QUI la prima parte dell’articolo
Critica a Il buio, il fuoco, il desiderio di Gino Castaldo
Riprendiamo la dissertazione sul testo di Gino Castaldo, Il buio, il fuoco, il desiderio, iniziata nel numero precedente (1).
Mi trovo davanti ancora un problema di metodo: non è intellettualmente né scientificamente corretto, ed è soprattutto mistificatorio, confondere fenomeni tra loro intrinsecamente diversi e inassimilabili, soprattutto dal punto di vista causativo, come il contenuto musicale di un brano e il modo in cui esso viene fruito. È vero, bisogna dar atto a Castaldo che la separazione tra esecutore e fruitore della musica spezza drammaticamente secoli di comunanza e rende possibile, assieme ad altri fattori, la mercificazione completa della musica. Ma, appunto, ci sono altri fattori. E soprattutto ancora una volta si vede l’epifenomeno, non la causa del fatto. La soglia temporale, la nascita della riproducibilità musicale, data alla fine del XIX secolo, con l’invenzione del fonografo (1877). Ma, per l’appunto, si comincia a separare l’esecutore dal fruitore, e solo in Occidente e solo per ristretti strati sociali. Nello stesso Occidente la vera divisione, cioè la separazione tra esecutore e fruitore, si ha solo quando la civiltà industriale taglia alla radice le linee di trasmissione familiari e amicali della comunicazione orale popolare, nella quale il patrimonio musicale è condiviso e continuamente in evoluzione (e quindi vivo) grazie al fatto che tutti lo eseguono: l’ultimo contadino capace di parlare e scrivere il runico scompare nella Dalecarlia svedese nel 1865 e pochi anni dopo muore anche l’ultimo bardo capace di cantare l’Edda poetica a memoria.
La scomparsa della biodiversità musicale e linguistica va di pari passo con quella di piante e animali. Contadini inurbati e forzatamente divenuti operai di fabbrica dimenticano in fretta l’abitudine di cantare in gruppo durante il lavoro: le registrazioni fatte nelle campagne d’Italia da Carpitella e Lomax alla fine degli anni ’50 sono preziose, proprio perché nella maggioranza dei casi nessuno degli esecutori ha trasmesso integralmente la propria conoscenza a figli, parenti o amici – e dunque siamo in piena archeologia musicale e a nulla servono i vari folk revival di volta in volta risorgenti. Le famose ‘villanelle’ di De Simone e la NCCP sono pallide versioni settecentesche degli originali del ’400 (con in più il ‘la’ rigorosamente fisso a 440 Hz) e il tanto sbandierato neo-tarantismo meridionale – utile certamente a rimpinguare i magri bilanci delle Pro loco locali – ha quasi nulla a che fare, musicalmente e soprattutto socialmente, con ciò che di esso sopravviveva fino agli anni ’50 di Sud e Magia di De Martino (peraltro assai discutibile come impostazione di ricerca).
C’è inoltre un altro fattore decisivo su cui Castaldo non riflette: la mercificazione della musica è possibile non quando esiste lo strumento di riproduzione, ma quando esistono i consumatori che acquistano e usano quello strumento di riproduzione. Da questo punto di vista non è l’industria del disco ad aver creato il mercato (e dunque, direbbe Castaldo, la separazione definitiva tra esecutore e fruitore), quanto piuttosto la radio. Prova ne è la sinergia straordinaria che la radio intrattiene sin dalla sua nascita col potere politico e religioso: se Marconi in persona sta dietro alla costruzione della debordante potenza di trasmissione di Radio Vaticana, i gerarchi nazisti utilizzano perfettamente l’enorme potere della radio per manipolare l’opinione pubblica e costruire il consenso intorno ai propri progetti politici.
In più, la radio è servita da alibi democratico: pur non potendo presenziare all’evento dal vivo, dai quattro angoli del mondo chiunque può godere dei benefici dell’evento stesso; che si tratti della benedizione Urbi et orbi del papa o del concerto di apertura della Scala.
