Adesso vallo un po’ tu a sapere dove mettere un Guascone in musica. In letteratura, come succede per Dumas pére non ci sono problemi: D’Artagnan guasconeggia imperterrito da ogni pagina dei Tre Moschettieri, un romanzo dal titolo improvvido dato che è (quasi) la biografia del quarto (D’Artagnan, appunto). Come tradurre ‘guascone’? Con tante ‘s’ per esempio: sbruffone, smargiasso, spaccone, spavaldo. O una traduzione pot-pourri come bullo, fanfarone, gradasso, millantatore, rodomonte. Da noi si potrebbe tradurre con ‘bullo romagnolo’, con una buona caratterizzazione regionale, se non fosse che i romagnoli di costa hanno un pizzico di follia lunare che vira al malinconico.
Il che non s’attaglia a Bernard Lubat, classe 1945 da Uzeste, Guascogna, dipartimento della Gironda nella regione della Nouvelle-Aquitaine (Nuova Aquitania) – vi do le coordinate geografiche semmai voleste andarci d’estate, autunno, inverno e primavera oltre a Capodanno e mescolarvi senza alcun problema con le 460 anime che l’abitano e che originariamente si ritrovavano all’Estaminet, un negozio di alimentari-caffè-ristorante tenuto da Marie e Alban Lubat dal 1937 al 1980. I due signori sono i genitori del vulcanico artista classe 1945 che chiamiamo Bernard Lubat. Se andate su Wikipedia e scorrete la lista dei musicisti con cui ha collaborato il nostro Bernard vi mettete paura. C’è tutto il gotha del jazz francese, da Mimi Perrin dei Double Six of Paris (con cui cantava) agli Swingle Singers (per cui suonava la batteria), da Michel Portal a Louis Sclavis, da Richard Galliano a Henri Texier.
Ho detto che Bernard è vulcanico. Anche negli studi, s’è diplomato al Conservatorio di Bordeaux e di Parigi (un conservatorio non bastava) e poi s’è messo a lavorare subito come musicista e non ha più smesso. Naturalmente suona la batteria e ogni tipo di percussioni e a cascata il piano, il vibrafono, la fisarmonica. Infine canta, e come canta! Una volta ascoltato non ve lo scordate più.
Un passo indietro: Parigi è stata e forse è ancora la capitale del jazz europeo. C’è un amore di lunga data che lega gli USA alla Tour Eiffel, e questo amore nasce già nel 1934 con la creazione dell’Hot Club de France su iniziativa di Django e del violinista Stephane Grappelli. La matrice più evidente della musica manouche è lo swing americano, ma dentro c’è la gigantesca anima gitana di Django, che significa: tutta la musica popolare mitteleuropea (compresa quella dei cugini nomadi Klezmer ebraici), brandelli di musica classica presi al volo sul sagrato di una chiesa, e quando Django va in città i balli popolari nati anch’essi da ibridazioni vagabonde, come la Vals Musette, nata a quanto pare al Bal de Bouscadel dalla fisarmonica di un italiano e dalla zampogna di un alverniate. Django lascia di stucco l’intellighènzia afroamericana del jazz perché suona una musica estremamente ricca e coinvolgente.
È il secondo choc culturale per loro, perché si accorgono di colpo che il jazz non è solo roba loro. Già alla fine degli anni ‘20 un poverissimo sbarbatello ebreo russo come Benny Goodman aveva fatto ballare tutta l’America con la sua orchestra, fitta di italiani e di ebrei infilando ogni tanto nelle sue composizioni degli svolazzi klezmer ben dissimulati. Fior fiore di compositori classici gli dedicheranno loro opere – parlo di gente come Hindemith, Bartók, Copland e Bernstein. Un genio come Duke “il Duca” Ellington se ne frega delle rivendicazioni di paternità. Ha un orecchio finissimo, che s’allunga all’infinito, a tutte le musiche del mondo e non a caso si porta Django in tournée a fine guerra, dal 1946 in poi. Da quella tournée Django riporta a Parigi un pacco di dollari (svaniti in fretta, c’era da aspettarselo), un pacco di dischi e tanta esperienza che riversa nei concerti.
