Il Russiagate: gli eventi passo dopo passo e la manovre di un establishment che ha deciso che alla democrazia vada posto un limite
Cosa sta capitando nella nazione più potente del mondo? Le notizie si susseguono, ora dopo ora, talvolta minuto dopo minuto, le versioni si accavallano, le analisi si moltiplicano. Potere esecutivo, potere giudiziario, potere legislativo si scontrano l’uno contro l’altro, in una lotta fratricida che rischia di mettere in empasse la capacità decisionale della grande nave americana, il cui capitano sembra ormai più impegnato a difendersi a colpi di tweet che non a fare il Presidente.
Abituati come siamo al teatrino della politica italiana, fatichiamo a capire la gravità della situazione – poco aiutati dai media di casa, bisogna dirlo. E tuttavia, fattori la cui rilevanza da noi è considerata poco più che marginale, negli Stati Uniti possono causare la disfatta politica di un leader, soprattutto se inviso alla quasi totalità dell’establishment. Dunque, la domanda va posta: quali sono i problemi ‘domestici’ di Donald Trump, e quali scenari futuri si prospettano?
La Russia e le elezioni presidenziali
Secondo un’indagine condotta lo scorso anno dalle agenzie di intelligence americane Cia, Fbi e Nsa su ordine di Obama e resa pubblica all’inizio dello scorso gennaio, il presidente russo Vladimir Putin avrebbe ordinato personalmente attacchi informatici ai danni dei partiti americani, allo scopo di influenzare il risultato delle elezioni del novembre 2016. Inizialmente, secondo l’intelligence, l’obiettivo degli attacchi russi era quello di danneggiare la candidata Democratica Hillary Clinton, ma successivamente è diventato quello di favorire l’elezione del Repubblicano Donald Trump, sia perché in passato il presidente russo ha avuto vita facile con “leader occidentali i cui interessi economici rendevano più disposti a fare accordi con la Russia” (1) – e fra questi è esplicitamente citato l’ex presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi – sia perché, secondo Putin, Trump sarebbe un potenziale alleato per le operazioni contro lo Stato Islamico (2).
Dopo essere stato informato personalmente del contenuto dell’indagine dai rappresentanti delle agenzie di intelligence il 6 gennaio, Trump ha riconosciuto che la Russia ha avuto un ruolo nella violazione dei sistemi informatici del partito Democratico, ma ha insistito sul fatto che l’attacco informatico e le sue conseguenze non hanno avuto effetto sul risultato elettorale: “L’intelligence ha affermato molto chiaramente che non ci sono assolutamente prove che l’attacco abbia influenzato i risultati elettorati. Le macchine per votare (negli Usa si utilizza la votazione elettronica, n.d.a.) non sono state modificate!”, si legge nel tweet presidenziale che commenta la vicenda (3). Tuttavia la Russia di Putin ha effettivamente legami di diverso tipo con alcuni dei più stretti collaboratori di Trump, in particolare Paul Manafort, Michael T. Flynn, Rex Tillerson e Carter Page (vedi Figura pag. 19). Vediamo di capire chi siano questi personaggi.
Paul Manafort ha 67 anni ed è un noto consigliere Repubblicano: nella sua lunga carriera ha lavorato con Gerald Ford, Ronald Reagan e George W. Bush. È stato il capo della campagna elettorale di Trump, ma si è dimesso nell’agosto del 2016 dopo che il New York Times ha rintracciato documenti che dimostravano come fra il 2007 e il 2012 Manafort avesse ricevuto 11,3 milioni di euro in nero dal Partito delle Regioni, il partito dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, considerato molto vicino alla Russia, del quale Manafort è stato consulente per anni (4).
Michael T. Flynn, classe 1958, è invece un ex generale dell’esercito americano, dal 2012 al 2014 a capo della Defense Intelligence Agency (Dia, la principale agenzia militare Usa d’intelligence per l’estero). Nominato da Trump Consigliere per la Sicurezza nazionale il 20 gennaio 2017, è stato licenziato il 13 febbraio, dopo appena ventiquattro giorni (conquistando il non invidiabile primato di aver servito come national security advisor per il periodo più breve della storia), poiché è emerso che aveva ingannato il vicepresidente Mike Pence sulla natura e il contenuto delle sue comunicazioni con l’ambasciatore russo negli Usa, Sergey Kislyak (5). Chiamato a deporre sulla vicenda, si è rifiutato di fornire informazioni (6). Dal 27 aprile 2017 è indagato anche dal Pentagono con l’accusa di aver accettato denaro da Paesi stranieri senza la necessaria autorizzazione (7).