A questo proposito si ricordi il rapporto del tutto straordinario intercorso tra la NBC e Arturo Toscanini, esule negli Stati Uniti durante il periodo fascista. Fino a tutta la Grande depressione i dischi a 78 giri avevano un mercato piuttosto limitato, dovuto agli alti costi dell’apparecchio fonografico e dei dischi stessi. Soprattutto, il fatto che la nascente industria si rivolgesse a nicchie di mercato su base razziale (per esempio i race records destinati al pubblico di colore) limitava enormemente la nascita di un prodotto di massa.
Nel 1937 David Sarnoff – il presidente della RCA che sin dal 1916 aveva proposto la radio come contenitore attraverso il quale poter trasmettere diversi contenuti, dalla lettura di libri al concerto – passa all’offensiva e inventa letteralmente il personaggio Arturo Toscanini: già famoso e in più esule dalla parte giusta, il pubblico lo avrebbe emotivamente accolto a braccia aperte per la gioia dei profitti della RCA. In poco tempo negli studi della NBC radio viene creato ex novo un intero studio di registrazione e formata un’intera orchestra. Dal 1937 al 1954 Toscanini e la NBC Symphony Orchestra non sono solo ascoltati per radio ma anche visti ai quattro angoli del Paese, grazie a una straordinaria tournèe effettuata con un treno affittato e attrezzato ad hoc per gli artisti. Questo è il vero inizio della costruzione di un mercato di perfetti consumatori, che in seguito non avranno più la necessità di vedere dal vivo il proprio beniamino – tant’è che arriverà di lì a poco la televisione a eliminare questo bisogno – e che potranno usufruire, già alla metà degli anni ’50, di apparecchi e dischi a prezzi più contenuti.
Tuttavia la vera e propria quadratura del cerchio si avrà solo con la favorevole congiuntura demografica postbellica: la rinascita economica dell’Occidente (tutto) porta con sé anche il boom delle nascite e l’impennata dei salari. Esiste dunque a partire già dall’immediata fine del conflitto un’enorme massa di potenziali consumatori, possessori di una maggiore quantità di denaro da spendere in abbigliamento, prodotti di bellezza e musica. Tutti i grandi musicisti pop e rock inglesi della generazione bellica e immediatamente postbellica come Lennon (1940), McCartney (1942), Waters, Jagger e Richards (1943), Beck e Page (1944), Townshend e Clapton (1945), Gilmour (1946) hanno avuto le porte dell’industria dell’intrattenimento aperte e anzi spalancate, perché c’era – fuori – un mercato bello e pronto da conquistare.
Negli Usa, qualche anno prima, il fatto che perfetti sconosciuti come Elvis Presley, Roy Orbison, Jerry Lee Lewis e Johnny Cash fossero diventati delle star e dei miliardari nel giro di due anni dalla loro apparizione, aveva convinto gli industriali che non solo il mercato dei consumatori c’era, ma che la musica era il settore merceologico in cui investire, con tutti i prodotti che si portava al traino. In altri termini, più crudi ma veri: sino ad allora un adolescente digiuno di teoria musicale non poteva diventare famoso e miliardario grazie a due canzonette al top della classifica; l’industria lo rende possibile.
A sua volta, in risposta alla necessità di permeare il mercato in termini di concentrazione e fusione di potere, l’industria musicale conosce progressivamente forme spaventosamente grandi di integrazione economica verticale tra prodotto finito (CD), macchina per leggerlo (lettore CD), autori (in esclusiva per l’etichetta: esecutore musicale/arrangiatore/tecnico del suono ecc.), rete distributiva: Universal, EMI, Warner Music, Sony Music e BMG si dividono attualmente il 75% del mercato mondiale della musica. Ma – appunto – tutto ciò non è nato oggi: durante i favolosi anni del ‘furore creativo’, tra il 1965 e il 1970 – anni citati e amati da Castaldo e a malapena apprezzabili, salvo rari casi, ancora oggi – l’autoproduzione da parte dei musicisti è un fenomeno assolutamente trascurabile.
