Politica, neoliberismo, crisi di leadership: il cortocircuito dell’Unione europea, la soluzione della democrazia plebiscitaria e lo spostamento del piano demagogico
Quando Renzi si candida alle primarie del 2012 per la segreteria del Pd, sceglie lo slogan “Adesso!”. Un imperativo all’azione, pronunciato nei confronti della missione di cui si è fatto carico e che promette di portare a compimento: rottamare la classe dirigente del partito. Punto centrale della campagna elettorale è infatti il conflitto generazionale: la sfida non è tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ ma tra ‘nuovo’ e ‘vecchio’. Si presenta come il volto dei trentenni, attivi, capaci, pronti a fare il bene del Paese ma tenuti all’angolo dalla generazione dei sessanta/settantenni al potere; si scaglia contro un’idea di partito definita novecentesca e controbatte con una forte impronta personalistica e post ideologica: nessuna bandiera o simboli del Pd, chi lo vota non deve necessariamente provenire dal centrosinistra ma solo riconoscersi renziano, credere in lui e nella sua missione.
Vende un sogno, indefinito quanto emozionante: nei video promozionali, nelle interviste, nei comizi non delinea un programma politico ma trasmette sensazioni, l’eccitazione per una nuova avventura, la speranza per il futuro, il dinamismo giovanile.
Si è in piena crisi economica e politica: la recessione colpisce l’Italia più di altri Paesi, dopo le dimissioni di Berlusconi al governo c’è l’esecutivo Monti, e il Pd affonda nell’impossibilità di giustificare alla propria base elettorale il sostegno alle manovre neoliberiste dei ministri ‘tecnici’.
La rottamazione lanciata dal sindaco fiorentino investe un intero sistema politico, ed è presentata come l’unica via che può salvare l’Italia dal baratro.
Renzi perde la competizione a favore di Bersani, ma la vince l’anno successivo, diventando segretario del Pd a trentotto anni. Dopo meno di tre mesi, fa lo sgambetto a Enrico Letta e diventa presidente del Consiglio. Per una gran parte di italiani diviene un leader carismatico.
Non si può parlare di carisma senza appoggiarsi all’analisi sviluppata da Max Weber alla fine degli anni dieci del Novecento. In sintesi, nell’ambito politico – Weber mutua il concetto dalla sfera religiosa: carisma, dal greco cháris, grazia, dono della grazia divina – i capi carismatici sono figure caratterizzate da doti straordinarie – la demagogia su tutte – che si manifestano in momenti di crisi e diventano guida per gli uomini comuni; si presentano incarnando una missione, quella missione che salverà la comunità; portano nuovi valori e nuovi modelli di comportamento, rompono con il vecchio ordine, antiquato e mal sopportato, e ne promettono uno diverso, adatto ai tempi, e per attuare il cambiamento si pongono, con il consenso della comunità, al di sopra delle regole che la stessa collettività rispetta.
Il capo carismatico è anche un prodotto culturale della società che lo esprime: non esiste infatti leader senza seguaci, che in lui si rispecchiano riconoscendolo come tale e affidandovisi. Il leader deve quindi intuire la direzione verso cui vanno gli uomini comuni, e adattarsi e orientarla: non c’è leader che si affermi tra i seguaci contestandone le pulsioni e i bisogni. Da qui la demagogia come caratteristica principale e indispensabile.
È noto che nella sua corsa Renzi sia stato sostenuto dal Capitale industriale e finanziario, e non sorprende che nell’aria ristagni odor di massoneria, nostrana e internazionale, vista l’appartenenza al Bilderberg dei due precedenti presidenti del Consiglio, Mario Monti e Enrico Letta. Ma dove i suoi due predecessori hanno fallito, Renzi ha avuto successo. Il potere economico può infatti imporre una figura politica, ma in una democrazia – per quanto solo apparente – il leader prima o poi deve fare i conti con il consenso popolare, e né Monti né Letta sono divenuti capi carismatici.
Ingessato burocrate l’uno, prometteva lacrime e sangue, noioso primo della classe l’altro, prometteva nulla, entrambi non erano certo demagoghi, e tanto meno il prodotto culturale dalla società mercificata di oggi, che invece Renzi perfettamente incarna, nel suo esserne insieme promotore e prodotto, merce (1).
Una volta arrivato al potere, tuttavia, il leader deve riuscire a conservarlo, e qui iniziano le difficoltà. Il carisma è labile, afferma Weber: la fede della comunità nell’uomo nuovo – che genera obbedienza – e la convinzione della sua capacità di portare a termine la missione non sopravvivono a lungo senza conferme; e poiché il dominio carismatico è di tipo personale – il leader rivendica la piena responsabilità delle scelte di governo, ci mette la faccia, come si usa dire oggi – il fallimento porta alla rottura del rapporto di fiducia, rompe l’incanto. La magia va quindi alimentata continuando a trasmettere ottimismo, speranza, tenendo vivo il sogno e il focus sulla missione, e di questo si fa carico la propaganda.
