Recensione del film Official Secrets di Gavin Hood (2019)
Iraq, 20 marzo 2003. Hanno inizio le prime fasi del conflitto bellico che avrebbe portato alla destituzione di Saddam Hussein, giustiziato a Baghdad il 30 dicembre 2006 a seguito di una sentenza di morte pronunciata da un tribunale speciale per crimini contro l’umanità. Una guerra che avrebbe dovuto essere ‘lampo’, stando alla gigantesca macchina propagandistica messa in moto per giustificarla, e che sarebbe durata, invece, più di otto anni, con il termine ufficiale dichiarato il 18 dicembre 2011. Alla fine, il bilancio sarebbe stato di centinaia di migliaia di morti, non solo tra i militari, ma soprattutto tra la popolazione civile irachena, nonché 4.800 vittime all’incirca tra i soldati appartenenti alla coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti – composta, oltre ai suddetti, da Regno Unito, Australia e Polonia, già attivi durante l’invasione, e da più di quaranta Paesi intervenuti nelle fasi successive del conflitto (1). Si compiva così l’ultimo capitolo di una lunga storia, iniziata negli anni Ottanta, quando i rapporti tra Saddam Hussein e gli Stati Uniti, i Paesi occidentali e le monarchie arabe del Golfo Persico furono sostanzialmente buoni, nonostante l’Iraq appartenesse all’area di influenza sovietica. E questo perché il partito Ba’th (2), al quale Saddam apparteneva, veniva considerato un baluardo contro l’Iran guidato dall’ayatollah Khomeyni in seguito alla rivoluzione del 1979. Non per niente, proprio con questo Paese, l’Iraq fu in guerra tra il 1980 e il 1988, ricevendo armi, consigli militari e informazioni geografiche dagli Stati Uniti; i quali, tuttavia, perseguivano nell’ombra una strategia di logoramento nei confronti di entrambe le potenze, con lo scopo di fiaccare sia la politica islamista dell’Iran che quella ‘socialisteggiante’ e panaraba e dell’Iraq. A tal proposito, lo scandalo Iran-Contras del 1985-86 fu rivelatore di un vendita d’armi degli yankee all’Iran, ufficialmente sottoposto a embargo da parte degli Stati Uniti.
Il conflitto si risolse con l’accettazione da parte delle due potenze – ormai allo stremo – di una risoluzione dell’Onu che prevedeva il ‘cessate il fuoco’ da entrambe le parti. Questo, tuttavia, non garantì all’Iran il ritorno dei territori occupati dall’Iraq; il che avvenne solo nel dicembre del 1990, quando Saddam Hussein, nel contesto della Prima guerra del Golfo, volle sottrarsi al pericolo di doversi misurare con un secondo fronte aperto dall’Iran. Il 2 agosto di quell’anno, infatti, l’Iraq aveva invaso il Kuwait, rivendicando l’appartenenza di quest’ultimo alla comunità nazionale irachena sulla scorta del comune passato ottomano e di una sostanziale identità etnica. Tuttavia, un’ulteriore motivazione può ricercarsi proprio nel comportamento ambiguo tenuto dagli Usa nella guerra Iran-Iraq. Attaccando il Kuwait, Paese ‘amico’ degli Stati Uniti, Saddam Hussein intendeva dare una prova di forza al potere a stelle e strisce, ponendosi pericolosamente vicino ai campi petroliferi dell’Arabia Saudita, con particolare riferimento a quello di Hana.
Dopo aver ignorato l’ultimatum dell’Onu secondo cui l’Iraq avrebbe dovuto ritirare le sue truppe dal Kuwait entro il 17 gennaio 1991, Saddam Hussein si trovò ad affrontare una coalizione di più di trenta Paesi (3), capeggiati dagli Usa. Il 28 febbraio del 1991 la guerra fu dichiarata conclusa con la sconfitta dell’Iraq e la restituzione al Kuwait dei suoi territori. A Saddam Hussein, tuttavia, fu permesso di restare in carica in quanto, più che la minaccia rappresentata da quest’ultimo, gli Stati Uniti temevano la situazione che avrebbe potuto crearsi in Iraq con un vuoto di potere. Bush senior optò allora per una politica di contenimento che prevedesse lo smantellamento delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein, pressioni militari per mezzo della costruzione di basi Usa nei Paesi vicini, nonché l’istituzione di no-fly zone, e sanzioni economiche che avevano lo scopo di rendere impopolare il regime e ostacolarne il riarmo. Tale politica fu mantenuta, in seguito, da Clinton, ma fu oggetto di lievi modifiche nel 1996, quando le condizioni miserevoli in cui vessava la popolazione civile spinsero l’Onu a introdurre il programma Oil for Food, che permetteva all’Iraq di vendere piccole quantità di petrolio in cambio di generi di prima necessità; e nel 1998, anno in cui Saddam Hussein fece sospendere l’attività degli ispettori Onu in quanto accusati di spionaggio a favore degli Usa.
