Come ti svendo un Paese: i numeri che rivelano le falsità della propaganda dell’austerity e il precedente del ‘Fondo indipendente’
Dopo mesi di negoziati tra la Grecia e i suoi creditori e un referendum dal risultato straordinario che non è servito assolutamente a nulla, il 14 agosto il Parlamento di Atene ha approvato il terzo accordo per il salvataggio a opera delle istituzioni internazionali ‘amiche’ in cinque anni. Quasi un terzo dei 149 parlamentari di Syriza, il partito di sinistra dell’ex primo ministro Tsipras, ha rifiutato di sostenerlo e lui si è dimesso. A una crisi economica che sembra senza alcuna uscita si è dunque aggiunto l’esacerbarsi della crisi politica, e nel settembre scorso la Grecia ha affrontato le quinte elezioni politiche in sei anni. Tsipras ha vinto di nuovo (ma questa volta con un’astensione che ha raggiunto il 46%) e lo scenario più probabile è la riproposta di un’alleanza di governo fra Syriza e Greci Indipendenti (Anel), partito di destra, ma mentre il nome di chi ricoprirà le cariche che contano al momento in cui si scrive è ancora sconosciuto, quali saranno le misure da intraprendere è tristemente chiaro a tutti, perché il Paese non è più padrone del proprio destino. A rigor di logica, la Grecia è da considerarsi a tutti gli effetti uno Stato occupato, ma da chi, e perché?
La storia (1)
Il 4 ottobre del 2009 il movimento socialista panellenico Pasok vince le elezioni. Già a una prima analisi dei conti pubblici emergono differenze fra quanto dichiarato dal governo uscente (primo ministro per due mandati consecutivi a partire dal 2004 era stato Kostas Karamanlis, di Nea Demokratia) e la realtà: il rapporto deficit/Pil è infatti al 12%, il doppio del previsto – non entriamo qui nel dettaglio della vicenda della falsificazione dei conti pubblici messa in atto per entrare nel gruppo di Paesi che hanno adottato l’euro fin dal suo esordio, né della consulenza a tal scopo fornita da Goldman Sachs, né del fatto che gli altri Paesi europei ne fossero a conoscenza, né, infine, delle dinamiche dell’attacco speculativo messo in atto tra novembre 2009 e aprile 2010 sui titoli pubblici ellenici (2). A fine dicembre arrivano i primi tagli imposti dal governo Papandreou all’interno di un piano triennale di risanamento, ma gli osservatori internazionali dubitano che sarà sufficiente, e la situazione precipita rapidamente.
Le agenzie iniziano a tagliare il rating e i tassi di interesse salgono, peggiorando i conti pubblici. Il Fondo monetario internazionale (allora diretto da Dominique Strauss-Kahn) decide di inviare una missione ad Atene in vista di un possibile prestito. Pochi giorni dopo Bruxelles decide di insediare in modo permanente un tecnico di Eurostat (l’istituto di statistica della Comunità europea) nel board dell’Elstat, l’istituto di statistica greco (un segretariato generale del ministero dell’Economia e delle Finanze). Si diffondono i timori di una crisi del debito, e l’Eurozona vara un piano di aiuti che prevede prestiti bilaterali con un contributo del Fmi.
A maggio Atene annuncia una terapia choc da 30 miliardi, praticamente un settimo del Pil del Paese, e l’Eurogruppo dà il via libera a un meccanismo di sostegno finanziario da 110 miliardi di euro. Ma la situazione non migliora, e Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch abbassano ulteriormente il rating. Il governo è costretto a nuovi tagli per 6,5 miliardi di euro, che non risultano sufficienti, e l’Eurozona condiziona l’erogazione di nuovi aiuti a risparmi di spesa per ulteriori 28 miliardi di euro da attuarsi entro il 2015.
A settembre il governo vara un’ulteriore manovra, e il Paese viene commissariato dalla Commissione europea, la Bce e il Fmi (la cosiddetta troika). L’Europa attiva il fondo salva-Stati garantendo alla Grecia un po’ di respiro, ma la crisi si avvita, perché nel frattempo, fra la recessione globale e l’austerità forzata, il Paese è precipitato in una tragica spirale. La disoccupazione vola e il Pil sprofonda: scoppia una protesta di piazza che sfocia in guerriglia nel centro di Atene, e Papandreou si dimette pianificando le elezioni per la primavera del 2012.
