QUI la seconda parte dell’articolo
Critica a Il buio, il fuoco, il desiderio di Gino Castaldo
“I critici musicali sono persone che non sanno scrivere che intervistano persone che non sanno parlare per un pubblico che non sa leggere”.
(Frank Zappa)
Scritta anni fa questa frase – a ben leggerla – ha in sé qualcosa che va al di là della semplice provocazione, a cui peraltro il mai abbastanza rimpianto Duca di Prugne ci aveva abituato. Un buon esempio è dato dalla lettura di questo ultimo lavoro di Gino Castaldo, Il buio, il fuoco, il desiderio (Einaudi). Fascinoso il titolo, agile il formato, intrigante il sottotitolo: “Ode in morte della musica”. Dopo attenta lettura e meditazione, la frase di Frank Zappa andrebbe così riscritta: “I critici musicali sono persone che in larghissima maggioranza non sanno né leggere né scrivere la musica né tanto meno eseguirla, e dunque quando scrivono di essa andrebbero evangelicamente perdonati, perché non sanno quello che fanno, a patto non traggano da tale scrittura illegittimo guadagno. In tal caso la pena è raddoppiata, perché oltre all’illecito guadagno c’è anche la diffusione di notizie false, tendenziose e atte a procrastinare all’infinito l’ignoranza di chi legge”.
Conosco abbastanza bene i critici di jazz, e posso affermare che tra loro il tasso di alfabetizzazione è sufficientemente alto da ritenere che in genere essi sappiano di che cosa parlano. Non conosco così bene i critici di musica classica, ma sono portato a credere per una serie di ragioni (specie per la lirica) che almeno un fondo di conoscenza della teoria musicale e della storia della musica (occidentale) essi la possiedano, e che dunque parlino con un poco di coscienza in più dei critici di pop e rock. Quest’ultima categoria è realmente il refugium peccatorum di tutti quelli che di null’altro hanno trovato occasione di scrivere e, spesso e volentieri, riescono anche a farsi pagare per ciò che scrivono. Affermo inoltre (vedremo tra un attimo perché) che a ciò che in generale i critici scrivono bisognerebbe fare la tara, per estrarne concetti che in qualche caso, applicati cum grano salis, hanno senso.
Prima tara
Cominciamo dal principio generale che afferma sia necessario innanzitutto conoscere le coordinate spazio-temporali di ciò di cui si scrive, in questo caso di musica. Parliamo – in quest’articolo – dei critici musicali dell’Occidente che parlano della musica prodotta in Occidente in un millennio circa (Europa e parte del continente americano) attraverso il sistema di notazione del pentagramma e secondo il principio del temperamento musicale. Tutta la musica che è fuori da tali coordinate ha la stessa dignità di esistenza della precedente, per il solo fatto di essere frutto dell’ingegno umano, e avrebbe bisogno – per potere essere apprezzata e capita – di uno sforzo di umiltà: ma se i critici occidentali non conoscono neanche le basi della propria musica, come convincerli a studiare l’altra?
Castaldo, ovviamente, non sfugge a questa critica, non fa eccezione all’approccio eurocentrico.
Seconda tara
Tutta la musica prodotta nel mondo è un codice comunicativo e abbisogna, come tutti i codici, di più di un criterio di lettura e comprensione. Il primo è la decifrazione del linguaggio in cui è scritta, se è scritta: e dunque in caso di trasmissione orale del linguaggio musicale c’è il problema (tutt’altro che banale) di entrare in quel linguaggio per capirlo. L’altra via è la trascrizione di quel linguaggio dentro le coordinate del nostro linguaggio, e lì cominciano i problemi. Per tutta una serie di ragioni ci sono centinaia di linguaggi musicali che non sono trascrivibili, a meno di non operare delle forzature. L’esempio più facile e vicino a noi è il cosiddetto blues bianco, suonato da gruppi come Cream, John Mayall e via via giù fino a Stevie Ray Vaughan: provate ad ascoltare Skip James nella versione originale (inizio anni ’30) di I’d rather be the devil e un qualunque altro bianco che esegua lo stesso brano. Sentirete subito come suoni ‘squadrata’ la versione bianca, cioè semplificata, piena di spigoli. L’originale è pieno di (apparenti) stonature, inusitati melismi e soprattutto contiene un’incomprensibile poliritmia di fondo che ci porta dritti alla comprensione del problema: Skip James canta e suona ancora – diremmo – ‘all’africana maniera’, nonostante la schiavitù sia finita da un pezzo e i neri come lui siano venuti in contatto forzato con la civiltà musicale dei bianchi. Per fortuna non sono il primo ad aver scoperto la cosa: ma c’è voluta l’umiltà prima dei grandi etnomusicologi come Alain Daniélou o Alan Lomax, poi dei grandi musicisti come Art Blakey e Ginger Baker (ai tempi della fondazione del primo studio di registrazione africano a Lagos, assieme a Fela Kuti) per cominciare a studiare veramente la musica africana nella sua straordinaria complessità.