Arriviamo così alla fine degli anni Novanta, periodo che vide negli Stati Uniti l’affermazione sempre più massiccia del pensiero neoconservatore. In particolare, nel 1997 venne fondato da Dick Cheney e Donald Rumsfeld un istituto denominato “Progetto per un nuovo secolo americano” che nel 2000 pubblicò un documento dal titolo Ricostruire le difese dell’America, in cui, tra le altre cose, veniva ribadita l’importanza di migliorare la pianificazione e lo spiegamento militare in Iraq. La motivazione trascendeva la problematica relativa al regime di Saddam Hussein, ponendo, invece, l’accento sugli interessi geopolitici degli Stati Uniti nell’area del Golfo Persico.
I fatti sanguinosi dell’11 settembre 2001 diedero a Bush junior il pretesto per la guerra contro l’Afghanistan, ancora in corso, dopo quasi vent’anni. Ma non per questo l’establishment americano si era dimenticato di Saddam Hussein. Nel 2002 Bush pronunciò un discorso in cui veniva definito il famigerato ‘asse del male’ composto da Iran, Corea del Nord e ovviamente Iraq. Era il periodo in cui all’interno dei mass media continuavano a echeggiare termini come guerra al terrorismo, guerra preventiva, dottrina Wolfowitz: gli Usa non avrebbero atteso gli attacchi nemici, ma sarebbero stati i primi a spiegare la propria potenza militare per prevenirli.
C’erano, però, degli ostacoli all’invasione dell’Iraq tanto agognata da Bush. Saddam Hussein doveva aver capito che aria tirava, poiché, non appena il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò all’unanimità la risoluzione 1441 dell’8 novembre 2002, secondo cui si offriva all’Iraq un’ultima possibilità per adempiere a propri obblighi di disarmo, lui colse la palla al balzo, permettendo il ritorno degli ispettori. I capi di questi ultimi, Hans Blix e Muḥammad al-Barādeʿī, fornirono diversi rapporti in base ai quali era davvero difficile sostenere il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. Cionondimeno, il Segretario di Stato degli Usa Colin Powell tentò in tutti i modi di convincere il Consiglio di Sicurezza dell’Onu in tal senso. Tristemente famoso è il suo discorso del 5 febbraio 2003, quando sventolò davanti ai delegati delle Nazioni Unite una fiala contenente della polvere bianca: antrace, a suo dire, un veleno che, stando alle informazioni fornite da un dissidente iracheno, poi rivelatesi infondate, poteva essere prodotto in grandi quantità nei laboratori di Saddam Hussein. In seguito, nel febbraio 2005, Powell definì tale discorso una macchia sulla sua carriera. Ma ormai la frittata era fatta.
E comunque non fu solo agitando lo spauracchio delle armi di distruzione di massa che gli Stati Uniti tentarono – senza successo: l’attacco fu, infatti, una decisione arbitraria, priva della cosiddetta ‘maggioranza morale’ in seno alle Nazioni Uniti – di ottenere l’avvallo dell’Onu per la campagna irachena. A tal proposito, fu rivelatore il caso portato alla luce da Katharine Gun, un’analista del GCHQ (Government Communications Headquarter), l’agenzia britannica con sede a Cheltenham che si occupa di sicurezza, spionaggio e controspionaggio nell’ambito delle comunicazioni, attività nota in gergo tecnico come SIGINT. Correndo il rischio di essere accusata di tradimento in virtù della legge sul segreto di Stato, la donna riuscì a far trapelare un’email con cui l’NSA (National Security Agency), organismo del Dipartimento di sicurezza degli Stati Uniti, chiedeva al CGHQ di spiare alcuni delegati dell’Onu – più precisamente quelli di Angola, Camerun, Cile, Bulgaria, Guinea e Pakistan – per ottenere informazioni che servissero a ricattarli in modo da influenzare il loro voto sulla guerra in Iraq al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E proprio su tale vicenda verte il film Official Secrets – Segreto di Stato (2019) di Gavin Hood.