Renzi ne è maestro: ha messo al lavoro una intera macchina comunicativa che enfatizza i più piccoli dati economici positivi e nasconde quelli negativi; fisicamente rifugge dalle situazioni critiche, affinché non vengano associate alla sua persona, e compare agli eventi giudicati positivi; e, da ultimo, ha lanciato una ‘chiamata alle armi’ del suo popolo sulla riforma costituzionale: “Se perdo il referendum istituzionale considero fallita la mia esperienza in politica”. Una personalizzazione che da un lato si inscrive nelle caratteristiche della leadership carismatica, e dall’altro si rende necessaria per traghettare l’Italia verso una democrazia plebiscitaria, naturale approdo di questa forma di politica.
Il demagogo cerca infatti il plebiscito popolare per imporre le proprie scelte e indebolire il dissenso interno ed esterno al suo gruppo; contro una democrazia che Weber definiva ‘acefala’, priva di un capo, nella quale dominano i partiti e l’azione di governo è paralizzata dalle pressioni delle varie consorterie di potere, il capo carismatico si appella al popolo, lo trascina sulla spinta dell’emotività, e legittimato dal plebiscito rivendica per sé pieni e forti poteri. “Al di sopra del Parlamento vi è quindi il dittatore sostenuto da un plebiscito di fatto, che trascina dietro di sé le masse per mezzo della ‘macchina’ [di partito] e per il quale i parlamentari sono semplicemente della gente che guadagna con la politica e si mette al suo seguito” (2).
L’accoppiata riforma del Senato/legge elettorale va in questa direzione, disegnando una Camera di nominati caratterizzata da una forte maggioranza – che impedendo crisi di governo garantirà la conclusione della legislatura – e un Consiglio dei ministri dagli ampi poteri.
Aggiornando il vocabolario, si può parlare di governabilità; questo rappresenta oggi la democrazia plebiscitaria. Una forma di governo auspicata dal Capitale, che nel dopoguerra ha dovuto fare i conti con il fatto che la democrazia matura si è rivelata incompatibile con il sistema capitalistico (3).
Si può quindi affermare che, fino a oggi, nonostante qualche momento di impasse, Renzi non abbia sbagliato alcuna mossa fondamentale né abbia deluso i gruppi di potere che l’hanno sostenuto. Ma negli Stati dell’Eurogruppo sta venendo al pettine un nodo che Weber, favorevole alla democrazia plebiscitaria, non poteva certo prevedere.
La reale posta in gioco dello scontro tra Renzi e l’Unione europea è la flessibilità di bilancio, senza la quale il presidente del Consiglio sarà costretto ad applicare le clausole di salvaguardia solo rimandate con la legge di Stabilità 2016 – 15 miliardi per il 2017, 20 per il 2018 e altrettanti per il 2019, che si tradurranno in innalzamento dell’Iva e aumento delle accise.
Se non riuscirà a evitarle, tradirà la sua promessa di salvare l’Italia dalla palude della recessione e della disoccupazione rilanciando l’economia con le riforme e l’abbassamento delle tasse.
L’ostacolo al pieno dispiegarsi di una leadership carismatica è quindi oggi la sottrazione di sovranità nazionale sulle politiche monetarie ed economiche costruita con l’Unione europea, che limita lo spazio di azione dei leader all’interno dei rispettivi Paesi: non hanno più la possibilità di svalutare/rivalutare la moneta secondo le esigenze nazionali; devono sottostare a regole di bilancio fissate in ambito europeo; non possono fare investimenti pubblici per spingere l’economia e, infine, nemmeno costruire il consenso popolare attraverso l’espansione del welfare. Un cortocircuito paradossale: l’Unione europea voluta e disegnata su misura del Capitale rischia di bruciare uno dietro l’altro le figure politiche sostenute e portate al potere dal Capitale stesso.
La fascinazione carismatica viene infatti meno quando il leader mette in atto le politiche che l’attuale fase neoliberista del capitalismo richiede – privatizzazioni, sfruttamento del lavoro e smantellamento del welfare – e che impoveriscono la popolazione; di conseguenza, l’impossibilità a mantenere le promesse demagogiche su cui si regge il carisma genera la rottura della relazione leader/seguaci.
Questo si sta giocando Renzi, e ne è consapevole; e alza i toni della propaganda perché sa di non poter fare altro.
La parabola dell’ex sindaco fiorentino consente di spostare la riflessione su un piano più generale. Il rapporto struttura economica/sovrastruttura politica è sempre stato dialettico, ma con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia si è aperta una nuova fase, acuita dalla crisi, caratterizzata da un rapporto di forza a favore della prima. Viene da chiedersi, tuttavia, come possa il Capitale pensare di tenere in piedi il sistema capitalistico, in un regime democratico, sottraendo contemporaneamente alla politica le armi con le quali ha costruito il consenso intorno allo stesso capitalismo – in Europa soprattutto e dal dopoguerra in avanti: la creazione di un ceto medio consumatore attraverso l’aumento dei salari e la costruzione di uno stato sociale, elementi che davano l’illusione che tale sistema economico potesse migliorare le condizioni di vita di tutta la popolazione.