L’Europa, apparentemente preoccupata di un contagio da default sui Paesi finanziariamente più deboli della comunità, dà il via libera a nuovi aiuti per 130 miliardi rimandando per la seconda volta il fallimento, altrimenti inevitabile. A marzo i detentori di debito ellenico si vedono ridurre il valore nominale dei titoli del 50% (il cosiddetto haircut, o taglio del debito), con un contestuale allungamento della scadenza.
Le elezioni di primavera danno la vittoria ad Antonis Samaras, di Nea Demokratia. Il governo è disposto a collaborare con la Ue, ma la pazienza del popolo greco, stremato dalla recessione, è agli sgoccioli. Cresce il consenso alle ali estreme della politica: Alba dorata a destra, Syriza a sinistra, entrambe contrarie a pagare il debito e a sottostare alle politiche imposte dalla troika. Il 29 dicembre 2014 il Parlamento greco non riesce a eleggere il nuovo presidente della Repubblica e il governo cade. Alle elezioni del 25 gennaio 2015 vince Alexis Tsipras, il nuovo eroe della politica greca, cui la popolazione affida le ultime speranze di riscatto.
Tsipras inizia immediatamente un tour in Europa per convincere Bruxelles e Francoforte a ridefinire il debito greco e spazzare via la politica di austerity della troika. Ministro delle Finanze è il carismatico Yanis Varoufakis, economista greco che, al momento della nomina, insegna alla Lyndon B. Johnson School of Public Affairs dell’Università del Texas a Austin. Ma per il nuovo esecutivo ellenico arrivano subito i guai: non solo i partner europei, soprattutto la Germania, sono decisi a mantenere la direzione di politica economica imposta dalla troika, ma la Bce taglia la Grecia dai finanziamenti diretti alle banche, costrette a finanziarsi con la liquidità’ di emergenza (Ela).
In aprile Tsipras e Varoufakis portano all’Europa una nuova proposta di riforme, più dettagliata della precedente, ma lo sforzo non basta a sbloccare gli aiuti. All’Eurogruppo Varoufakis viene accusato di essere “un dilettante e un perditempo”. A maggio la recessione peggiora e i creditori vanno in pressing per tagli pari ad almeno tre miliardi di euro entro l’anno.
Il 4 giugno Atene informa Christine Lagarde, direttore del Fmi, che le quattro rate del prestito da rimborsare nel corso del mese verranno accorpate in un unico pagamento, con scadenza al 30 giugno, per un totale di 1,6 miliardi di euro. Mentre all’Eurogruppo le trattative si susseguono frenetiche in cerca di un accordo (ma la rigidità della posizione tedesca impedisce qualunque mediazione), le banche elleniche rischiano il crack per i depositi in fuga, e la Bce è costretta a erogare i fondi d’emergenza necessari per fare fronte alla situazione.
Il 27 giugno il premier greco indice un referendum nella giornata di domenica 5 luglio per chiedere ai cittadini ellenici di pronunciarsi a favore o contro il piano di riforme imposto dalla troika. Il 30 giugno Atene non rimborsa la rata del Fmi: è tecnicamente default, e le banche greche vengono chiuse fino a data da destinarsi per evitare il crollo del sistema finanziario.
La situazione viene però congelata dalle istituzioni internazionali in attesa dell’esito del referendum, che vedrà il NO vittorioso con una maggioranza del 60%. Ma se il popolo greco pensava che ribellarsi sarebbe servito ad ammorbidire le pretese dei creditori si era davvero sbagliato: il risultato ottenuto è addirittura l’opposto, fra lo sconcerto degli osservatori: le condizioni che Tsipras viene di fatto obbligato a firmare sono ancora più pesanti di quelle che la troika aveva proposto prima del referendum, con un atteggiamento che si può solo definire punitivo (3).
Entro il 15 luglio il Parlamento greco deve approvare la riforma dell’Iva e quella del sistema pensionistico nei termini stabiliti dalla troika, assicurare la piena indipendenza dell’ente statistico nazionale Elstat e la piena attuazione del Fiscal compact. Entro il 20 luglio deve presentare una proposta per “depoliticizzare l’amministrazione pubblica”, ma soprattutto i greci devono licenziare il personale assunto nella pubblica amministrazione in eccedenza rispetto agli impegni pregressi. Entro il 22 luglio Atene deve adottare un nuovo codice di procedura civile per accelerare i processi e ridurne i costi, e trasporre in legge nazionale la direttiva sulla risoluzione bancaria. Inoltre, il Parlamento dovrà legiferare nel medio termine per una riforma del mercato energetico e di quello del lavoro, per un rafforzamento del settore finanziario e per un piano di privatizzazioni.