Fin dall’inizio – siamo nel gennaio 2003 – Katharine (Keira Knightley) si mostra scettica riguardo alla guerra in Iraq e alla politica di sostegno agli Stati Uniti portata avanti dall’allora primo ministro britannico Tony Blair. In particolare, un discorso di Bush alla tivù scatena la sua rabbia: “Ma dai!” sbotta, rivolta al marito Yasar (Adam Bakri). “Non ci sono legami credibili tra Saddam e Al Qaeda. Sì, Saddam è un dittatore… Ma non è un fanatico religioso. Perché dovrebbe aiutare Al Qaeda per poi vedersela rivoltare contro? Non ha il minimo senso”. Sicché il lavoro di Hood mostra subito una differenza con quello – per altri aspetti estremamente affine – di Oliver Stone su Snowden, il whistleblower dell’NSA di cui avevamo già parlato in precedenza su queste pagine (4). Qui la trama è incentrata principalmente sul percorso di coscienza che nel 2013 portò l’ex spia americana a denunciare al mondo intero la colossale raccolta dati organizzata illegalmente dall’NSA nei confronti di milioni di persone. All’inizio, tuttavia, la sua fiducia nel sistema era pressoché totale. Katharine, invece, è già dotata di uno sguardo critico nel momento in cui le capita sotto gli occhi l’email sopracitata – e i dubbi se farla filtrare o meno dipendono quasi esclusivamente dai pericoli a cui questo la esporrebbe. Hood ricostruisce, dunque, la vicenda, concentrandosi sostanzialmente su due filoni narrativi: quello relativo a Martin Bright (Matt Smith), il giornalista dell’Observer che per primo si interessò alla storia; e una seconda parte inerente alla battaglia legale condotta da Katharine insieme agli avvocati Ben Emmerson (Ralph Fiennes), Shami Chakrabati (Indira Varma) e James Welch (John Effernan) dello studio Liberty per evitare di essere condannata per violazione del segreto di Stato. Ma andiamo per ordine…
Non appena una versione stampata dell’email giunge nelle mani di Martin – dopo essere passata per quelle di Jasmine (MyAnna Buring), ex collega di Katharine divenuta, nel frattempo, sostenitrice del movimento pacifista, e di Yvonne Ridely (Hattie Morahan), giornalista schierata contro la guerra in Iraq – si pone il problema di dimostrarne l’autenticità. Martin, insieme al collega Peter Beaumont (Matthew Hoode), contatta allora Paul Beaver (Will Barton), consulente dell’International Security, il quale sostiene che, stando al gergo tecnico utilizzato nel testo, il documento non mostra evidenti segni di falsificazione. Ma perché sia considerato valido manca ancora la conferma dell’esistenza effettiva del suo mittente, Frank Koza, capo del personale interno presso la divisione Obiettivi Regionali dell’NSA. Senonché ottenere tale risultato si rivela più difficile del previsto in quanto l’ufficio stampa della National Security Agency informa Martin al telefono che non può rivelare l’identità delle persone coinvolte nella struttura. Peter tenta allora con una sua fonte dell’MI-6 – l’agenzia britannica di spionaggio per l’estero – la quale non conferma né nega il contenuto delle domande del giornalista. Ma la scena è interessante soprattutto per il riferimento al dissidente iracheno che ha fornito informazioni false a Colin Powell. “Non è un nostro prodotto,” sostiene l’agente dell’MI-6. Al che Peter risponde: “È un prodotto di chi allora?”
È Ed Vulliamy (Rhys Ifans) – un altro giornalista coinvolto nell’inchiesta, estremamente critico nei confronti degli Stati Uniti e del supporto dato a questi dal governo britannico – a trovare l’informazione chiave inerente all’email. Dopo un viaggio a Washington per incontrare una sua fonte, ex agente della CIA in pensione, viene contattato telefonicamente da uno sconosciuto che gli rivela il numero dell’ufficio interno di Frank Koza. Sicché, dopo averlo chiamato, è proprio quest’ultimo a rispondere affermativamente alla domanda di Ed sulla sua identità.