Sono quelli infatti gli anni in cui il settore discografico si afferma come realtà industriale tout court e nascono le professioni specializzate: il tecnico di sala d’incisione, il tour manager, l’accordatore di chitarre da palco, il roadie tuttofare…
Semmai se c’è, in quel periodo e in quello immediatamente successivo, qualcosa di grande è la capacità del jazz di aprire strade nuove e inusitate alla musica, a tutta la musica: del suo contributo si arricchiscono l’Oriente e le scale modali (che sono anche occidentali), l’Africa, lo svincolamento dallo schema del be bop e delle scale blues con la flatted fifth… ma già nel 1946, ne La città del jazz di Lubin, il buon Armstrong nei panni (quasi) di se stesso pronunciava una battuta memorabile: a un musicista classico che tentava di suonare il piano a quattro mani insieme a lui e che indispettito lo riprendeva perché stava suonando «una nota tra il fa e il fa diesis che non esiste!», Armstrong rispose, aprendo un intero universo: «Non importa se esiste o non esiste, per me funziona!»
Se ciò è vero come è vero, è solo e soltanto il jazz che più di ogni altra musica ha scardinato gli universi conoscitivi aprendosi all’universo dei suoni, non solo quelli codificati. Ed è proprio per una sostanziale ignoranza di questo che Castaldo si ostina a trattare Luglio agosto settembre (nero) degli Area come un brano rock quando esso non fornisce neanche la percezione del rock: non ne ha la scala (è una vecchia canzone greco-macedone chiamata Yerakina), non ne ha la ritmica (un falso 4/4 in realtà andante verso i 5/4) e semmai il tutto ha il trattamento di un brano di free-jazz ibridato con una base melodica balcanica.
E che dire di tutta l’esperienza inglese di gruppi come Soft Machine e buona parte dei canterburyani, che i critici si ostinano a classificare come jazz-rock quando al massimo sono strutturati sulla rilettura jazzistica di un modulocanzone e del rock non hanno né la ritmica né le scale?
È il jazz che ha volato concettualmente e compositivamente alto in quegli anni, non il rock e men che mai il pop. È però interessante constatare come i risultati economici siano esattamente invertiti tra le due aree musicali: chi produce musica veramente innovativa paga con incassi irrisori, chi apparentemente è all’avanguardia e in realtà al massimo riassembla con altre vesti cose musicalmente già dette, fa affari d’oro. Certo sono pochi quelli che escono dalla forma-canzone, sia come struttura che come armonie.
Proprio un album di quegli anni, ritenuto una pietra miliare del rock, è Rock Bottom di Robert Wyatt: a riascoltarlo adesso, ancora mi domando dove sia andato a finire il rock, dato che ogni volta sono sempre più convinto di trovarmi di fronte a un album non solo inclassificabile, ma sicuramente frutto di un doppio rilassamento (fisico e mentale) che consentì al Wyatt post-incidente di uscire da ogni schema conosciuto per approdare a una sorta di musica trascendente, diremmo quasi post-rock ma anche post-jazz: «Il dottore era stupefatto.
Mi disse: “Doveva essere proprio ubriaco per rimanere così rilassato mentre cadeva dal quarto piano”. Se fossi stato appena un po’ più sobrio, probabilmente oggi non sarei qui: avrei teso tutto il corpo per la paura e quindi mi sarei fracassato». Anche quell’album, acclamato dai critici, non vendette un granché. E il rock e il pop non sono radicalmente cambiati come se quell’album fosse stata la lectio magistralis di una nuova era, anzi; bisognava anche saper suonare e comporre, per andare con quella corrente e oltre essa. Il che evidentemente non era né nelle corde dei musicisti né tanto meno in quelle dei produttori discografici. Volendo, il rock era (già) morto lì, né sarebbe mai più risorto.
Insomma, l’“ode in morte della musica” di Castaldo equivale a dire che Babbo Natale non esiste. Se ne faccia una ragione. La musica, in Occidente, è merce di scambio, è oggetto di mercato da un bel pezzo. Tanto per non andare troppo indietro nel tempo e nello spazio, basti pensare all’operosa borghesia meneghina rappresentata, per la musica, da Giovanni Ricordi, che già nel 1808 fonda la propria stamperia musicale, nel 1814 pubblica il primo catalogo e in pochi anni acquista la proprietà di tutto l’archivio musicale della Scala, con nomi come Verdi e Rossini. Ma già i musici di corte due secoli addietro, in tutta Europa, eseguivano musica che ben pochi comprendevano appieno, e che veniva valutata per la sua funzione di intrattenimento durante feste e banchetti più che per il suo intrinseco valore musicale; e i suonatori di musica non-liturgica – come quella per matrimoni, dai Balcani all’India – erano pagati non da chi organizzava l’evento ma dai partecipanti all’evento stesso – sempre che l’esecuzione fosse apprezzata. Il che mostra da un lato il disconoscimento del valore intrinseco di quella musica, dall’altro la sua riduzione storica, sociale e culturale a merce da intrattenimento.