Ho un ricordo straziante della mia adolescenza quando, in pieno periodo ideologico folk-revival e senza sapere quasi nulla di musica, andavo a fare ricerca musicale sul campo da contadinie artigiani: l’attuale strazio deriva dall’ignoranza con cui mi incaponivo a tentare di accordare la chitarra in modo da accompagnarli, senza riuscire ad accettare che il loro ‘la’ non era a 440 Hz come il mio, che essi cantavano in re bemolle (accordati semmai con l’organetto a due bassi, accordato in re bemolle, appunto) e che avevano il canto pieno di melismi e variazioni irriproducibili dalla mia ugola, mai andata a lezione da loro, e infine – cosa veramente terribile e straordinaria – essi spesso non cantavano secondo la scala temperata, ma in scala naturale: insomma, quasi dei fossili viventi in termini musicali. Per cominciare a capirci qualcosa dovetti attendere una memorabile lezioneconcerto di Giorgio Gaslini durata tre giorni intitolata (credo) “Dal canto popolare al free-jazz”, in cui Gaslini ripercorreva a furia di esempi pratici il lungo cammino di quella musica, che dagli schiavi deportati nei campi di cotone portava dritto alle prigioni e alle fabbriche e alle sale da concerto, ai bordelli e ai palcoscenici.
Tempo dopo, quando raccontai il mio travaglio a Márta Sebestyén, stella e gloria mondiale del folklore ungherese, ella disse che mi capiva perfettamente. Anche lei era nata in città, come me, ma per fortuna aveva avuto una maestra d’eccezione, cioè sua nonna che abitava in campagna fuori Budapest, che le aveva trasmesso intatto un immenso e vivo patrimonio orale: ai critici musicali locali (tutto il mondo è paese) che osservavano come ella cantasse “come le vecchie contadine” rispondeva sorridendo: «Appunto: così si canta» (problema che fu a suo tempo ben presente, per rimanere in Ungheria, a Béla Bartók). Insomma: credete davvero a Castaldo che pensa che le esecuzioni ‘vere’ delle musiche oggi definite ‘etniche’ siano quelle della Real World, piallate e arrotondate a uso delle orecchie occidentali? Credete davvero che un qawwali eseguito in grazia di Dio (letteralmente) nelle feste e nei luoghi comandati stia dentro i 65-80 minuti di un cd?
Oltre all’accettazione dell’inevitabilità del lignaggio da acquisire, per non parlare a vanvera, ci sono un altro paio di cosette, a mo’ di corollario della seconda tara, da tener presenti.
Prima: la musica è un fatto sacro, in tutto il mondo. Soprattutto per le culture antiche, essa è intimamente legata al modo stesso di esprimere la conoscenza del mondo. Tale modalità espressiva e conoscitiva è invariabilmente a valenza olistica. Questo significa che non si parla né si suona né si danza senza aver ben presente che si sta eseguendo un atto che ha senso dentro una visione totale del mondo e delle sue connessioni, e che quindi né le parole né la musica né la danza sono gratuite, fini a se stesse, e a puro scopo di intrattenimento. La desacralizzazione della cultura, in tutto il mondo, è un dato costante.