Ma prima di passare la notizia per il rullo tipografico, ci sono ancora da superare le resistenze di Roger Alton (Conleth Hill) e Kamal Ahmed (Ray Panthaki), rispettivamente direttore e caporedattore della sezione politica dell’Observer. Fino a quel momento, infatti, il giornale si era schierato a favore della guerra in Iraq, tanto da essere accusato da Ed di costituire ormai una succursale dell’ufficio stampa di Tony Blair. E sullo stesso tono è l’obiezione di Martin agli argomenti utilitaristicamente filogovernativi di Kamal: “Da quando questo giornale dà la priorità alle relazioni politiche rispetto al giornalismo investigativo?” Del resto, in una scena precedente Roger gli aveva chiesto esplicitamente un articolo in cui Saddam Hussein venisse paragonato a Milošević: una chiara forzatura, se si considera il differente contesto storico, geografico, politico e culturale in cui governarono i due capi di Stato. Ma tali osservazioni di Martin sono presto liquidate da Roger: “Dammi quattrocento parole che il lettore medio capisca: Milošević cattivo, Saddam pure. Scrivi questo cazzo di articolo e piantala di pensarci”. Un piccolo saggio sulla superficialità e la malafede che regolano la vita nelle redazioni dei maggiori quotidiani, con la stampa ridotta a una mera ancella del potere, laddove idealmente dovrebbe svolgere la funzione di watchdog. Per usare le parole di Joseph Pulitzer: “Una stampa cinica e mercenaria, prima o poi, creerà un pubblico ignobile”.
Tuttavia, Roger non è immune alla sensazione di aver trovato uno scoop. Sicché si dichiara favorevole alla pubblicazione della notizia, con grande disappunto di Kamal. Vittoria presto mitigata dalla scoperta di un errore grossolano sull’articolo appena uscito – dovuto alla svista di un’impiegata dell’Observer, la quale aveva passato il testo al correttore ortografico, dimodoché certi termini scritti nell’email alla maniera americana si presentano riconvertiti a quella inglese: favorable diventa favourable, emphasise prende il posto di emphasize, recognise si sostituisce a recognize. Il che offre un facile appiglio a chiunque voglia contestare l’autenticità del documento. Perciò Katharine si decide a confessare all’agente incaricato di svolgere indagini interne al CGHQ, provando così che l’email non è falsa.
Tuttavia, il movente di tale scelta può essere ricercato anche nel rapporto che lega Katharine ai suoi colleghi di lavoro, come dimostra un’accesa discussione che la donna ha con Yasar in seguito all’uscita dell’articolo il 2 marzo 2003. Il marito vorrebbe convincerla a tenere un basso profilo in attesa che le acque si calmino. Al che Katharine risponde: “Stanno interrogando tutti a lavoro, stanno interrogando i miei amici, chiedono alle persone di fare un nome. Ci sarà un punto interrogativo sul fascicolo di cento persone per colpa mia. Devo dimostrare che è vero. Tutti a lavoro sanno che quello che ci ha chiesto di fare l’NSA è illegale”. E, se Yasar è convinto che a nessuno interessi, Katharine sostiene che per lei è importante – e tanto basta. Un tema presente anche in Snowden, quello della responsabilità individuale, che nel film di Oliver Stone si concretizza in un discorso sui processi di Norimberga pronunciato dall’ex agente dell’NSA di fronte ad alcuni suoi colleghi. Se è vero che nel primo vennero impiccati soltanto i capi nazisti, nel secondo a essere condannati a morte furono giudici, poliziotti, medici, avvocati, guardie ecc. “Persone normali che facevano il loro lavoro eseguendo gli ordini” precisa Snowden. “Da qui i principî di Norimberga che l’Onu ha fatto diventare legge internazionale, nel caso che lavori ordinari diventino criminali di nuovo” (5). Parole che da sole basterebbero a confutare la posizione di Yasar nel momento in cui sostiene: “Io lavoro in un caffè e ho accettato quel lavoro perché mi serviva, ma è soltanto un lavoro. Tu hai fatto lo stesso, ricordi? Quando hai visto l’annuncio, hai detto che non sapevi nemmeno che lavoro fosse. È semplicemente un lavoro. Puoi trovarne un altro quando vuoi”.