Dall’altro lato, quello della diffusione non dal vivo, sono i V-Disc dell’esercito americano che spandono in modo virale il linguaggio del jazz, strumentale e vocale, con gruppi come i Mills Brothers. Ma dentro i V-disc ci sono anche i fraseggi del bebop e ancora prima le improvvisazioni vocali di gente come Armstrong e Cab Calloway, che se non volevano cantare borbottavano ritmicamente frasi coerenti con la composizione che s’eseguiva. Poi sono arrivati altri giganti come Dizzy Gillespie e il borbottio è diventato un’arte: l’hanno chiamato vocalese ed è diventato una forma di jazz a se stante, perché si tratta di riprodurre fedelmente con la voce fattasi strumento, nota su nota, gli assoli di sax, tromba, pianoforte presenti in ogni brano – e vai con King Pleasure, Eddie Jefferson, Jon Hendricks. Ma soprattutto c’è l’unica, enorme, eterna e inimitabile Ella Fitzgerald, che nello storico live a Berlino del 1960 dà una lezione magistrale di vocalese a tutto il mondo non-USA.
Ecco qua, il cerchio si chiude e rimangono in scena i Double Six of Paris, il gruppo vocale più importante d’Europa e sicuramente uno dei più importanti al mondo. Con piglio sbarazzino eseguono sotto la sagace guida della direttrice Mimi Perrin un repertorio tra soul e bebop. I sei membri cantano tutti una volta su una traccia di registrazione, quindi cantano di nuovo l’esatto duplicato della performance su una seconda traccia, ‘raddoppiando’ ogni singola parte vocale. Gli ‘a solo’ di ogni brano seguono fedelmente la logica dello scat, specialmente se si tratta di brani di Gillespie, Quincy Jones o della Fitzgerald. Il loro The Double Six of Paris Sing Ray Charles sta per vincere il premio per la migliore performance vocale di gruppo ai Grammy Awards del 1965, ma viene preceduto di un soffio da A hard day’s night dei Beatles (cose da pazzi… Ma si rifaranno negli anni successivi, vincendone ben cinque!).
Bernard Lubat sta dentro a tutto questo mondo. Dopo una breve esperienza come vocalist nei Double Six, sciolti per problemi di salute della direttrice, confluisce negli Swingle Singers creati dall’ex membro del primo gruppo, cioè Ward Swingle. Ma qui Bernard canticchia a stento, visto che gli Swingle fanno pervicacemente e con metodo ciò che faceva il Modern Jazz Quartet, cioè passare in salsa jazz la musica classica: l’Aria sulla Quarta Corda versione Swingle Singers diventa una delle musiche più eseguite del modo. Ma a Bernard tocca poca gloria, adesso suona la batteria più che cantare, e dato che Bach è squadrato come ritmo che più squadrato non si può, s’inventa un gioco raffinatissimo di spazzole e pelli per suggerire, più che eseguire materialmente, il ritmo della composizione – bisognerebbe isolare la traccia di batteria per cogliere in pieno tutto il lavoro, tanto è sottotraccia. Ma gli Swingle Singers sono solo una parentesi. Adesso c’è tantissimo da fare. Basta rimboccarsi le maniche e saperci fare.
In Francia è cosa piuttosto comune e anche abbastanza chic che artisti smaccatamente pop chiamino dei jazzisti per i loro arrangiamenti o per suonare in studio o addirittura dal vivo. Il primo che mi viene in mente è Egberto Gismonti, esule dalla dittatura militare brasiliana, e arrangiatore di Marie Laforet, “la ragazza dagli occhi d’oro”, attrice e cantante di grido. Bernard sale un gradino più in alto e lavora per Dalida, Aznavour, Claude François, Yves Montand, Sacha Distel, e persino Salif Keita! E continua a lavorare negli anni con la crème de la crème del jazz internazionale, da quello più classico di Dexter Gordon e Stan Getz a quello più d’avanguardia di Don Cherry, Louis Sclavis Misha Mengelberg, Jack Dejohnette.
