di Fabrizio Ungaro
Crowdwork, l’ultima frontiera del capitalismo digitale: l’outsourching di micro-attività: alienazione, ranking, paghe da fame, zero diritti; Amazon Mechanical Turk ma non solo.
“Prima di internet sarebbe stato difficile trovare qualcuno, farlo sedere per dieci minuti e farlo lavorare per te, e licenziarlo dopo quei dieci minuti. Ma con la tecnologia puoi trovarlo, pagar lo quel minimo che gli devi e poi disfarti di lui quando non ti serve più”.
Lukas Biewald, CEO di CrowdFlower
Negli ultimi tempi si è molto parlato di gig economy, soprattutto in relazione all’emersione delle rivendicazioni socio-economiche da parte dei riders, i lavoratori impegnati nelle consegne di cibo nelle nostre città. Ma la cosiddetta ‘economia dei lavoretti’ non si esaurisce qui. È una forma di organizzazione del lavoro che ormai comprende diversi settori e mansioni, tra cui, meno noto, quello che è definito crowdwork.
La prestazione lavorativa del crowdwork è essenzialmente una micro-attività svolta attraverso delle piattaforme digitali. Viene associata alla parola crowd (folla), poiché la platea di lavoratori a cui si rivolge è potenzialmente illimitata in quanto, basandosi unicamente sulla connessione internet presente tra committente, piattaforma e lavoratore, non vi sono barriere geografiche. È fondamentale, dunque, la dimensione globale del lavoro; in contrasto con quella locale presente invece negli altri ambiti della gig economy come è per un fattorino di Deliveroo o un tassista di Uber.
È definito anche crowdsourcing, termine che unisce le parole crowd e outsourcing (esternalizzazione), trattandosi infatti di mansioni che l’azienda ha convenienza a esternalizzare per abbattere il costo del lavoro, pagando a cottimo e senza stipulare un contratto di lavoro stabile.
Il crowdwork consta essenzialmente di piccole attività, ripetitive e monotone – unicamente digitali, dunque per poterle svolgere serve un dispositivo elettronico – che vanno dal taggare nel modo richiesto delle foto (selezionare la categoria che meglio descrive il contenuto) alla trascrizione di file audio, da brevi traduzioni alla compilazione di sondaggi e questionari, dal rilevare contenuti o-sceni ad altre mansioni che rendono le nostre esperienze online più semplici e organizzate.
I compiti sono frazionati in singole micro-attività: per esempio ogni foto classificata equivale a una committenza, ed è la classificazione di tutte le foto richieste a costituire il lavoro completo. Siamo di fronte all’alienazione pura. Più persone possono svolgere una piccola componente della commissione immessa nella piattaforma di crowdsourcing, parti che sembrano sconnesse fra loro, e quindi la singola persona che svolge il micro-task non può riconoscere l’apporto della propria attività nella creazione del contenuto.
Come tutti i lavori che ruotano intorno alla gig economy, anche nel crowdsourcing il ranking, la reputazione che il lavoratore si crea all’interno delle piattaforme, è fondamentale per poter continuare a lavorare. La costante valutazione fa sì che il tempo di vita improduttivo venga eliminato, in quanto è fondamentale finire il prima possibile il task per non essere valutati negativamente, come ben analizzato da Jeremias Prassl e Martin Risak nell’articolo sulla rivista Comparative Labor Law and Policy Journal (1) – è la logica del cottimo, se poi aggiungiamo che le piattaforme sono geograficamente globali, quindi attive a diversi fusi orari, si comprende quanto il tempo lavorativo diventi h24.
Un meccanismo che innescando una feroce competizione tra lavoratori genera alta qualità nei compiti svolti mantenendo bassi i salari. È una competizione al ribasso, come tutta la competizione odierna nel mondo del lavoro. Una volta raggiunto un buon ranking, poi, diviene difficile abbandonare il portale per un altro, poiché la reputazione ottenuta e faticata non può essere trasferita in nessun’altra piattaforma di crowdwork.
Niente a che vedere, insomma, con l’idea del lavoratore autonomo, del freelance, dell’imprenditore di se stesso che si vuole propagandare, nonché con l’idea che questi portali siano solo piattaforme di matching tra domanda e offerta, quando in realtà stabiliscono nei fatti le regole che le persone devono seguire se vogliono continuare a lavorare. Non a caso si parla di neo-taylorismo: attraverso le norme della piattaforma e l’osservazione incessante tramite terzi (ranking e valutazioni) vi è difatti un controllo sull’operato dei lavoratori affinché si allineino alle linee guide delle varie aziende. Non c’è nulla di nuovo, purtroppo, se non gli strumenti coi quali si condizionano i lavoratori.