Del resto, anche la preoccupazione di Katharine riguardo ai suoi colleghi trova echi nella vicenda di Snowden, il quale, al momento di sottrarre i documenti compromettenti dai server dell’NSA, aveva lasciato una traccia elettronica in grado di identificarlo proprio per evitare che altri venissero coinvolti nelle indagini. Non per niente, Katharine decide definitivamente di confessare quando vede una sua amica – a sua volta impiegata nel GCHQ – essere chiamata per un secondo interrogatorio con l’agente incaricato delle indagini interne. E sarà proprio tale personaggio a dichiararle, in seguito, quanto l’ammiri e sia, al contempo, angosciata per lei. “Ehi, non hai fatto niente di sbagliato,” le dice Katharine nel tentativo di consolarla. “Sì, ma non ho fatto nemmeno niente di giusto,” replica l’altra. Scambio di battute connesso, ancora una volta, al tema della responsabilità, declinato in una logica contraria a quella della mela marcia, secondo cui è la corruzione del singolo individuo a mettere a repentaglio la bontà del ‘sistema’ – altrimenti assodata. Qui, semmai, è vero l’opposto; e il GCHQ appare esattamente come quello che è, ovvero l’emanazione di un potere arbitrario che si nasconde dietro la facciata dell’etica ufficiale, al cui interno, tuttavia, permangono soggetti potenzialmente in grado di opporsi in virtù della propria coscienza.
Dopo la confessione, Katharine viene arrestata e condotta in cella per un interrogatorio preliminare, affiancata da un avvocato d’ufficio. Fa così la conoscenza di Tin Tin (Peter Guinness), un detective di Scotland Yard che, tra le altre cose, la stuzzica riguardo al marito Yasar: turco di etnia curda, ma soprattutto musulmano. Quel che Tin Tin sembra suggerire – nemmeno troppo velatamente – è che sia stato Yasar a istigare Katharine a far trapelare l’email. Peccato che un’ipotesi del genere sia totalmente campata per aria. Come spiega la stessa Katharine: “[…] considerato quello che Saddam Hussein è riuscito a fare al popolo curdo, sterminando oltre 180.000 persone con l’uso delle armi chimiche, io le assicuro che mio marito non ha nessuna simpatia di nessunissimo tipo per l’Iraq e per Saddam”. Il riferimento è ancora alla guerra tra Iran e Iraq, nel contesto della quale Saddam Hussein organizzò delle azioni di rappresaglia nei confronti dei curdi iracheni, accusati di non aver frapposto sufficiente resistenza all’esercito iraniano. In particolare, il 16 marzo 1988, la città di Halabja venne attaccata con gas al cianuro, provocando la morte di 5.000 persone. Ma si ricordi che all’epoca gli Stati Uniti supportavano ufficialmente l’Iraq, perciò bisogna attendere tra il 2007 e il 2008, prima che alcuni elementi di spicco del regime di Saddam Hussein – all’epoca già impiccato – vengano processati per crimini contro l’umanità sulla base di tali fatti.
Tornando al film, è interessante notare come, ogniqualvolta si verifichi una fuga di informazioni, il ‘sistema’ punti innanzitutto a screditare il whistleblower sul piano pubblico e privato. Era successo anche a Snowden, quando alcune voci si erano levate – pur senza uno straccio di prova a riguardo – ad affermare che di certo non poteva aver agito da solo, ma doveva esserci dietro lo zampino di Mosca o Pechino; e ancora prima a Chelsea Manning, nata Bradley Manning – la fonte di Assange sui massacri di civili e sulle torture perpetrate dall’esercito americano in Iraq – al cui cambio di sesso molti si appellarono come se ciò costituisse una prova della sua instabilità psicologica e servisse a minimizzare l’importanza, se non addirittura a mettere in dubbio l’autenticità, dei documenti pubblicati su WikiLeaks. Montata la gogna, si passa a ulteriori pratiche finalizzate al logoramento dell’interessato.