Rex Tillerson, oggi Segretario di Stato (capo del Dipartimento di Stato, che è responsabile degli affari esteri e ha anche la funzione di guardasigilli), è un nome nuovo nella politica americana: fino a dicembre dello scorso anno ricopriva infatti la carica di amministratore delegato della ExxonMobil, una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo. Il problema con Tillerson è un accordo di partnership siglato dalla Exxon con la sua omologa russa Rosneft nel 2012 (poi saltato a causa delle sanzioni contro la Russia decise dall’amministrazione Obama), che gli è valso la prestigiosa onorificenza russa dell’Ordine dell’Amicizia, una medaglia conferita dal governo russo agli stranieri che si sono distinti nel rinsaldare i legami culturali e di cooperazione fra la nazione cui appartengono e la Grande Madre.
Carter Page è stato consigliere della campagna presidenziale di Trump. Lo scorso 22 aprile la CNN ha riportato in esclusiva che l’Fbi ha raccolto informazioni secondo le quali agenti russi hanno cercato di utilizzare consulenti di Trump, fra cui Carter Page, per infiltrarsi nella campagna elettorale (8). Sebbene la stessa Fbi ha ammesso di non sapere se Mr. Page fosse consapevole di essere stato utilizzato dalle spie russe, questa nuova prova dei rapporti a fini elettorali fra l’amministrazione Putin e l’orbita di Trump ha contribuito ad alimentare le polemiche.
Christopher Steele e il dossier degli scandali
Nel 2015 i vertici del partito Repubblicano, preoccupati di un’eventuale vittoria di Trump alle primarie, incaricarono la Fusion GPS, una società basata a Washington e specializzata nell’opposition research – la raccolta di informazioni sugli avversari politici – di investigare sui rapporti d’affari fra Trump e la Russia. Nel giugno 2016, quando era ormai certo che sarebbe stato Trump a correre per le presidenziali, i Democratici sono subentrati ai Repubblicani nel finanziamento delle indagini della Fusion GPS, la quale si è allora rivolta a Christopher Steele, ex agente dell’intelligence britannica, fondatore della Orbis Business Intelligence (altra agenzia di investigazioni con sede a Londra), incaricandolo di completare il dossier. L’ottobre successivo Steele ha confidato a David Corn, giornalista della rivista politica progressista americana Mother Jones, di aver messo a disposizione i risultati delle sue ricerche sia al governo inglese che a quello statunitense, ritenendo che i dati raccolti non dovessero essere utilizzati solo dagli avversari politici di Trump perché, dal suo punto di vista, il tycoon costituiva un problema per la sicurezza nazionale sia del Regno Unito che degli Usa.
Dopo la vittoria di Trump, quando i Democratici smisero di finanziare le ricerche, Steele decise di continuare a indagare a sue spese. Il documento completo è stato diffuso a gennaio da BuzzFeed, e contiene notizie inquietanti, la cui veridicità è tuttavia molto difficile da dimostrare. Secondo il rapporto (9), negli ultimi mesi di campagna elettorale sarebbero stati frequenti i contatti tra il governo russo e alcuni stretti collaboratori di Trump, tra cui il suo avvocato Michael Cohen e il suo consigliere Carter Page. Ma le pagine più celebri del dossier sono quelle che riguardano la vita sessuale di Trump: per esempio il suo desiderio (esaudito) di “dissacrare” insieme a delle prostitute impegnate in una “pioggia dorata” il letto di una camera del Ritz Carlton di Mosca dove avevano dormito Barack e Michelle Obama.
Trump in quell’occasione sarebbe finito in una specie di “trappola” dell’intelligence russa, nota col nome di kompromat, usata per ricattare importanti uomini politici o d’affari per costringerli ad agire nell’interesse del governo russo. Le agenzie di intelligence americane non hanno confermato nessuna delle accuse del dossier, ma hanno preso contatti con alcune delle fonti citate nel documento.