E, ciliegina sulla torta, la Grecia non potrà più indire referendum senza il consenso della troika: la precondizione per aprire il negoziato su un nuovo piano di ‘aiuti’ è stata infatti la firma di un accordo che prevede di “consultare preventivamente e concordare” con Bce, Fmi e Commissione europea “tutte le proposte legislative rilevanti prima di sottoporle al Parlamento o alla consultazione pubblica”. E il documento approvato all’unanimità dai capi di Stato e di governo dell’area euro puntualizza che questo passaggio con la troika deve avvenire in tempi che risultino “adeguati”.
La morale è una sola: sfidare chi ti ha prestato soldi non porta a nulla di buono.
I numeri
Quando si sente parlare del default di un’intera nazione, o di un rapporto debito/Pil ormai ingovernabile, è difficile mantenere i nervi saldi. Ma un rapporto è solo un numero diviso per un altro numero, e non dice assolutamente nulla dei valori assoluti in gioco. Vediamo quindi di stabilire quali siano le cifre di cui stiamo parlando, e come si collochino nel contesto europeo.
La Grecia ha un debito pubblico di circa 312 miliardi di euro e un Pil di circa 223 miliardi di euro, per un rapporto debito/Pil pari al 170%. Sembrano cifre enormi, e senza dubbio lo sono, ma l’Italia, la cui situazione appare oggi tranquilla, ha un debito di 2.199 miliardi di euro e un rapporto debito/Pil al 135%. La Grecia in valore assoluto vale appena la metà della Lombardia (il cui Pil, il 20% di quello italiano, è intorno ai 430 miliardi di euro). Basti pensare che nella sola giornata del 29 giugno (quella precedente il default tecnico), le Borse del vecchio continente hanno perso oltre 287 miliardi di euro, ossia quanto sarebbe bastato a saldare l’87% del debito di Atene.
E non prendiamo nemmeno in considerazione i ribassi dei corsi delle azioni di cui le aziende europee hanno sofferto in relazione ai problemi di solvibilità della Grecia negli ultimi cinque anni, altrimenti sarebbe chiaro che il prezzo pagato dall’Europa che lavora, come direbbero alcuni, ai diktat neoliberisti nei confronti di Atene sarebbe assolutamente da folli. Ma di ristrutturazione del debito, che parrebbe l’unica soluzione percorribile per rilanciare l’economia greca, non si vuole nemmeno sentire parlare. È una questione di principio, sarebbe come trattare con i terroristi: lo fai una volta e non te ne liberi più. Se si dà il placet comunitario all’haircut greco, come si farà a tenere la linea dura con gli altri debitori potenzialmente insolventi (Italia, Spagna, Portogallo)? Chi non restituisce i soldi, nella migliore tradizione cravattara, non va ucciso, semmai riempito di botte, e poi prosciugato, finché il poveretto non ha più niente che valga da dare in cambio. Ma a che prezzo?
Quando la cura è peggio del male
Dopo la ‘cura’ di austerity imposta dagli investitori istituzionali il tasso di disoccupazione della Grecia è diventato il più alto dell’intera area euro (Figura 1), trasformando quella che sembrava una crisi puramente finanziaria in un vero e proprio dramma sociale.
Se confrontiamo la crisi greca con la peggiore delle recessioni moderne, la Grande depressione del 1929 – a cui ha fatto seguito il New Deal rooseveltiano, decisamente lontano dalle politiche di austerity messe oggi in atto – notiamo come, sebbene esse siano equivalenti per quanto riguarda la dinamica di contrazione del Pil, nel caso di Atene non si riesce a notare a ben sei anni dall’inizio nessuna inversione di rotta, e nulla lascia credere che la situazione sia vicina a cambiare (Figura 2).
Le misure draconiane di austerità applicate in Grecia, secondo l’American Enterprise Institute’s Desmond Lachman, hanno portato il Paese al “collasso economico dentro la camicia di forza dell’euro. Quella camicia di forza ha impedito la svalutazione della moneta e l’applicazione di politiche monetarie indipendenti”.
La crisi del debito ha distrutto l’economia della Grecia, e di riflesso la sua capacità di rimborsare i creditori e creare occupazione. Atene si è quindi vista costretta a chiedere aiuto all’Eurozona e al Fondo monetario internazionale. E le misure di austerità imposte hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita nel Paese.