Dopo che Katharine viene liberata, ancora senza un’accusa ufficiale nei suoi confronti, si reca allo studio Liberty per organizzare una strategia di difesa nel caso si andasse a processo. Senonché è pedinata e, di lì a poco, riceve a casa una visita di Tin Tin, il quale la informa che sì, può parlare con un avvocato, ma di niente che riguardi il documento del GCHQ. Altrimenti sarebbe un’altra violazione del segreto di Stato, il che porterebbe a un’ulteriore accusa e, dunque, a una pena detentiva più lunga. In seguito, la squadra dello studio Liberty riuscirà ad aggirare tale divieto. Ma ciò che preme considerare qui è come, appellandosi a una lettura quantomeno ambigua del codice penale, si voglia privare Katharine del suo diritto alla difesa. Il che costituisce una chiara intimidazione, a cui l’ex analista del GCHQ risponde a tono: “Detective, io ho fatto trapelare solo una mail. Avevo delle buone ragioni per farlo e intendo rendere quelle ragioni pubbliche, se verrò incriminata. Non vedrò di nuovo i miei avvocati, se non verrò incriminata. Dica questo al GCHQ”.
Tuttavia, è solo questione di tempo perché Katharine venga accusata ufficialmente. Quando ciò avviene – siamo nel novembre del 2003 – Yasar viene arrestato per reato di clandestinità, il che lo rende passibile di rimpatrio in Turchia. E questo nonostante il suo matrimonio con Katharine gli consentirebbe di restare nel Paese per quanto la sua domanda di residenza permanente risulti ancora in sospeso. Non si tratta certo di un errore dell’ufficio immigrazione, ma di una deliberata manovra offensiva nei confronti di Katharine, sventata solo dall’intervento repentino dei suoi avvocati in combinazione con quello di Nigel Jones (Chris Larkin), delegato britannico al Tribunale dell’Aja, i quali riescono a impedire l’espatrio di Yasar (6).
Nel frattempo, Ben, Shami e James dello studio Liberty hanno definito con Katharine la strategia di difesa. Inizialmente Shami proponeva di appellarsi al pubblico interesse in quanto la popolazione ha diritto di sapere se il governo mente. Tuttavia, Ben le ricorda la guerra delle Falkland, combattuta tra Regno Unito e Argentina dal 2 aprile 1982 al 14 giugno dello stesso anno, e, in particolare, il caso della nave General Belgrano, affondata il 2 maggio da un sottomarino nucleare della Royal Navy, nonostante si trovasse al di fuori della zona di interdizione dichiarata dai britannici. Successivamente alcuni dettagli dell’operazione vennero fatti filtrare da Clive Ponting, un impiegato governativo, al poliziotto militare Tam Dalyell. Sulla base di ciò il primo venne accusato di tradimento. All’epoca, tuttavia, ci si poté appellare, appunto, al pubblico interesse e Ponting venne assolto. Ma nel 1989 la Thatcher fece emanare una legge più stringente sul segreto di Stato, dimodoché da allora, come spiega Ben: “[…] interesse pubblico è qualunque cosa il governo ritenga che lo sia”.
Scartata quell’opzione, sembra non restare altro che dichiararsi colpevoli, sperando nella clemenza del giudice. Il problema apparentemente insormontabile, infatti, è che Katharine ha confessato. Una sintesi della situazione viene illustrata per bocca di James: “Se ti dichiari colpevole non ci sarà una giuria. Potresti tornare libera in meno di sei mesi. Visto come sta andando la guerra, credo che qualunque giudice sarebbe comprensivo”. Tuttavia, questo significherebbe avere dei precedenti sulla fedina penale, ma soprattutto sarebbe un’ammissione implicita che nessuno nell’Intelligence è autorizzato a dire ai britannici se il loro governo sta mentendo. Inoltre, come obietta Katharine: “[…] se mi dite che devo dichiararmi colpevole perché la legge non mi permette alcuna difesa, allora è una presa in giro l’idea stessa di un giusto processo”.