Ancora pochi anni fa ho visto alcuni membri di sublimi gruppi di musica rom come i Taraf de Haïdouks e la Kocani Orchestra passare tra il pubblico per la questua dopo il concerto – regolarmente pagato dagli organizzatori – tanto era radicata in loro la memoria della natura e forma del rapporto con chi ascolta. Dietro al successo dei Beatles non c’è il genio creativo di Lennon e McCartney: piuttosto c’è lo straordinario fiuto – che oso chiamare olistico – di Brian Epstein, che intuisce che l’universo Beatles può, e anzi deve, essere venduto. Innanzitutto arrangiamenti e tecniche di incisione, poi abbigliamento, auto, comportamenti, persino il cibo. I Beatles sono catalizzatori e catalizzati, ma non inventano che assemblaggi di ciò che già esiste e che la tecnica mette loro a disposizione; Epstein, dietro di loro, inventa. Il fatto che certe sonorità incise su disco non fossero eseguibili dal vivo dimostra al di là di ogni dubbio lo spostamento della creatività su un piano che non era quello strettamente creativo.
E d’altronde, se dovessimo giudicare un gruppo anche dalla sua capacità di innovare la forma espressiva rispetto a ciò che già esiste, i quattro di Liverpool non si discostano mai dalla forma-canzone, non arrischiano mai non dico un’intera opera ma financo una suite. E dunque, di nuovo: di cosa parliamo, se e quando parliamo di musica?
Le categorie del buio e del fuoco, con cui Castaldo gioca come giocherebbe un dj che s’inventi un pretesto per una conduzione radiofonica, riuscendo anche a venderla a una emittente, sono giochi di compilazione orizzontale triti e straconosciuti – la musica che parla della notte a partire dai titoli, dalle copertine… E se provassimo invece a capire come si fa a esprimere la notte musicalmente, con scale accordi dissonanze silenzi? Perché i critici musicali nazional-popolari come i due Dioscuri di Repubblica, Castaldo e Assante, non ci spiegano – spartiti alla mano – chi si è sforzato di farci percepire il sapore della notte e come ci è riuscito, così come un critico letterario parla della combinazione delle parole e dei silenzi di un poeta? È – troppo facile nascondersi dietro il dito – tutto strumentale e ideologico – della eccessiva tecnicità di tale spiegazione, che escluderebbe dalla comprensione masse consistenti di lettori.
Per non essere meramente estetica, e dunque fuori contesto visto che parliamo di orecchio e di udito, la critica musicale deve parlare della musica per come viene scritta ed eseguita. Ma questo, evidentemente, non paga. E il critico musicale di turno può cavarsela mettendo assieme tutti i titoli rock, pop, jazz e classica che parlano di notte e di buio. Così il lettore medio (è a lui che ci si rivolge, no? E alla sua ignoranza, evidentemente, per blandirla e farsela amica) altro non deve fare che acquistare la collana di CD o di libri e si trova il lavoro già fatto. Dopo averla mandata a memoria potrà dire di conoscere tanta bella musica che parla di notte, ma non riuscirà mai a spiegare perché un accordo sia più notturno di un altro: al massimo potrà dire che il critico tale dice che una tale musica parla della notte, ma non avrà mai fatto né l’esperienza intellettiva né tanto meno quella esecutiva di una musica suonata per e dentro la notte.
È questo il punto più dolente di tutto il libro. A Castaldo sfugge del tutto un’idea della musica che non sia meramente delega e/o semplice aspettativa e immaginazione. Posso baloccarmi anni, fidandomi di ciò che egli invita a fare alla fine del libro, provando a immaginare Uto Ughi che va a pesca con Giovanni Allevi e finiscono nella casa di Hilde a giocare a tressette con Orietta Berti (non è un horror!) mentre Aretha Franklin cucina frittelle. La musica – tutta la musica – in Occidente, e a maggior ragione in tutti i Paesi in cui l’Occidente è penetrato come progetto e modello di vita, per sfuggire alla propria riduzione a merce ha una e una sola alternativa: occorre che chi ascolta, chi meramente ascolta, prenda in mano la sua vita e i suoi piaceri e decida di ri-costruirseli da sé.