Una soluzione è certamente l’alternanza, il tanto auspicato bipolarismo, all’interno della governabilità garantita dalla democrazia plebiscitaria: due partiti competono a ogni elezione, e quello al governo non può che perdere, vista la distanza tra la demagogia espressa dal suo leader durante la campagna elettorale e le politiche attuate una volta conquistato il potere. Una buona soluzione perché, di fatto, si tratta di Unipolarismo, che in Italia ben conosciamo: i due schieramenti in realtà attuano le medesime politiche economiche.
Ma come abbiamo visto, il dominio carismatico è personale, e quando il leader tradisce le promesse i seguaci non lo perdonano. Quindi il Capitale deve essere in grado di creare un leader ogni quattro/cinque anni – e posizionarlo alternativamente da una parte e dall’altra del campo politico – ed è tutt’altro che facile.
Viviamo oggi nel Belpaese il problema di una mancanza di leadership a destra – assumendo la propaganda che inscrive Renzi a sinistra – esempio emblematico di una situazione potenzialmente pericolosa, perché rischia di portare al governo movimenti come i Cinque stelle – o Podemos, Syriza, in altri Paesi – con i quali il Capitale potrebbe avere più difficoltà a imporsi – anche se proprio l’esperienza di Tsipras, il primo leader alternativo a essere riuscito a vincere le elezioni e avere la maggioranza in Parlamento per poi trasformarsi nel giro di una notte da lupo in agnello, nega questa tesi. L’astensione elettorale, che inevitabilmente si innesca quando nei cittadini matura la consapevolezza che sono tutti uguali, non è certamente un problema, a patto però che non si trasformi in un’altra forma di rivolta (4).
Forse la soluzione trovata è quella che abbiamo sotto i nostri occhi, se alziamo lo sguardo oltralpe, in Francia: lo spostamento del piano demagogico dal campo del benessere economico a quello della sicurezza. La ‘guerra al terrorismo’ dichiarata dal socialista Hollande crea, da una parte, un nuovo piano di confronto politico tra gli schieramenti – la promessa di difendere i cittadini dal nuovo nemico, l’Islam radicale – e dall’altro costruisce uno Stato di emergenza che si traduce in uno Stato di polizia, che limita le libertà individuali e, invocando l’eccezione, deroga alle leggi e alla Costituzione e si sostituisce al potere giudiziario, negando lo Stato di diritto. Lo Stato di emergenza promulgato dal Parlamento francese consente di dichiarare il coprifuoco, interrompere la circolazione, impedire manifestazioni pubbliche, chiudere temporaneamente luoghi di aggregazione, estendere lo stato di fermo e imporre arresti domiciliari e perquisizioni senza l’autorizzazione di un giudice.
Cittadini spaventati finiscono per accettare un regime repressivo che data la vaghezza delle norme su cui poggia – si applica nei confronti di “chiunque le cui azioni possano essere viste come pericolose per la sicurezza pubblica o per l’ordine” – riguarda non solo i presunti terroristi ma ogni forma di dissenso – la rivolta in cui può potenzialmente trasformarsi l’astensione elettorale. Le prime a farne le spese sono state infatti le manifestazioni indette a Parigi contro il Vertice internazionale sul clima Cop21 di fine novembre, le cui autorizzazioni sono state cancellate.
È chiaro che sul piano della sicurezza il leader carismatico può meglio riuscire a mantenere le promesse demagogiche, con provvedimenti che se di fatto non proteggono i cittadini dagli attacchi terroristici migliorano tuttavia la percezione della sicurezza – strade piene di poliziotti, controllo totale e generalizzato sulla popolazione, leggi per l’espulsione di stranieri ecc. Ma perché questa forma di politica possa divenire stabile e non emergenziale, e sostituirsi alla precedente politica che prometteva l’accrescimento del benessere economico dei cittadini, occorre mantenere viva la paura.
Se questo è ciò che la politica si appresta a costruire, due sono le certezze che ci aspettano. La prima: nessun leader carismatico creato e sostenuto dal Capitale potrà battere in demagogia securitaria i leader dei partiti di estrema destra. La seconda: qualsiasi leader arriverà al governo non potrà che intrattenere una relazione ambigua, e sistemica, con il terrorismo: se non produrrà direttamente il terrore, quantomeno non impedirà che si produca, alimentando guerre e scontri di civiltà.
1) Cfr. Giovanna Cracco, Il Grande Rifiuto, Paginauno n. 44/2015
2) Max Weber, La politica come professione, 1919
3) Come evidenziato anche nel Rapporto sulla governabilità delle democrazie presentato alla riunione plenaria della Trilateral del 1975 (prefazione all’edizione italiana della pubblicazione di Giovanni Agnelli), che invitava a comprimere lo spazio democratico; cfr. Giovanna Cracco, La democrazia governabile, Paginauno n. 40/2014
4) Lo stesso rapporto della Trilateral del 1975 la auspicava: “Il funzionamento efficace d’un sistema politico democratico richiede, in genere, una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi”; cfr. Giovanna Cracco, La democrazia governabile, art. cit.