E non è un fenomeno solo recente: basti osservare che uno dei possibili momenti di cessazione del pensiero olistico antico sia stata proprio la nascita in Grecia delle prime forme di pensiero recursivo citate da Castaldo (per esempio, “io mento”), ovvero che si guardano l’ombelico. Il pensiero diventa sufficiente a se stesso, ben prima di Cartesio. La scomparsa dell’orizzonte cognitivo in cui v’era corrispondenza tra parole e cose e degli universi a esso appartenenti, analizzata da Foucault, porta inevitabilmente non solo alla necessità di un pensiero e di categorie meta-descrittive per descrivere il mondo (per carità, non certo per dargli un senso), non solo ai canoni ‘cancrizzanti’ di Bach, alla macchina di Turing ai teoremi di Gödel e ai disegni di Escher, ma soprattutto alla civiltà – lamentata appunto da Castaldo – in cui la musica perde del tutto il suo senso.
Senza strapparsi i capelli a tutti costi, come fa Castaldo, e come a suo tempo faceva Mircea Eliade (che giudicava il jazz una musica demoniaca in quanto appunto desacralizzata), varrebbe invece la pena osservare come la semplice consapevolezza di ciò che si fa, e soprattutto del QUI e ORA, produca ancora oggi cose straordinarie, o quantomeno in sintonia e in armonia macro e micro-cosmica, con il suddetto QUI e ORA.
Un esempio? Siamo a Monterey Pop, nel primo pomeriggio del 18 giugno 1967. Apre la serie dei concerti del giorno finale di quel memorabile festival il pandit Ravi Shankar, accompagnato dal fido Alla Rakha alle tabla. Che cosa eseguono? Ovviamente (dal loro punto di vista), non un raga qualunque bensì il raga Bhimpalasi, uno dei raga del pomeriggio. Shankar e Rakha hanno ben presente che i raga della musica dell’India del nord sono sacri, perché nati e trasmessi (anche come teoria) da Sarasvati in persona, paredra di Shiva; sanno che ogni singola nota è sacra ed esprime uno stato d’animo; che ogni raga descrive la danza cosmica di creazione e distruzione di Shiva e della sua consorte; che essi disegnano il trascorrere del tempo nelle 24 ore. Ogni raga dunque è non solo intellettualmente e culturalmente ‘appropriato’ per l’ora che esso esprime ma è anche e soprattutto armonioso (1); alla fine, l’improvvisazione, dello strumentista e del cantante, è limitata al ‘cantare’, letteralmente, le note (sì, proprio come fanno i cantanti sufi di qawwali come Nusrat Fateh Ali Khan).
Quante persone, quanti critici musicali, hanno notato questa ‘appropriatezza’, questa armonia, Castaldo compreso? Non mi risultano in numero dispari inferiore a tre. Mi risulta invece che Castaldo s’incaponisca a voler attribuire ‘valore illuminante’ a uno sguardo fisso di Hendrix durante la famosa esecuzione, a Woodstock, dell’inno statunitense. È un’opinione del tutto soggettiva e sviante, un bel pretesto: mi sono rivisto il filmato e sono piuttosto portato a pensare che Hendrix stesse ascoltando dentro di sé l’ispirazione, per tirare fuori quello che tirò fuori, più che essere intento a ‘vedere il futuro della musica’.
O vogliamo parlare dello sguardo attonito dello stesso Hendrix a Monterey, proprio durante l’esibizione di Shankar? Che dire di quello sguardo? Potrei altrettanto legittimamente di Castaldo sostenere che Hendrix vide l’armonia delle sfere e la danza di Shiva e Sarasvati e concludere poeticamente la mia dissertazione – ma, ahimè, non ho gli allori del ‘massimo critico musicale nazionale’ che mi coprono gli omeri. Devo allora ripiegare su un più banale, ma forse realistico, sbigottimento all’ascolto (NON alla vista!) di tanta eloquenza da musicista a musicista, pur nella totale ignoranza di ciò che l’altro stava dicendo.
In realtà non ha importanza che gli occidentali abbiano capito che cosa stesse facendo Shankar al di là dell’esecuzione di quel raga (peraltro, a detta dei puristi indiani, un poco scialba [2]), ma è fondamentale che l’abbia compreso il musicista, perché la sua cultura possa rimanere viva e avere sempre, per lui, un senso, (micro e macrocosmico); cosa che manca del tutto a chi vive in una cultura desacralizzata. Forse, azzardo, John Coltrane l’aveva capito e per questo negli ultimi dischi (quelli in cui molla il quartetto con Garrison e Tyner e suona con la moglie Alice e Rashied Ali) c’è un vero salto quantico verso l’universo, interrotto solo dalla sua precoce dipartita.