C’è un bellissimo gioco-esercizio della scuola teatrale di Michail Cechov (erede eretico di Stanislavskij) e più o meno si chiama “il dono prezioso”. Ci si mette in circolo e colui che inizia passa al suo vicino un oggetto, dalla forma più neutra possibile: un cubo, un parallelepipedo, una sfera, senza differenziazione di colori, ornamenti e quant’altro valga a qualificarlo.
Questo primo partecipante deve sforzarsi di vedere – e quindi di investire emozionalmente in quell’oggetto – qualcosa di veramente prezioso, un dono che egli vorrebbe consegnare al suo vicino con tutto l’affetto possibile. L’oggetto passa di mano in mano, e ogni volta assume come per magia le connotazioni più svariate, a seconda della personalità e soprattutto della capacità di proiezione emozionale di chi lo consegna in quel momento. Esso diviene vasca per ippopotami nani dello Zimbabwe e cassetta di sicurezza della banca dei Nani e dei Troll. Ma non è mai lo stesso per nessuno, e il caleidoscopio di immagini scaturite da quell’oggetto apparentemente così banale danno il senso del potenziale creativo che si cela in ognuno.
I bambini, questo gioco, lo fanno da sempre; io stesso l’ho fatto con i mattoncini del Lego; bambini meno fortunati di me giocano ancora oggi con pezzetti di legno, sassi, rami, foglie e creano universi che nessun programmatore di computer né gioco di simulazione potrà mai ricostruire. Ognuno degli oggetti usati per giocare contiene in sé un numero di possibili combinazioni e variabili assolutamente imponderabile: dunque, è imputabile di genocidio della fantasia chiunque fornisca all’infanzia giochi già belli e pronti in cui bisogna dare la risposta ‘giusta’ per poter crescere bene e in fretta come perfetti cittadini, lavoratori, consumatori, elettori. Risposte che atrofizzano il potere creativo e spianano il terreno per la coltivazione in serie di intelletti da catena di montaggio, qualunque sia l’ideologia retrostante: “Produci consuma crepa sbattiti fatti crepa cotonati i capelli riempiti di borchie rompiti le palle rasati i capelli crepa crepa crepa crepa crepa…” (Morire – CCCP). Lo stimolo alla creatività costruisce al contrario intelletti capaci di trovare risposte imprevedibili e fresche, talvolta anche decisamente ironiche e spiazzanti, a situazioni di blocco apparentemente irresolvibili. Per citare di nuovo lo Zen: il maestro dice all’allievo, seduto immobile davanti a lui in perfetta posizione meditativa: «Se ti muovi ti picchio, se non ti muovi ti picchio».
Parrebbe una situazione di blocco assoluto e irresolvibile. E invece una soluzione possibile (solo una delle) è che l’allievo strappi il bastone dalle mani del maestro e lo picchi di santa ragione. Ergo: per superare un ostacolo bisogna moltiplicare i mondi possibili, oltre quelli dati, così come Dedalo uscì dal labirinto grazie alla percezione che esisteva anche la dimensione della profondità oltre a quelle date (imprigionanti) della larghezza e della lunghezza.
Ora: quante sono le soluzioni armoniche possibili nella musica temperata data una certa successione di accordi? Un numero grande ma definito. E nel rock? Molte di meno. E nel blues? Moltissime meno, veramente pochissime. E allora che cosa si vuole? Cavar sangue dalle classiche rape? Il rock e il blues sono morti da un pezzo perché ogni loro pretesa innovazione non è legata a soluzioni armoniche ardite o aperture armoniche verso mondi nuovi, quanto al potere combinatorio di ciò che già esiste oltre a timbriche, distorsioni, coloriture… insomma a tutta una serie di fattori che sconfinano nel non-musicale come, per esempio, nel visivo. Non va meglio nel pop, specie in Italia dove esiste un bel patrimonio di melodie tenacemente affondate nelle romanze d’opera: un numero grande, ma finito.