Per sua fortuna la Francia ha accolto da un pezzo l’idea e l’estetica del jazz. Sino a decidere, nei bei anni di Jack Lang ministro della Cultura, che il fumetto e il jazz sono forme d’arte contemporanea, si possono insegnare e vanno anche finanziate con soldi pubblici. Per cui c’è una valanga di progetti d’arte legati alle situazioni provinciali che ricevono sovvenzioni (c’è persino l’Orchestra Nazionale di Jazz!) e moltissimi di questi progetti sfociano in festival d’arte permanenti. È questo il momento della virata ‘rurale’ di Bernard Lubat, una virata tanto più sorprendente quanto più larga è la sua partecipazione al mondo internazionale del jazz. Uzeste, l’ho detto, è una realtà di 460 anime censite, inclusi i genitori di Bernard. Ma dal 1978 è diventata una realtà importante per tutta Europa, non solo per la Francia. E il genio dentro la lampada è proprio Bernard.
Ho avuto la fortuna di farmi raccontare festival e vita vissuta d’artista quando l’ho conosciuto nel 1994 al Festival jazz di Saalfalden in Austria. Tenne un concerto strampalato suonando piano e percussioni per Benat Achiary, uno stupefacente cantante basco che considero personalmente come l’unico degno erede di Demetrio Stratos. Molta gente sonnecchiava già, intontita da birra e salsicce e una temperatura da serra tropicale nonostante l’ora tarda. In tribuna stampa fummo percorsi da una scossa elettrica ad alta intensità perché Achiary “Une poete à New York” (titolo del concerto) volava altissimo scaricando a terra scariche tempestose mentre Bernard Lubat martellava tuoni da Thor sui bassi del pianoforte. Quando ci sedemmo nel bar retropalco Benat stette poco con noi perché era stanchissimo, mentre Bernard si scolò un paio di pinte di birra chiara ghiacciate e poi attaccò a raccontare cosa era il suo festival rurale. E lì scoprii che Bernard non era solo uno strano pesce nel pozzo – pensavo che il mondo fosse sempre troppo piccolo per lui e invece lo trovavo che nuotava perfettamente a suo agio in uno sputo di mosca di paesucolo in Guascogna! Ma mi stupii ancora di più quando al musicista Lubat subentrò il compagno Lubat.
Negli anni di piombo, così terribilmente metropolitani per noi in Italia, Bernard decide di portare la rivoluzione in campagna. Uzeste diventa un centro attivo di controcultura, perché il festival è orientato all’educazione artistica popolare, all’improvvisazione musicale, alla promozione della cultura rurale e occitana (sì, i guasconi sono Occitani pure loro). Secondo Lubat, Uzeste non è un luogo, ma è un atto, qualcosa che è appena iniziato: a New Thing, un manifesto che mette in moto la maieutica dada di una ruralità critica. Lubat tirò fuori a sorpresa per me, italiano, il Pier Paolo Pasolini che diagnosticava la scomparsa delle lucciole, cioè di una resistenza ordinaria. C’era qualcosa di pasoliniano o leopardiano in lui, nell’insistenza che aveva nel deplorare il declino del suo villaggio natale, il ‘genocidio’ della cultura popolare da cui proveniva (lingua d’Oc, tradizioni rurali, ecc.), ma anche nel dubbio socratico su se stesso come intrattenitore.
Si definì come un intransigente che tende a “preoccupare il suo tempo avendo egli stesso un preoccupato rapporto con la sua storia oltre che con il suo presente”, un presente le cui necessità lo portavano a rileggere il passato rivolto al futuro. Lubat affermò solennemente che il suo presente era una pratica di attualizzazione delle potenzialità emancipatorie in un ambito micro con un’opera di politicizzazione, il cui principio è un’arte delle parole, del ritmo, dell’improvvisazione, della relazione e della creolizzazione. L’impegno per quest’arte, che vuole essere liberatoria, era anche il precipitato di un singolare viaggio personale.