I depositi bancari, che erano al massimo nel momento del primo downgrade del debito avvenuto nel 2009, hanno iniziato a diminuire per toccare il minimo alle elezioni legislative di gennaio (Figura 3). I prestiti stranieri sono serviti solo a proteggere i creditori, e di certo non hanno aiutato il rilancio dell’economia.
I detrattori affermano che ancora oggi la Grecia spende troppo, e che questo sia il nocciolo del problema: gli altri Paesi europei hanno accettato misure che Atene si rifiuterebbe di porre in atto. Come si evince dal grafico pubblicato il 29 giugno da Simon Tilford, direttore del Centre for European Reform di Londra, le affermazioni sono del tutto false (Figura 4).
Per citare solo una delle manovre, nel 2011 l’esecutivo, cedendo in parte alle pesanti pressioni della troika, aveva spostato 30.000 dipendenti statali in una sorta di “riserva lavorativa”, garantendo loro per 12 mesi uno stipendio pari al 60% di quanto precedentemente contrattato, e successivamente licenziando quelli che non erano riusciti a ricollocarsi nel settore pubblico (non vogliamo nemmeno pensare come il nostro Paese avrebbe affrontato una simile eventualità). Ma in totale, dal 2009, sono addirittura 258.000 i dipendenti espulsi dal sistema pubblico, la cui forza lavoro è passata da 907.351 a 651.717 unità, con una diminuzione pari al 26% (Figura 5).
Eppure Atene sta peggio di prima. Secondo il premio Nobel Paul Krugman, ciò è accaduto perché “l’economia greca è crollata, in gran parte a causa di queste misure di austerità, che hanno trascinato le entrate dello Stato verso il basso”.
E non stupisce che le entrate fiscali siano crollate (Figura 6), dato quel che è successo a salari e stipendi.
Già nel 2013 un giovane avvocato guadagnava 400 euro al mese per otto ore di lavoro al giorno in uno studio legale. K.S, 27 anni, laureato in diritto e con un master in Germania, commentava: “Il contributo sociale è di 150 euro al mese e spendo 45 euro di abbonamento per i trasporti pubblici. Che cosa mi rimane per vivere? Conosco giovani avvocati che lavorano senza contare le ore, e rimangono in ufficio fino a mezzanotte per guadagnare 600 o 800 euro al mese. Guadagnano meno di un operaio non specializzato. Purtroppo lo statuto di dipendente non è stato riconosciuto per i giovani avvocati”.
Invece P.K., 30 anni, laureato in ingegneria elettronica al Politecnico, con tanto di dottorato di ricerca e pubblicazioni all’attivo, dopo aver insegnato alla Scuola di Alti studi tecnici per 700 euro al mese e part time per un semestre alla Scuola tecnica di Chalkida per 300 euro al mese, è rimasto disoccupato: “È impossibile vivere, soprattutto per noi tecnici che abbiamo un’assicurazione più cara. La maggior parte dei miei colleghi è già andata all’estero” (4).
La povertà ha raggiunto livelli record: The Guardian riporta che, solo ad Atene, la Chiesa ortodossa nutre 55.000 persone al giorno, mentre le autorità municipali distribuiscono altri 7.000 pasti nelle soup kitchens nei dintorni della città. Padre Timotheos, portavoce del Santo Sinodo, il collegio dei vescovi ortodossi, afferma: “In uno dei sobborghi tipici della classe media come Zographou il numero delle persone che ha bisogno di aiuto è passato da 50 nel 2011 a 500 nel 2013” (5). E la situazione continua a peggiorare: secondo un rapporto della General Confederation of Greek Workers (GSEE), la percentuale di cittadini che vive sotto la soglia di povertà è raddoppiato negli ultimi anni, e ha raggiunto la cifra record del 40% (6).
Privatizzazioni: perché e per chi?
Come parte dell’accordo siglato a luglio, le autorità greche dovranno trasferire aziende e beni pubblici per un totale di 50 miliardi di euro (quasi un quarto del Pil del Paese) a un fondo indipendente, gestito dalle autorità greche con la supervisione delle istituzioni internazionali, che venderà tali asset a soggetti privati per incassare denaro contante; questa monetizzazione, si legge nel documento, sarà una fonte finanziaria per il rimborso programmato del nuovo prestito dell’Esm (il Meccanismo Europeo di Stabilità, ironicamente definito anche salva-Stati).