L’indagine dell’Fbi e il licenziamento di Comey
Il 20 marzo scorso James Comey, direttore dell’Fbi, insieme al direttore della Nsa, Adam Michael Rogers, ha confermato per la prima volta al Congresso degli Stati Uniti l’esistenza di un’indagine in corso sulle possibili collusioni fra la campagna presidenziale e i tentativi di Mosca di influenzare il risultato elettorale (10). Comey e Rogers si sono rifiutati di svelare quali membri del team di Trump siano sotto indagine, ma hanno chiarito alcuni punti fondamentali: l’indagine, iniziata nel luglio 2016, è tuttora in corso; le persone al momento indagate sono più di una; non vi sono prove che supportino l’affermazione di Trump di essere stato intercettato dall’amministrazione Obama; l’intervento russo nelle ultime elezioni presidenziali è stato “insolitamente vistoso” (unusually loud), come se a Mosca non importasse di essere smascherata.
Comey – che ha ripetutamente sottolineato la natura insolita delle rivelazioni, perché costituiscono una rottura con la tradizionale pratica dell’Fbi di non parlare mai di indagini ancora in corso – ha dichiarato di essere stato autorizzato dal Dipartimento di Giustizia a rivelare i fatti accertati e che le indagini riguardano anche la possibilità che siano stati compiuti dei reati, cioè degli atti penalmente perseguibili. Il 9 maggio, con una mossa a sorpresa, e senza preventivamente informare il diretto interessato (che lo viene a sapere dalle notizie flash dei network), Donald Trump licenzia James Comey. La decisione viene annunciata dalla Casa Bianca con un set di documenti (un comunicato stampa, una lettera del Presidente, una lettera del Procuratore Generale degli Usa e un memorandum del Dipartimento di Giustizia), in cui si motiva il provvedimento con la necessità di “ricostruire la fiducia nella più importante agenzia di sicurezza del Paese” (11).
In sostanza il Presidente sarebbe arrivato alla conclusione che Comey non è in grado di svolgere in modo efficace il suo incarico, e la prova sarebbe la pessima gestione dell’indagine sulle mail di Hillary Clinton, avvenuta nel pieno della campagna elettorale: dal momento che l’Fbi rappresenta una delle “istituzioni più rispettate” del Paese, secondo il team presidenziale sarebbe necessaria una “nuova era” e una “nuova leadership per riportare fiducia”. Le reazioni non si sono fatte attendere, e mentre un coro bipartisan (a cui hanno partecipato anche il senatore Repubblicano Richard Burr, presidente della Commissione di intelligence del Senato per il Russiagate, e il senatore John McCain, una sorta di leader tra i Repubblicani sulle questioni di politica estera, militari e di intelligence) si sollevava contro la decisione di cacciare all’improvviso il direttore del Bureau, Mr. President twittava furiosamente: “Comey aveva perso la fiducia praticamente di tutti a Washington, sia Repubblicani che Democratici. Quando le cose si calmeranno, mi ringrazieranno!” (12).
Ma le cose non si sono calmate e nessuno se l’è sentita di ringraziarlo. Tutt’altro: secondo l’opinionista della CNN Paul Callan (13), la vera ragione del licenziamento non sarebbe la cattiva gestione dell’affare Clinton, ma le risposte che Comey ha dato al senatore Richard Blumenthal in occasione della sua audizione al Senate Judiciary Committee, in particolare il suo rifiutarsi di escludere che anche il Presidente possa essere indagato nel Russiagate.
Si legge nel verbale dell’audizione al Senato, in uno stralcio pubblicato dalla CNN: “BLUMENTHAL: Fra i nomi di coloro che non sono coinvolti nelle indagini ce n’è qualcuno che può essere rivelato? COMEY: Non mi sento a mio agio nel rispondere, Senatore, perché non voglio rischiare di rivelare i nomi di quelli che sono indagati. BLUMENTHAL: Avete… Avete escluso dalle indagini il Presidente degli Stati Uniti? COMEY: Non… non voglio che la gente interpreti male la mia risposta, non commenterò nessun caso specifico […] BLUMENTHAL: Quindi potenzialmente il Presidente degli Stati Uniti potrebbe essere sotto indagine per le interferenze della Russia nella nostra campagna elettorale, giusto? COMEY: Mi preoccupa solo… non voglio rispondere a questa domanda perché… perché potrebbe dar adito a speculazioni scorrette. Seguiremo le prove, cercheremo di scoprire più informazioni possibili e seguiremo le prove, ovunque esse ci portino”. Evidentemente, chiosa Callan, questo non era ciò che Trump si aspettava dal ‘suo’ direttore dell’Fbi: da qui il licenziamento.