Amazon Mechanical Turk
Amazon Mechanical Turk (espresso anche come AMT o MTurk) è una delle principali piattaforme, se non la prima, di crowdsourcing. Nata nel 2005, fa capo al colosso digitale Amazon, e a oggi conta più di 500.000 lavoratori, anche se ricercatori e committenti stimano intorno a 50.000 quelli effettivamente attivi e non solo iscritti al portale (2).
La piattaforma nasce inizialmente come componente interna della stessa azienda. Per poter gestire meglio il sito di e-commerce eliminando i doppioni esistenti delle schede prodotto, la società crea una struttura in cui i lavoratori dipendenti possono eseguire i nuovi task per migliorare il sito dell’impresa. Poco dopo Besoz (fondatore, proprietario della quota di controllo, presidente e amministratore delegato dell’impresa) comprende che quel sistema può essere reso autonomo e sfruttato diversamente e lo apre al pubblico, rendendo Amazon, come scrive poi nelle regole di utilizzo, una mera piattaforma che mette in relazione le parti, committenti di lavori e lavoratori, senza entrare nel dettaglio delle transazioni. Se ne tira fuori, insomma, anche se trattiene il 10% co-me commissione e gestisce sia il software che il funzionamento dei rating; due aspetti, soprattutto quello del rating, che pongono Amazon, di fatto, dentro le relazioni di lavoro tra committenti e lavoratori.
La piattaforma online si basa su tre elementi: il requester, l’HIT e il turker. Il primo è l’azienda o il committente che domanda lavoro; il secondo è lo Human Intelligence Task, ovvero l’attività che il requester vuole che sia svolta; l’ultimo è il lavoratore che andrà a svolgere l’HIT richiesto. Il committente inserisce nella piattaforma i micro-task e i vari lavoratori-folla andranno a eseguirlo.
Il portale prende il nome dal Turco Meccanico, una finta macchina creata alla fine del Settecento da Wolfgang von Kempelen: l’obiettivo era far credere che un automa fosse in grado di giocare a scacchi, mentre sotto l’apparecchio si celava un essere umano che lo manovrava grazie a dei magneti.
Il lavoro umano era nascosto, si vedeva solo il risultato. Il fatto che l’esecuzione operata dalla macchina fosse in realtà merito dell’uomo è alla base della piattaforma di Amazon: le mansioni che i lavoratori svolgono sono infatti camuffate come fossero attività automatiche merito della tecnologia e degli algoritmi. Non a caso lo slogan di Bezos per la piattaforma è “Artificial artificial intelligence”, e lo si legge sia nella pagina AMT che nella presentazione del portale.
A partire dall’interfaccia del sito e dalle conferenze dove ne spiega il funzionamento, l’azienda deliberatamente inserisce i lavoratori nel meccanismo dell’algoritmo. Lo stesso Bezos li definisce “humans-as-service”, andando a delineare e legittimare la mercificazione del lavoro; la componente umana viene azzerata. Dietro questa narrazione c’è (anche) un interesse preciso: “Gli investitori stimano più vantaggiose le compagnie che si occupano di tecnologia rispetto a quelle che si occupano di lavoro, dal momento che si ritiene che le prime richiedano un investimento iniziale maggiore ma, a differenza delle seconde, permettano di incrementare i profitti senza aumentare le spese. Per questo motivo nascondere il lavoro umano è l’elemento chiave grazie al quale queste start-up vengono considerate dagli investitori e, conseguentemente, costituisce la chiave per la speculazione imprenditoriale” (3).
Per accedere al portale bisogna registrarsi, dopodiché si riceve un identificativo alfanumerico per iniziare a lavorare. In questo modo il lavoratore è anonimo, in quanto i dati inseriti sono a sua libera scelta, non c’è alcun controllo sulla sua identità; caratteristica che già lo rende invisibile. In aggiunta, come riprende Wahal dal lavoro di Starr e Strauss, “i lavoratori che operano in AMT sono invisibili dal momento che «i prodotti del lavoro sono beni acquistati a distanza rispetto al luogo di lavoro. Sia il lavoro che i lavoratori sono invisibili agli occhi dei consumatori, che tuttavia contribuiscono passivamente a perpetuarne l’invisibilità»”.
Un’altra nota dolente di AMT è la facoltà riconosciuta al requester di rifiutare il task svolto, senza dover dare alcuna spiegazione, e di conseguenza non pagarlo. Anche respingendolo può comunque trattenerlo, e quindi è facile comprendere come sia conveniente e possibile non remunerare il turker anche per un lavoro fatto bene.
La questione del rifiuto non finisce qui, perché accumulatene diversi ne va della reputazione del lavoratore. Il punteggio si abbassa e viene escluso da potenziali altri micro-task che richiedono un ranking di un certo livello, e questo non a causa di un compito svolto male ma della volontà del committente di non pagare il lavoro. Qualunque cosa può portarlo a tale scelta, anche una esecuzione mediocre, ma non è dato saperlo: il lavoratore è alla mercé del requester.