Questa idea del fondo indipendente, cara soprattutto alla Germania, e in particolare al suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, non è per niente nuova, come nota acutamente Dirk Laabs su The Guardian (7).
Venticinque anni fa, nell’estate del 1990, Schäuble era a capo della delegazione della Germania Ovest chiamata a negoziare i termini della riunificazione con la Repubblica democratica tedesca; allora ministro degli Interni, Schäuble era considerato il più autorevole consigliere del cancelliere Helmut Kohl.
La situazione dell’ex DDR non era diversa da quella della Grecia all’ingresso di Syriza nel governo: si erano appena tenute le prime elezioni libere, a pochi mesi dalla caduta del Muro, e alcuni delegati di Berlino Est sognavano un nuovo sistema politico, una ‘terza via’ fra il capitalismo occidentale e il vecchio sistema socialista, ma non avevano alcuna idea di dove trovare il denaro per pagare i conti in rosso del proprio Stato. Viceversa, la Germania Ovest aveva l’occasione, i soldi e un piano: qualunque bene la DDR possedesse doveva essere trasferito al sistema economico capitalista e velocemente liquidato a investitori privati per recuperare il denaro necessario a ripianarne le finanze. In altri termini, Schäuble e il suo team volevano la DDR a garanzia dei finanziamenti.
All’epoca quasi tutte le imprese ex comuniste, anche i negozi o i distributori di benzina, erano di proprietà della cosiddetta Treuhandanstalt, volgarmente nota come Treuhand, un’agenzia fiduciaria istituita in origine da alcuni dissidenti della DDR per evitare che i politici corrotti vendessero a loro piacimento le imprese di Stato alle banche e alle società tedesche.
Il loro obiettivo era trasformare le aziende pubbliche in società private, che potessero a tutti gli effetti far parte di un’economia di mercato. Schäuble non aveva alcun interesse a mettere in atto questo processo di integrazione, ma gradiva l’idea di un fondo fiduciario che operasse al di fuori del governo: sebbene manovrato dal ministro delle Finanze, sarebbe sembrato un’agenzia indipendente.
Già nell’ottobre del 1990, perfino prima della riunificazione tedesca, la Treuhand era fermamente nelle mani della Germania Ovest. Ma il gioco si rivelò molto più difficile del previsto.
Come accade sempre in un sistema capitalista, il mercato aveva anticipato la politica, e quasi tutti i settori di valore, come quello bancario e quello energetico, erano già stati assorbiti dalle aziende occidentali. Non solo: dopo l’introduzione del marco in pochi giorni la fragile economia dell’Est arrivò al collasso finanziario. Come la Grecia, necessitò di un massiccio programma di aiuti governativi, che furono però stabiliti in segreto e il cui importo, 100 miliardi di marchi, divenne pubblico solo diversi anni dopo.
Con i prezzi del lavoro e delle materie prime alle stelle, la Treuhand non ebbe alcuna possibilità di vendere molte delle sue aziende, e dopo alcuni mesi iniziò a chiudere intere fabbriche, licenziando migliaia di lavoratori. Alla fine il fondo non solo non portò denaro nelle casse della Germania Ovest, ma costò un saldo negativo di ben 71 miliardi di euro.
Nella realtà la Treuhand non aveva giocato il ruolo di strumento di privatizzazione, ma era diventata una specie di holding socialista, che aveva perso miliardi di marchi per continuare a pagare gli stipendi ai lavoratori dell’Est: siccome Kohl e Schäuble non erano i Chicago boys, ma politici che volevano essere rieletti, pomparono miliardi di marchi in un’economia allo sfascio pur di mantenere il consenso, ed è qui che termina il parallelo con la Grecia: ci sono dei limiti alle misure di austerity che un governo può imporre ai suoi cittadini, mentre quelle che si possono imporre a chi non è chiamato a votarti sono potenzialmente infinite.
Così l’agenzia si prese tutte le colpe per la situazione economica dell’ex DDR (il primo di aprile del 1991 il presidente della Treuhand, Detlev Karsten Rohwedder, venne assassinato a colpi di pistola da un soggetto ancora ignoto, si pensa un militante di sinistra), mentre il partito di Kohl e Schäuble, i conservatori della Cdu, continuarono a governare per anni – fino a oggi, in effetti. Come conclude bene il giornalista del Guardian, quello che i politici tedeschi hanno imparato è che “se ti atteggi a neoliberista dal cuore puro puoi continuare a prendere decisioni che non hanno un vero significato economico” (8), almeno finché questo ti concede un vantaggio politico.