To impeach or not to impeach
Ma, licenziando Comey, il Presidente “ha scherzato col fuoco”: il fuoco dell’impeachment. Già l’8 maggio, il giorno prima dell’allontanamento di Comey, il New Yorker era uscito con un articolo profeticamente intitolato “Come si potrebbe licenziare Trump”, firmato da Ivan Osnos (14), nel quale si afferma che “i detrattori di Trump stanno esplorando attivamente la possibilità di un impeachment o di invocare il 25° emendamento, che prevede la sostituzione del Presidente qualora ne venga dimostrata l’infermità mentale”. Negli Usa l’impeachment, una procedura prevista dal dettato costituzionale, permette l’imputazione formale di funzionari governativi (civili) per i reati di cui sono accusati. La maggior parte dei procedimenti ha riguardato crimini compiuti nell’esercizio di una carica pubblica, ma alcuni funzionari sono stati sottoposti a impeachment e condannati dal Congresso per i reati commessi anche prima di salire in carica.
Normalmente, premette il New Yorker, la possibilità che un Presidente termini in anticipo il mandato è remota: in 228 anni, solo uno ha rassegnato le dimissioni; due sono stati sottoposti a impeachment, ma nessuno di loro è mai stato rimosso dall’incarico; e otto sono morti. Tuttavia, secondo Osnos, niente nel caso di Trump è normale: “Sebbene alcune delle mie fonti ritengano che le leggi e la politica proteggono il Presidente in una misura che i suoi critici sottostimano, altre sostengono che il processo per destituirlo si è già messo in moto. Tutte sono d’accordo nel ritenere che Trump è diverso dai suoi predecessori in un modo che ne aumenta i rischi politici, legali e personali. È il primo Presidente senza nessuna esperienza politica né militare, è il primo proprietario di un impero aziendale, ed è la persona più anziana ad aver assunto la Presidenza”.
Il senatore Democratico Mark Warner, uno dei membri del Congresso che ha il potere di accedere al materiale di indagine sul Russiagate, avrebbe confidato privatamente ad alcuni amici che, a suo parere, le possibilità che Trump non termini il mandato sono due contro una. Per gli alleati di Trump, inoltre, il livello della sua impopolarità è causa di allarme urgente: “Non puoi governare questo Paese con il 40% dei consensi. Proprio non puoi”, ha dichiarato Stephen Moore, senior economist alla Heritage Foundation e consulente di Trump per la campagna elettorale.
“Nessun esponente del partito si farà in quattro per lui se più di metà del Paese non lo approva. Questo, per me, dovrebbe essere un grosso segnale di pericolo”. Ricordiamo che, sebbene le elezioni siano state vinte da Trump, la Clinton ha ottenuto 1,5 milioni di voti più di lui (per effetto del sistema americano basato sui Grandi Elettori, infatti, si può vincere la presidenza anche avendo ottenuto meno voti popolari rispetto al contendente). Ma, ciò detto, un consenso di appena il 40% è il livello più basso mai fatto registrare da un neo-presidente, e l’impopolarità di Trump ha trascinato al ribasso anche i consensi verso il partito Repubblicano, caduti di 7 punti tra gennaio e aprile e ora fermi al 40% (dato del Pew Research Center).
Sfortunatamente per i Repubblicani, un Presidente impopolare è foriero di fiaschi alle elezioni di midterm (che si svolgono a metà del mandato presidenziale per eleggere tutti i membri della Camera dei Rappresentanti e un terzo dei senatori): dal 1946, secondo la Gallup (una celebre società di ricerche statistiche), il partito dei presidenti che potevano contare su un consenso superiore al 50% ha comunque perso, nelle elezioni di midterm, in media 14 seggi; ma nel caso in cui il consenso fosse inferiore al 50%, la media dei seggi persi sale a 36. Steve Schmidt, un celebre consulente del Good Old Party, ha confidato al New Yorker le sue preoccupazioni: “L’ultima volta che i repubblicani hanno perso il controllo della Camera dei Rappresentanti (sotto George W.Bush, n.d.a.), è stato per un mix di incompetenza – Iraq e Katrina – e di corruzione nel governo.