Secondo: la musica è un fatto mitico. La categoria del mito è un tentativo di spiegare la complessità del mondo, per come è fatto, sin dalle origini. Dunque il mito si sforza di dare senso al mondo: i miti cosmogonici e le culture che da essi nascono, laddove i fili della tradizione non si sono interrotti e sono (talvolta miracolosamente) arrivati sino a noi, descrivono “l’ordine naturale delle cose”, così come lo chiama il Taoismo. In tale cultura anche l’altezza dei suoni delle scale pentatoniche cinesi ha un senso di adeguatezza alla descrizione del mondo, che è – in primis – cosmica, riferita dunque all’astrologia/astronomia (proporzioni tra orbite dei pianeti e suoni… qualcuno ricorda l’harmonices mundi e un certo Pitagora?). E non è un caso che il termine ‘Tao’, di per sé intraducibile a meno di non operare forzature tra culture incomunicabili, trovi collocazione semantica grazie a Richard Wilhelm, il quale usa una categoria meta-concettuale e lo traduce sic et simpliciter in ‘senso’.
Terza tara
Di che cosa parliamo, realmente, quando parliamo di musica, in termini occidentali?
Senza stare a scomodare categorie e personaggi di cui ben poco Castaldo ha capito o di cui ha capito quello che gli interessa, come il grandissimo Marius Schneider, varrebbe la pena ogni tanto impadronirsi di un poco di scienza descrittiva – nostra, occidentale, quindi.
In tale contesto – a molti cadranno le braccia ma, ahimè, le cose stanno così – la musica ha una natura così ‘sottile’ da sfiorare l’inconsistenza, il (quasi) nulla. Ridotta a categoria fisica, il suono (di cui la musica è figlia concettuale) viene infatti definito come una “rapida variazione di pressione esercitata sul timpano, prodotta da una sorgente sonora, in un mezzo (onda elastica longitudinale) percepibile attraverso i nostri organi dell’udito”. La soglia di udibilità di un suono, (la minima intensità Imin sonora che l’orecchio umano è in grado di percepire) corrisponde a una variazione di pressione rispetto alla pressione atmosferica, in assenza di suono, di soli 20 µPa – pari a circa 0,2 miliardesimi della pressione atmosferica. Il che equivale a dire che la differenza tra suono e nonsuono è ultra-microscopica, pur variando da individuo a individuo. Non solo: non ogni suono, ma ogni musica, è in definitiva “una semplice variazione di pressione dell’aria sul timpano”. Indubbiamente la cosa ha del miracoloso, se pensiamo ai miliardi di pagine spese aparlare di (qualunque) musica e agli effetti reali che essa produce sull’animo umano oltre che sul corpo.
Se da bravi occidentali ci limitassimo umilmente a partire da questo presupposto fisico, anziché da categorie estetiche tutt’affatto intellettuali, le nostre pretese descrittive si ridimensionerebbero parecchio, non v’è dubbio. Ma, ahimè, non solo la scienza non si insegna come si dovrebbe nelle nostre scuole, non solo la musica è la Cenerentola delle materie d’insegnamento, ma la capacità di stupirsi – che tutti abbiamo da bambini – l’abbandoniamo presto e crescendo, magari, diventiamo critici musicali di rock e pop, ci appassioniamo alla categoria del noise rock e scopriamo John Cage; dimenticando non solo la fisica (quando mai l’avessimo conosciuta) ma soprattutto la distinzione tutta teorica e intellettuale tra suono e rumore (e quindi anche tra musica e rumore), che già il futurismo si era impegnato a radere al suolo con il Manifesto tecnico della musica futurista (1911) di Francesco Balilla Pratella. Ma tutto questo, evidentemente, a Castaldo non interessa e quindi può continuare a stupirsi e a tentare di stupirci citando come miracolosamente provocatorio l’avvento musicale di Cage, non meno che la sua notoria competenza micologica.