Mi parlò a lungo e con ammirazione del Tropicalismo e della traiettoria del musicista brasiliano Caetono Veloso messa a confronto con la sua, una rivolta radicale, cioè radicata in un contesto sociale regionale e in una cultura locale, ma la cui linea di fuga è dall’esterno verso il Tutti. Come la bossa nova di João Gilberto e la musica popolare brasiliana reinventata da Tom Zè, che mescolavano avanguardia e tradizione, samba e cool jazz – la produzione artistica del festival di Uzeste era fedele allo spirito e all’espressività della musica libera o alle sperimentazioni della musica contemporanea, senza rinunciare agli idiomi delle culture tradizionali occitane. Alle mie obiezioni, basate sulla memoria di cosa era stato il tentativo velleitario di reintrodurre la ‘canzone popolare’ in Italia negli anni ‘70 (Canzoniere del Lazio, Nuova Compagnia di Canto Popolare e via discorrendo) rispose che era ben consapevole che l’ancoraggio dell’arte radicata nelle tradizioni popolari d’Occitania ovviamente non derivava da un’inclinazione folcloristica; ne era anche la negazione più assertiva in quanto si opponeva a quella che Pasolini vedeva come la normalizzazione di culture ‘particolari’ ovvero le sue tante ‘piccole patrie’.
L’attività artistica e civica di Uzeste non partecipava in alcun modo alla deplorevole nostalgia per i ‘passatismi’ pittoreschi e tradizionalisti. Quell’attività era impegnata a reinventare una memoria popolare che rifiutava di essere determinata dall’alto e che si sforzava di costituire una risorsa che consentisse alle subalternità di Uzeste di fare affidamento su un passato come risorsa per il proprio futuro: in altri termini non considerarsi più oggetti della storia, ma soggetti della Storia. La ruralità non era una cultura senza valore, inferiore alla ‘cultura alta’ – peraltro resa obsoleta dalla cultura di mercato – di cui bisognava sbarazzarsi, ma una cultura storica che portava aspirazioni progressive, un ricordo di lotte sociali, in nome delle quali oggi si potevano intraprendere altre lotte. L’impegno di Uzeste faceva emergere la volontà di creare un luogo di passaggio per un’identità atavica che, non essendo mai completamente sedimentata, poteva trasformarsi in identità critica. Fare in modo che i gruppi subalterni smettessero di costituire una classe-oggetto per affermarsi come classe mobilitata: un gruppo di combattenti della resistenza che sono necessariamente intransigenti, perché si oppongono all’egemonia dominante, passata e presente, pur essendo consapevoli della loro dipendenza da essa.
Uzeste era stata concepita come un lavoro sul ‘buon senso’ o su quello che Antonio Gramsci chiamava “folclore filosofico”, cioè una filosofia spontanea e condivisa attraverso il linguaggio, forme di categorizzazione, credenze, opinioni, disposizioni ad agire, pensare e sentire, che si trovano a essere storicamente, culturalmente e socialmente localizzate. Perché non è mai del tutto fissato, il senso comune costituisce una materia culturale, gnoseologica e organica, in movimento, su cui è possibile intervenire per fargli prendere direzioni che vanno in un senso che, fintanto che è comune, è anche progressivo.
A questo punto Lubat affermò di essere consapevole che il suo atteggiamento era quasi sempre polemico, ma non poteva farne a meno fino a quando, almeno, non sarebbero stati spazzati via modi di azione, pensiero e affetto radicati in uno status quo che garantisse la riproduzione dei modi di dominio. Bisognava eliminare innanzitutto gli “interventi di ristrutturazione”, cioè le azioni che riempiono le crepe nella facciata di un edificio esistenziale le cui fondamenta rimangono intatte, e rivolgersi alla loro demolizione e ricostruzione, usando un senso comune popolare che considerava la quotidianità come un problema politico. Ma lavorare sul buon senso richiedeva, a monte, di lottare contro il buon senso empirico che, appunto, invita a non esporsi, a non prendere parte, in alcun modo, a quelle attività artistiche che un suo paesano Uzestois descriveva divertito come le azioni di coloro che “in un manicomio lavorano troppo con il loro cappello”.
