsi le orecchie. Non capita spesso e soprattutto non capita con questa intensità. Ho detto.
Collettivo T. Monk, Ugly Beauty, Honolulu Records, 2015