L’amministrazione Trump ha un analogo problema di competenze di base, che si palesa nelle continue menzogne, nella mancanza di affermazioni credibili da parte della Casa Bianca (dal Presidente fino al portavoce), nella mancanza di professionalità con cui si minacciano i membri del Congresso, negli ultimatum, nelle ‘liste dei nemici’ e nel promettere vendetta”. Secondo Osnos, la legge e la storia dicono che il problema più urgente di Trump non è quello di essere spazzato via, ma di essere azzoppato dall’impopolarità e dal discredito: “Trump è appena il quinto Presidente a non aver ottenuto la maggioranza del voto popolare; con l’eccezione di George W.Bush, nessuno di questi è riuscito ad accedere al secondo mandato. […] Vi è la chiara possibilità che Trump non possa far altro che sopravvivere per un singolo mandato, impossibilitato ad agire dalle opposizioni”.
Gli fa eco William Antholis, docente di scienze politiche all’Università della Virginia, che ha dichiarato al New Yorker come Trump non gli ricordi tanto Nixon o Clinton (i due Presidenti sottoposti a impeachment), ma Jimmy Carter, un altro outsider che aveva promesso di ribaltare Washington. Come Trump, poteva contare sulla maggioranza delle due Camere, ma si era alienato le simpatie del Congresso, e, quattro anni dopo, ha lasciato la Casa Bianca senza ottenere nessuno dei risultati cui ambiva: la riforma del welfare, quella fiscale e il raggiungimento dell’indipendenza energetica.
Un maggio fatale
Dal giorno fatidico del licenziamento di Comey, la situazione è degenerata a una velocità impressionante. Il 15 maggio il New York Times (15) ha rivelato che, in un meeting avvenuto la settimana precedente con due alti esponenti del governo russo, il ministro degli Esteri Sergey V. Lavrov e l’ambasciatore negli Usa Sergey I. Kislyak, il Presidente si sarebbe “pavoneggiato” (boasted) con materiale top secret riguardante l’Isis, fornendo dettagli suscettibili di compromettere la sicurezza della fonte, un governo straniero.
Come ha riconosciuto lo stesso NYT, “rivelare contenuti segreti non è illegale: il Presidente ha il potere di de-classificare praticamente tutto, ma dividere le informazioni senza l’autorizzazione esplicita dell’alleato che le ha fornite è una grave violazione dell’etichetta dei servizi segreti e potrebbe compromettere una relazione di intelligence cruciale”. Il giorno dopo, si scopre che le informazioni condivise con i russi erano state fornite da Israele (16), e ciò “aggiunge un potenziale conflitto diplomatico alle domande sul modo in cui la Casa Bianca utilizza il materiale sensibile”. In effetti il più stretto alleato della Russia (cui pertanto potrebbero giungere le informazioni) è l’Iran, e non corre certo buon sangue tra il Paese degli ayatollah e Israele.
Ma la vera bomba della giornata è un’altra: in febbraio, durante un incontro nello studio ovale, Trump avrebbe chiesto a Comey di chiudere l’indagine sul coinvolgimento nel Russiagate di Michael Flynn, l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale federale (“Spero che lei possa lasciar perdere”, sarebbero state le sue esatte parole). Il fatto è stato rivelato dal solito NYT (17), e sarebbe contenuto in un memorandum che l’allora direttore del Bureau aveva scritto immediatamente dopo l’incontro. Il memo fa parte del materiale che l’Fbi ha consegnato all’House Oversight Committee (il principale organo investigativo del Congresso) dopo il licenziamento di Comey, su richiesta di Jason Chaffetz, presidente (Repubblicano) del comitato.
Apriti cielo. Secondo gli osservatori, la richiesta di Trump sarebbe la prova provata che il Presidente ha cercato di influenzare direttamente l’indagine del Dipartimento di Giustizia e dell’Fbi. L’indignazione bipartisan trova subito soddisfazione: il 17 maggio, meno di 24 ore dopo lo scoop, il Dipartimento di Giustizia affida a Robert S. Mueller III, direttore dell’Fbi dal 2001 al 2013 e avvocato dalla reputazione impeccabile, l’incarico di sovraintendere nel ruolo di special counsel all’indagine sui legami fra la campagna elettorale di Trump e il governo russo (18). La decisione sarebbe stata presa da Rod J. Rosenstein, capo del Dipartimento di Giustizia, dopo le pressioni esercitate dai Democratici e da parte dei Repubblicani in seguito alle rivelazioni del Comey’s memo.