La soluzione, per quanto azzardata, viene da Ben: una difesa per necessità. Il codice penale britannico prevede, infatti, che si possa infrangere la legge in caso di minaccia imminente alla propria o all’altrui vita. Facendo filtrare l’email, Katharine aveva cercato di impedire la guerra – e dunque la morte di migliaia e migliaia di persone. Tuttavia, perché tale strategia abbia successo, bisogna dimostrare che il conflitto in Iraq è illegale. E per farlo è necessario assicurarsi delle pressioni esercitate su Peter Goldsmith, consulente per la giustizia di Tony Blair, da parte degli americani per favorire l’intervento militare britannico. Il che avviene grazie all’azione incrociata di Ben, il quale si reca da Elizabeth Wilmshurst (Tamsin Greig), vice consigliere giuridico di Goldsmith, a domandarle il motivo delle sue dimissioni da tale incarico all’indomani delle dichiarazioni del suo superiore favorevoli alla guerra; e quello di Roger per sapere chi Goldsmith avesse incontrato in occasione di un viaggio a Washington risalente all’11 febbraio 2003, ovvero gli avvocati di George W. Bush, Colin Powell, Donald Rumsfeld e Condoleezza Rice. Ciò che emerge è che, prima di tale avvenimento, Goldsmith era convinto dell’illegalità della guerra in Iraq, come proverebbe un documento consultivo dettagliato su cui Elizabeth si dichiara disposta a testimoniare.
La situazione che si viene a creare è, dunque, esplosiva. Il processo non riguarda più solo Katharine e il GCHQ, ma anche il conflitto in Iraq e, con questo, il governo britannico, potenzialmente imputabile per crimini di guerra. Motivo per cui l’accusa decide di non procedere, ma solo in occasione della prima udienza del 25 febbraio 2004, dopo un anno trascorso da Katharine nell’incertezza e nell’angoscia.
Perché tanto accanimento da parte dello Stato, se poi tutto doveva concludersi in un nulla di fatto? La risposta a questa domanda viene da Ken McDonald (Jeremy Northam) – capo della Procura della Corona – il quale, discorrendo con Ben, afferma: “I servizi segreti erano intenzionati a fare di lei un esempio. Se avessimo abbandonato il caso prima, che tipo di messaggio avremmo mandato?”
Come in Snowden di Oliver Stone, anche in Official Secrets viene mostrata, in conclusione, la vera protagonista della storia – non più il personaggio interpretato da Keira Knightley, ma il volto reale di Katharine Gun. Un omaggio doveroso a chi ha giocato una partita tanto grossa in nome della verità. Per dirla con Daniel Ellsberg, la gola profonda dei Pentagon Papers, la cui vicenda è raccontata in The Post (2017) di Steven Spielberg: “La divulgazione più coraggiosa che io abbia mai visto. Nessuno ha mai fatto quello che ha fatto lei: rivelare segreti a proprio rischio, prima di una guerra imminente, in tempo, forse, per impedirla”.
La guerra, come abbiamo visto, purtroppo c’è stata e ha avuto un impatto devastante sulla popolazione irachena. Ma se oggi più o meno tutti riconoscono che si è trattata di un’impresa criminale, è anche grazie a persone come Katharine Gun. In un mondo in cui il potere costituito sembra avere assunto le sembianze di un mostro tentacolare – protetto da una corazza inscalfibile – il suo esempio dimostra che è sempre possibile lottare contro di esso anche attraverso la pratica della parresia, ovvero “un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale” (7).
1) Le stime sul numero esatto variano a seconda del grado di coinvolgimento di ogni singolo Paese, da quelli intervenuti militarmente a quanti si sono limitati a offrire appoggio logistico, ad altri ancora il cui impegno è stato sostanzialmente simbolico nei termini di un’adesione politica
2) Il discorso sul Ba’th, il Partito del Risorgimento Arabo Socialista, è estremamente ampio e complesso e non è questa la sede per affrontarlo in maniera esaustiva. Tuttavia, vale la pena ricordare che nel 1966 si scisse in due fazioni: una corrispondente alla sinistra interna, guidata dai siriani; l’altra metà, la destra, capeggiata dagli iracheni. Per questo motivo, la Siria si schierò con l’Iran nel contesto della guerra con l’Iraq del 1980-88
3) Vale qui lo stesso discorso riportato in nota 1)
4) Cfr. Iacopo Adami, Una dittatura chiavi in mano, Paginauno n. 51/2017
5) Ibidem
6) Questo per quanto riguarda il film. La realtà, non meno grave, è che Yasar rischiò il rimpatrio dopo il processo a Katharine. Evidentemente la scelta di anticipare la vicenda è dovuta a questioni cinematografiche. Da un punto di vista narrativo, infatti, avrebbe stonato inserire una nuova conflittualità in seguito al climax nell’aula del tribunale
7) Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Piccola Biblioteca Donzelli