Mors tua, vita mea
Se poi la crisi degli altri risulta uno dei tuoi fattori critici di successo, perché cambiare strategia? Ed è proprio questo che accade fra Grecia e Germania: la debolezza dell’una accresce l’appetibilità finanziaria dell’altra, e questa appetibilità si traduce in miliardi di euro.
L’Halle Institute for Economic Research (Iwh), membro della Leibnitz Association, ha pubblicato nell’agosto scorso uno studio da cui risulta che “il pareggio di bilancio in Germania è in gran parte il risultato di pagamenti di interessi più bassi a causa della crisi del debito europeo”. Secondo le simulazioni dell’istituto tedesco, la crisi del debito ellenico ha portato a “una riduzione dei tassi del Bund di circa 300 punti base”. Cioè oltre 100 miliardi di interessi in meno da versare ai creditori, una quota pari a più del 3% del Pil della Germania (9).
La dinamica economica è semplice: nei momenti di crisi, gli investitori (non certamente gli speculatori…) liquidano i titoli dei Paesi le cui economie sono meno floride per trasferirli in quelli con fondamentali più affidabili, e i titoli di Stato tedeschi, i cosiddetti Bund, sono i più sicuri della zona euro. “Il risultato – commentano i ricercatori – è che la Germania ha beneficiato in modo sproporzionato di questo effetto”.
Analizzando gli andamenti dei titoli di Stato greci e tedeschi, l’Iwh ha stabilito che a ogni cattiva notizia sulla Grecia i rendimenti (cioè il tasso di interesse) dei Bund scendevano e quelli dei titoli ellenici salivano: “Gli effetti sono simmetrici” e in caso di eventi importanti valevano anche 20-30 punti base al giorno. Per esempio il mercato ha reagito con preoccupazione alla probabilità di vittoria di Syriza, premiando indirettamente il governo tedesco, e lo stesso si è ripetuto al rifiuto di Tsipras di accettare i diktat della troika, mentre quando la Grecia ha accettato il memorandum l’effetto si è ribaltato: il rendimento dei Bund è aumentato e quello dei titoli greci è sceso.
Per la loro simulazione gli studiosi hanno utilizzato una metodologia standard – chiamata regola di Taylor – e hanno concluso che nel quinquennio 2010-2015, grazie alle turbolenze sulla Grecia, la Germania ha risparmiato oltre 100 miliardi di euro. E, dal momento che ha sborsato in termini di aiuti solo 90 miliardi, “se la Grecia paga i suoi debiti, o paga in parte, i risparmi sono notevoli”, ma anche se non rimborsasse nemmeno un euro “la Germania sarebbe comunque in vantaggio” di 10 miliardi di euro. A causa dell’interdipendenza delle dinamiche finanziarie ed economiche fra gli Stati membri dell’Unione europea (con le regole attuali, per cui la moneta è unica, ma gli Stati diversi), si è creato un meccanismo perverso, che fa in modo che “le formiche esistono solo se ci sono le cicale”, come nota Giovanna Faggionato su Lettera43.
Lunga vita alla crisi greca, dunque, e lunga vita a Schäuble.
1) I dati citati nel capitolo sono contenuti nell’articolo Dalla Troika al referendum: i 5 anni della Grecia sull’orlo del default, rainews.it, 5 luglio 2015
2) Cfr. Giovanna Cracco, Europa: le menzogne sul debito pubblico e la costruzione di un nuovo modello di Stato, Paginauno n. 29/2012
3) Sulla prevedibilità di tale conclusione politica cfr. Giovanna Cracco, Europa: l’illusione socialdemocratica di Syriza e Podemos, Paginauno n. 41/2015
4) Vangelis Papavassiliou, Grecia: l’inarrestabile crollo dei salari, www.voxeurop.eu, 19 settembre 2013
5) Helena Smith, Greece’s food crisis: families face going hungry during summer shutdown, The Guardian, 6 agosto 2013
6) Ioanna Zikakou, Four in Ten Greeks live in poverty, greece.greekreporter.com, 29 luglio 2015
7) Dirk Laabs, Why is Germany so tough on Greece? Look back 25 years, The Guardian, 17 luglio 2015
8) “[…] if you act the pure-hearted neoliberal you can still get away with decisions that don’t make perfect economic sense”, Dirk Laabs, art. cit.
9) Giovanna Faggionato, Iwh: «La crisi greca? Berlino ci guadagna 100 mld», lettera43, 10 agosto 2015