La giornata non è ancora finita che il Washington Post fa cadere l’ennesima tegola su Trump: un mese prima che il tycoon conquistasse la candidatura alla corsa presidenziale, uno dei suoi più stretti alleati al Congresso, il leader della maggioranza Repubblicana Kevin McCarthy, in una conversazione privata a Capitol Hill con alcuni colleghi di partito, ha dichiarato di ritenere che Trump ricevesse denaro da Putin (19). La conversazione, avvenuta il 15 giugno 2016, è stata misteriosamente registrata e la sua trascrizione è disponibile sul sito del WP (20): “Ci sono due persone che penso siano pagate da Putin: Rohrabacher e Trump”, afferma McCarthy. Lo speaker della Camera Paul Ryan lo interrompe immediatamente, e fa promettere ai presenti di mantenere la totale segretezza sulla questione.
Il 18 maggio Trump, evidentemente esasperato dagli attacchi, solleva se stesso dall’obbligo di un contegno prudente e dichiara via twitter (21) che quella che è stata scatenata contro di lui è “la più grande caccia alle streghe contro un politico della storia americana”. Che sia vero o no, “caccia alle streghe” non è un’espressione da usarsi a cuor leggero quando c’è un’indagine dell’Fbi in corso, sei il Presidente degli Stati Uniti e tutti non vedono l’ora che tu compia l’ennesimo passo falso.
Come è noto, infatti, non è la prima volta che Trump si lascia andare a commenti ‘costituzionalmente’ pericolosi: è successo per esempio anche il 4 febbraio 2017, quando ha definito un “cosiddetto giudice” (22) James Robart, il magistrato della Corte Federale di Seattle che ha bloccato il Muslim Ban. E Trump, non contento dell’effetto disastroso della dichiarazione, rimbalzata ovviamente in tutto il mondo, dopo qualche ora aggiunge (23): “Con tutti gli illeciti compiuti durante la campagna della Clinton & dall’amministrazione Obama, non è stato mai nominato uno special councel!”, riferendosi alla nomina di Robert Mueller e, come si affrettano a far notare i media, non solo scagliando accuse che sono già state smascherate come false, ma sbagliando anche lo spelling di counsel (poi corretto) nel vortice dell’indignazione.
Il 19 maggio è di nuovo il NYT a far rizzare i capelli all’opinione pubblica, rivelando che Trump, in un incontro nello studio ovale, avrebbe confidato a funzionari del governo russo di aver licenziato Comey “per alleggerire la pressione esercitata su di lui” (24): il Presidente avrebbe affermato, secondo un documento della Casa Bianca, che Comey “era pazzo, davvero fuori di testa” (He was crazy, a real nut job). La CNN, in un articolo quasi umoristico, ricorda tutti gli avversari – politici e non – definiti da Trump nut job, a quanto pare uno dei suoi insulti preferiti: il conduttore televisivo Glenn Beck, il senatore Repubblicano Lindsay Graham (suo avversario alle primarie), il Democratico Bernie Sanders (candidato alla presidenza), e il leader nordcoreano
Kim Jong Un.
Il giorno successivo Trump parte per il viaggio ufficiale che lo porterà in Arabia Saudita, Israele, Città del Vaticano e infine a Taormina per il G7, ma se spera che le questioni di politica estera che dovrà affrontare allontanino l’interesse dei media dalle indagini, dando alla sua amministrazione un po’ di respiro, si sbaglia: proprio il 20 maggio il WP rivela che fra gli indagati per il Russiagate vi sarebbe anche uno fra i più stretti collaboratori di Trump. ll malcapitato, secondo le indiscrezioni pubblicate dal britannico Independent, sarebbe addirittura il marito della First Daughter Ivanka, Jared Kushner, che lo ha accompagnato nel viaggio presidenziale (25). L’articolo afferma che le indagini sarebbero entrate in una fase “più attiva”, destinata ad accelerare ulteriormente, che prevede l’utilizzo di citazioni e l’intervento del grand jury (una particolare giuria chiamata a stabilire se le prove raccolte sono sufficienti per iniziare un processo penale).
Kushner, come Trump, è un milionario senza nessuna esperienza di amministrazione pubblica. Immobiliarista (il suo impero è valutato da Forbes 1,8 miliardi di dollari), possiede decine di migliaia di appartamenti popolari affittati “a quegli americani ‘dimenticati’ che le sue società spremono fino all’ultimo centesimo, come ha rivelato una minuziosa inchiesta del New York Times con nomi e cognomi e sentenze. Nel gergo degli oppressi è uno slumlord, un signore delle topaie che rendono fortuna a chi le sfrutta senza scrupoli” (26).