Per andare più a fondo, dunque, si può – anzi in certi casi si deve – partire dai presupposti teorici della propria cultura. Si deve, soprattutto, se i postulati conoscitivi di altre culture sono radicalmente diversi dai nostri. Essi non possono essere approcciati se non si ‘vuota la tazza’, secondo un modo di dire del buddhismo zen, cioè se non si svuota la testa dai paradigmi conoscitivi che anche solo a livello inconscio abbiamo assorbito. Per farlo – e aggiungo, per essere dei critici musicali onesti e non vendere l’aria o la fontana di Trevi come Totò – c’è una via semplice, nella quale (curiosamente) la fisica e lo zen s’incontrano: bisogna andare alla radice delle cose. Il fisico sa perfettamente che il suono (e dunque la musica) non esiste se non grazie all’interazione di più fattori: un corpo che collide con un altro, la messa in moto conseguente di un’onda attraverso un mezzo come l’aria o l’acqua, la differenza di pressione sul timpano, la trasmissione di tale differenza di pressione al cervello tramite i meccanismi dell’orecchio; il meditatore zen sa altrettanto bene che, come tutte le cose, anche il suono di per sé non esiste. La cultura zen afferma che i fenomeni sorgono in modo condizionato, cioè presuppone un’interdipendenza costante – in termini causali – di tutto ciò che esiste. Il maestro dice all’allievo: «Portami il suono di una mano sola». La meditazione analitica porta alla comprensione del sorgere interdipendente del fenomeno ‘suono’, e alla comprensione conseguente del fatto che una mano sola non basta per produrre suono. Né basta un dito: ne servono due oppure un dito più una superficie su cui batterlo, per produrre suono.
Ancora: se non si capisce quantomeno la natura fisica della musica, il suo miracolo, si continua a percepire e valutare e chiacchierare l’epifenomeno e non la causa (parlare, parlare, parlare… mai fare musica: esattamente come per il calcio, il nostro è un Paese di critici). La dimensione vera della musica non sta nel fatto che essa è viva nel tempo, che essa vive nel suo farsi – cioè in una successione di attimi temporalmente successivi – quanto nel fatto che la sua scaturigine è il silenzio, l’assenza di produzione interdipendente e condizionata di un’onda sonora… e di una minima differenza di pressione sul timpano.
Il tempo, come è noto, è poco affidabile come categoria causativa di un fenomeno, essendo del tutto soggettive la sua percezione, la sua organizzazione, la sua definizione. Il tempo è assolutamente umano come invenzione, e per quanto comodo per la nostra vita quotidiana, in certi casi addirittura essenziale (anche se, come dice G.L. Ferretti, la nostra è una civiltà che adora gli orologi ma non conosce il tempo), non è la dimensione attraverso la quale conoscere il mondo, e di conseguenza la musica. Gli antichi, anche senza conoscere la definizione occidentale di suono, sapevano che doveva esistere qualcosa di molto più essenziale perché tutto, veramente tutto, potesse esistere; e questo qualcosa è lo spazio.
La teoria dei cinque elementi così come conosciuta dalla Cina all’India agli amerindiani vede infatti sempre presente a fianco di acqua, terra, fuoco, aria, lo spazio come antecedente a tutto, anche agli elementi citati. È nello spazio tra il suono e il non-suono che si può cominciare a intuire qualcosa della magia della musica: ma tale spazio – per essere prima di tutto percepito e poi, eventualmente, conosciuto intellettivamente – è connaturato al silenzio; non come semplice assenza di musica, ma come dimensione reale di un pezzo della vita. È lì che il tempo, come dice il premio Nobel Ilya Prigogine, diventa creazione continua. È lì, dunque, dall’educazione al silenzio, prima che di quella al tempo, che bisognerebbe ri-partire in un’ideale ipotesi di azzeramento della nostra civiltà per ricostruire una nuova dimensione del vivere la musica.
Ancora una volta Castaldo si affascina e tenta di affascinarci con notizie e aneddoti sul silenzio, ma parla sempre e solo di epifenomeni, di manifestazioni e quindi di effetti, mai di cause, il che comincia a essere irritante considerando che siamo già a pagina 88 su 155 che ne conta il libro…
(1) The ragas of northern indian music, Alain Danielou
(2) articolo di Rajan P. Parrikar su http://sawf.org/newedit/edit08062001/musicarts.asp