Inoltre, un susseguirsi di rifiuti può far sì che Amazon chiuda l’account del turker a suo insindacabile giudizio. Si è fuori dalla piattaforma. Inutile dire che essendo considerati freelance, non esiste alcun tipo di tutela: nessun salario minimo, nessun contratto nazionale, nessuna assicurazione, nessuna protezione sui licenziamenti. E considerando che geograficamente la platea dei lavoratori è globale e che la piattaforma non permette loro di conoscersi né di comunicare direttamente, è ovvio che molto difficilmente può nascere un’organizzazione collettiva che rivendichi dei diritti, per non parlare del sindacato, nemmeno preso in considerazione.
Ma tutto questo, per quanti soldi? Il micro-task vale, di solito, pochi centesimi. Il 25% paga intorno a 0,01 dollari, il 70% 0,05 dollari o meno, e il 90% è sotto i 0,10 dollari. In media un turker guadagna 2 dollari l’ora (4). Una paga che definire da fame è un eufemismo. I lavoratori di AMT sono situati principalmente in due Paesi, Stati Uniti e India. Lo si spiega per un fattore eminentemente pratico, ovvero i pagamenti avvengono in dollari statunitensi o in rupie. L’alternativa sono gift card di Amazon (!), carte regalo su cui vengono registrati i pagamenti ricevuti dal turker e che possono essere utilizzate unicamente nel negozio virtuale di Amazon. Di fatto lavori per poter comprare su Amazon, nella soddisfazione di Besoz che così guadagna non solo con il 10% della commissione ma anche con la vendita al turker/cliente di un prodotto – senza contare la fidelizzazione al portale per i propri acquisti che viene innescata.
Qualcosa però si sta muovendo. Ad avvantaggiare l’esperienza dei lavoratori è nata la piattaforma Turkopticon della ricercatrice Lily Irani. Tecnicamente è un’estensione dei browser web Chrome e Firefox che permette la valutazione dei committenti. Il nome ideato dalla studiosa riprende il panopticon di Bentham, la prigione nella quale, per la sua stessa architettura, i prigionieri sono portati ad autodisciplinarsi. Un concetto simile sta dietro l’idea di Turkopticon: la sorveglianza attiva dei turker sui requester – chi paga e chi no, correttezza, prontezza ecc. – in una sorta di rating a loro applicato e visibile a tutti i lavoratori, consente a questi ultimi di difendersi, non accettando task da ‘datori di lavoro’ dalla pessima reputazione, e, in teoria, ciò dovrebbe spingere i requester ad autodisciplinarsi.
Questa nuove dinamiche permettono di uscire dalla scatola chiusa della piattaforma di Amazon, dando ai turker l’opportunità di confrontarsi e coordinarsi per reagire collettivamente allo sfruttamento scritto negli stessi meccanismi della piattaforma. Per funzionare tuttavia, ed essere vantaggioso, Turkopticon necessita di massa critica (5).
Per quanto non raffiguri ancora la maggioranza dei lavori, il crowdwork rappresenta la direzione che si vuole e si può prendere nelle relazioni di lavoro. È innanzitutto necessario uscire dalla retorica dell’imprenditore di se stesso e della flessibilità come panacea a tutti i mali per poter riconoscere e definire questo fenomeno per quello che effettivamente è: una nuova forma di sfruttamento del lavoro da parte del capitale (tecnologico). Partendo da questa considerazione si può riflettere su come agire affinché tale dinamica non diventi sempre più preponderante, e per invertire la rotta nel processo di indebolimento dei lavoratori.
1) Jeremias Prassl e Martin Risak. Uber, Taskrabbit, & Co: Platforms as Employers? Rethinking the Legal Analysis of Crowdwork, su Comparative Labor Law & Policy Journal, Forthcoming; Oxford Legal Studies Research Paper No. 8/2016, 16 febbraio 2016. Disponibile su https://ssrn.com/abstract=2733003
2) Dati presi da http://techlist.com/mturk/global-mturk-worker-map.php
3) Elinor Wahal, Invisibilità e invisibilizzazione dei crowdworker, Nuvole.it, 8 giugno 2018
4) Dati presi dal lavoro di Birgitta Bergvall-Kåreborn e Debra Howcroft del 2014, Amazon Mechanical Turk and the commodification of labour, su New Technology, Work and Employment
5) Con massa critica si intende quel numero minimo di persone con cui il servizio può funzionare a pieno regime. Nel caso specifico, Turkopticon ha senso quando ci sono abbastanza turker che recensiscono tutti i committenti