Il 26 maggio, data inaugurale del G7 di Taormina, la notizia bomba viene confermata: Jared Kushner, il genero del Presidente, è under scrutiny nell’indagine dell’Fbi, il che significa che – sebbene non sia ufficialmente indagato – le sue mosse (durante e dopo la campagna presidenziale) sono sotto la lente di ingrandimento degli investigatori (27). Kushner e la moglie abbandonano immediatamente il viaggio presidenziale e fanno ritorno negli Stati Uniti.
Ma, siccome al peggio non c’è mai fine, soprattutto una volta che i tuoi panni sporchi vengono passati al setaccio, il Washington Post rivela, sempre il 26 maggio, che Jared Kushner e l’ambasciatore russo a Washington hanno discusso, in un incontro avvenuto l’1 o il 2 di dicembre nella Trump Tower a New York, della possibilità di istituire un canale di comunicazione sicuro fra il team del nuovo Presidente e il Cremlino. Kushner avrebbe chiesto a Sergey Kislyak di utilizzare le ambasciate russe negli Stati Uniti per evitare che eventuali comunicazioni “riservate” da effettuarsi prima dell’insediamento venissero intercettate dai servizi di intelligence. All’incontro avrebbe partecipato anche l’ex national security advisor Michael Flynn (28).
Il fatto sarebbe emerso perché, e qui si sfiora il ridicolo, l’ambasciatore è stato intercettato mentre riferiva la cosa ai suoi superiori di Mosca. La Casa Bianca ha parlato del meeting solo in marzo, minimizzandone l’importanza, ma ora l’Fbi ritiene che questo incontro, insieme a un altro che il genero del Presidente avrebbe avuto con un banchiere russo, rivestano un “interesse investigativo”. Nessuna delle persone coinvolte ha commentato la notizia, ma la volontà di Kushner di stabilire un canale segreto con Mosca (non fidandosi evidentemente dei canali ufficiali) alimenta i dubbi sulla correttezza delle relazioni fra l’amministrazione Trump e la Russia. E, secondo alcuni, dimostra anche l’incredibile naiveté del più stretto collaboratore del Presidente: non è un segreto infatti che l’Fbi monitora da vicino le comunicazioni dei funzionari russi negli Stati Uniti, e che la Nsa monitora le comunicazioni dei russi all’estero.
Anche se gli scambi di informazioni fossero avvenuti vis à vis, l’Fbi avrebbe comunque notato l’andirivieni di esponenti del transition team nelle ambasciate russe, e avrebbe segnalato il fatto: “L’idea (di Kushner) sembra del tutto ingenua o totalmente folle”. I collaboratori di Trump, segnala il Post, sono stati reticenti anche riguardo ai contatti intervenuti prima dell’insediamento
con esponenti degli Emirati Arabi, per esempio con il principe ereditario di Abu Dhabi. E il Senato (Repubblicano) getta benzina sul fuoco, chiedendo al comitato elettorale del presidente Trump, proprio lo stesso giorno in cui vengono pubblicate queste notizie, di far avere alla commissione che indaga sul Russiagate tutti i documenti, le email e le registrazioni telefoniche che contengono riferimenti alla Russia, a partire dal giugno 2015 (29).
L’inizio della fine?
Questo lo stato dei fatti al momento in cui scriviamo, e siamo certi che indiscrezioni, scandali e passi falsi presidenziali domineranno la scena politica americana ancora per un bel po’ di tempo. I media (New York Times e Washington Post in primis), non hanno certo intenzione di mollare una preda così ghiotta, ma se dichiarare guerra al Quarto potere non sembra essere stata la mossa politica più oculata di Trump, in verità è tutto l’establishment politico e culturale che fa quadrato contro l’invasore.
Basta considerare i toni e il lessico utilizzati a proposito di Trump e che, in passato, non sarebbero stati tollerati da nessun Congresso (e da nessuna opinione pubblica), a prescindere dal colore, per accorgersi della differenza sostanziale non solo con il trattamento riservato a Clinton, per esempio, ma addirittura con quello riservato a Nixon. “Da uomo d’affari, si è distinto come uno spregevole truffatore; è stato respinto dalla comunità finanziaria newyorkese più per la sua essenziale disonestà e per la sua bassezza di carattere che per la sua pacchianeria da fumetto. […] Negli anni, Trump è stato oggetto di indagini per discriminazione, concussione, corruzione, legami con la mafia, falso in bilancio, frode, e contributi illegali alla campagna elettorale (per non parlare del suo comportamento con le donne). Ma questo è nulla se paragonato alla luce cruda che gettano su di lui l’Fbi, il Congresso, la stampa, il pubblico e altri settori della società civile. Che Trump rischi di essere deposto prima del termine non è più una fantasia da Democratici. Gli eventi degli ultimi giorni potrebbero essere il punto di non ritorno per una presidenza che è stata fin dai primi giorni un esempio di caos, incompetenza, ingiustizia e inganni” (30).