Il ‘branco’ di Uzeste resisteva nonostante i tentativi di normalizzazione, sottilmente insiti del finanziamento pubblico. Lubat disse che era convinto di condurre una rivoluzione culturale, cioè una lotta per innescare l’iniziativa di partecipazione di tutti verso un’espressione veramente collettiva. E mise per iscritto, levando alta la pinta di birra, aspettative a suo dire universali:
- liberarsi dal “folklore vissuto” per andare verso una coscienza autorappresentata, espressione delle persone; proporre una critica globale delle situazioni vissute e subite;
- articolare questa coscienza a dinamiche collettive finalizzate a cambiamenti concreti: un popolo politico che agisce;
- “non assumere alcun carattere cerimoniale sociale ma essere dotato di solennità popolare: cioè prendersi sul serio. A Uzeste, l’accusa migliore è ‘Chi ti credi di essere?’, come se non potessimo prenderci cura di noi stessi. Ma ovviamente ci prendiamo cura di noi tutti a vicenda! Ci prendiamo a palate di fango in faccia, ma lo facciamo. Anche noi siamo intellettuali”.
Insomma, si finì a parlare dei massimi sistemi, mescolando Gramsci e Charlie Parker, Deleuze e la blackness. Riuscii, non so come, a convincere il barista a mettere su il CD che poi Lubat mi avrebbe regalato cioè ScatRap Gascogne. Avete presente quando all’improvviso in una sala da pranzo entra qualcuno con del carisma e tutti, anche senza sapere chi è entrato, si alzano in piedi? Fu come mettere un’amplificazione da heavy metal dentro un baretto da pensionati, ma senza alzare il volume a dismisura. Ci percorse un brivido perché era la realizzazione pratica di ciò di cui aveva (stra)parlato Bernard sino a quel momento, un frullato in cui percepivi tutti gli ingredienti (gara durissima!).
Un rap melodico in lingua occitana Les Gojats; un ottovolante di scale bebop, ritmica quasi jungle e piogge di accordi dissonanti Jazzpanic; e poi Indifference, una tenerissima vals musette-manouche composta dal genio italiano Tony Murena, inframezzata da suoni d’officina; una polka strapaesana (La polka d’Alban); il manifesto dell’intero CD, cioè il rap occitano Ziste Zeste; campane e poesia locale; un blues da brivido cantato in francese con una chitarra distorta da manuale, St. Just Blues; un esempio da manuale di scat a 180 bpm come Rocarolo; un ricordo scatrap di Mimi Perrin (M.me Mimi), scatenato che più non si può sull’aria di Bloomdido di Parker e Gillespie; un rap su tempo moderato (in guascone) sul bancone del bar, Transbalbar d’Oc; Bernard in un solo di pentole da cucina e giocattoli da bambini, stralunatissimo e da vero clown modello Coluche, cioè Cosina Gascona; e poi il gran finale fisarmonica e percussioni elettroniche e acustiche, cioè Mamà Sauvatage con ricordi di samba bahiano. Non posso dire che l’intero bar si mise a ballare, ma sicuramente rimasero basiti e sull’attenti. Come sull’attenti stetti io quando Bernard, dopo un abbraccio d’addio, mi disse tutto serio: “Je ne théorise pas sur le communisme: tout au plus j’en rêve, et c’est plus sain. Mon communisme est désintégriste biodégradable pas croyable.”
Visto che Lubat continua a fare il giocoliere creativo con le parole, che neanche Alessandro Bergonzoni, bisogna rassegnarsi. Qui dé-sintégriste è un incastro tra désintégrateur (disintegratore) e integriste (fondamentalista) e biodegradable fa necessariamente rima con croyable (credibile). Alla fine: “Io non teorizzo il comunismo: tutt’al più lo sogno, ed è più sano. Il mio comunismo è disintegrista, bio-degradabile, poco credibile”.