Di quale altro presidente americano si è potuto parlare con tanto disprezzo, sia a livello personale che politico, senza essere isolati e stigmatizzati in un ambiente, quello del giornalismo anglosassone, che ha fatto dell’imparzialità e della pacatezza (anche dei toni), il suo fiore all’occhiello? Trump sarà anche un politico di bassa statura, ma non meno di George W.Bush, per citarne uno, la cui presidenza non è stata certo un esempio di sincerità, correttezza o di lungimiranza, e tuttavia non ha mai perso il sostegno dell’establishment, anche quando certe sue discutibili decisioni hanno avuto esiti tragici, per esempio causando la morte di migliaia di soldati americani (e di centinaia di migliaia di stranieri civili) sui fronti di guerra ‘preventiva’. Allora si chiamò in causa il patriottismo, l’unità della nazione contro i nemici della democrazia, e l’America in effetti fece fronte comune al suo fianco, mentre ora l’impressione è che il nemico della democrazia sia il Presidente democraticamente eletto.
Non è necessario essere un sostenitore di Trump per rendersi conto che manovre come quelle messe in atto contro di lui si erano finora viste solo negli episodi di House of Cards, anche se tutto sommato Frank Underwood, presidente assassino e manipolatore seriale, vince il confronto: che sia perché Underwood è l’emblema del (nuovo) sogno americano o perché Trump non è abbastanza cattivo da aggiudicarsi la serata (migliore è il cattivo, più riuscito è il film, diceva Hitchcock), non è dato saperlo. Ma la sensazione pervasiva è che a Trump non si debba nemmeno dare la possibilità di governare perché ontologicamente indegno di rappresentare il Paese, e che alla volontà di Dio e del Popolo, se serve, vada posto un limite. Tuttavia, ciò di cui i tanti detrattori di Trump non sembrano accorgersi è che il prestigio, ma anche la forza dell’istituzione ‘più potente del mondo’ escono da questa campagna al massacro fortemente ridimensionati. Dovrebbero fare più attenzione, perché se il Presidente è più debole, lo sono anche gli Stati Uniti.
1) Cfr. https://www.nytimes.com/2017/01/06/us/politics/russia-hack-report.html?_r=0
2) Cfr. https://www.nytimes.com/2016/03/27/us/politics/donald-trump-transcript.html
3) Cfr. https://twitter.com/realdonaldtrump/status/817701436096126977
4) Cfr. https://www.nytimes.com/2016/08/15/us/politics/paul-manafort-ukraine-donaldtrump.html
7) Cfr. http://www.reuters.com/article/us-usa-trump-russia-flynn-idUSKBN17T26Q
8) Cfr. http://edition.cnn.com/2017/04/21/politics/russia-trump-campaign-advisers-infiltrate/index.html
12) Cfr. https://twitter.com/realdonaldtrump/status/862267781336752128
13) Cfr. http://edition.cnn.com/2017/05/09/opinions/trump-comey-huge-trouble-opinion-callan/
14) Cfr. http://www.newyorker.com/magazine/2017/05/08/how-trump-could-get-fired
15) Cfr. https://www.nytimes.com/2017/05/15/us/politics/trump-russia-classified-information-isis.html
17) Cfr. https://www.nytimes.com/2017/05/16/us/politics/james-comey-trump-flynn-russia-investigation.-html
21) Cfr. https://twitter.com/realdonaldtrump/status/865173176854204416
22) Cfr. https://twitter.com/realdonaldtrump/status/827867311054974976
23) Cfr. https://twitter.com/realdonaldtrump/status/865207118785372160
24) Cfr. https://www.nytimes.com/2017/05/19/us/politics/trump-russia-comey.html?ribbon-ad-
26) Cfr. http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/26/news/l_ombra_che_segue_trump-166425273/
30) Cfr. http://www.newyorker.com/news/daily-comment/is-the-comey-memo-the-beginning-of-the-end-for-trump