Da cui gli innumerevoli plagi neanche tanto celati, come ha dimostrato Elio durante un memorabile contro-Sanremo: e non è solo una faccenda che riguarda noi italiani. Se si riduce il numero delle soluzioni armoniche in un brano, e dunque le soluzioni possibili, può essere che Michael Jackson abbia copiato I cigni di Balaka di Al Bano (non lo affermo io ma Roman Vlad, incaricato dal tribunale). Per tornare al rock, i Led Zeppelin non hanno certo inventato nulla quando ri-suonano Dazed and confused: la novità sta nel modo di eseguirla, negli strumenti usati e nell’amplificazione del suono, infine nella fisicità dei musicisti stessi non meno che nel loro abbigliamento. Il contributo strettamente musicale è quasi pari a zero.
Eppure è paradossalmente grazie alla gente come loro (parole di B.B. King) che i musicisti blues di colore hanno potuto ricominciare a suonare in pubblico negli USA: i padri dei baby boomer, figli consumatori dei Led, avevano obliato il blues da un pezzo, e adesso erano i figli a riportargli in casa quella musicaccia fatta di dolore.
Altro caso: che cosa differenzia veramente un brano come You really got me oppure Louie Louie da un successo clamoroso come Smell like teen spirit? Sono sempre gli stessi tre accordi – variamente combinati – con voce, strumenti e contesti assolutamente diversi. Quarant’anni di storia del rock per non fare un solo passo avanti. Ma se fate tanto di osservare che la pappa musicale è sempre quella, e dunque sarebbe auspicabile un po’ d’aria nuova, si leveranno alti gli scudi di chi vuole vedere differenze a ogni costo. Ripeto: il valore musicale aggiunto, cioè nuovo, del 99,9% del rock attuale rispetto a quello di sessant’anni fa è pari a zero.
Ho provato a spiegare ai ragazzini di una scuola media di Bologna che i rapper di oggi non hanno inventato un bel nulla, che le sfide di insulti ritmati di Eminem e soci esistevano già cent’anni fa e le strofe si chiamavano Dirty Dozen, che quelle parole così significative rappate da una sconosciuta donna su una base di scratch – costruita in precedenza – non erano state scritte e cantate dalla Pina o da Meg ma dalla nostra santa nonna Giovanna Marini ne I treni per Reggio Calabria. E dunque, prima di scimmiottare gesti movenze e rime fuori dalla loro cultura nazionale, forse era il caso si studiassero la musica del passato per evitare di ripetere all’infinito le stesse cose e anche per tentare di dare loro stessi un contributo originale. Hanno dovuto ammettere che non avevo tutti i torti, ma hanno replicato che a loro la musica interessava FARLA, non studiarla. Il problema è che dietro quella risposta ho letto la voglia di competere e arrivare a essere famosi e riconosciuti; nulla a che vedere con il gioco innocente. Erano già indirizzati verso la produttività richiesta dall’industria.
A me però interessa la loro voglia di sporcarsi facendo musica, urticandosi i polmoni, spellandosi le dita e le mani con corde di strumenti e pelli di tamburi, magari anche slogandosi i polsi a furia di scratchare un piatto da dj e un cursore di mixer. È a questo desiderio FISICO che credo, quando mi interrogo sul futuro della musica; ed è la stessa soddisfazione che provo quando vedo mio nipote diventare paonazzo per tentare di tirare fuori una nota da un oboe – dunque non è il genere di musica quello che mi interessa.
C’è un’evidente stonatura e sproporzione – insomma qualcosa di serio non va – in un Paese in cui esistono quaranta milioni di possibili commissari tecnici e commentatori calcistici e un numero assai più piccolo di persone che realmente si sporca di fango tirando calci a una palla; la cosa diventa ancora più evidente quando si pensa ai milioni di spettatori inchiodati davanti alla televisione dalle imprese del Moro di Venezia prima e da Luna Rossa poi, come se di colpo tutti fossimo diventati marinai e – di nuovo! – navigatori, come nel Ventennio.
La situazione diventa infine drammatica se pensiamo ai milioni che ascoltano e consumano musica ogni giorno rispetto ai quattro gatti (in proporzione) che la musica la fanno sul serio. È a questi che credo quando penso al futuro della musica, non ai critici musicali e alle loro classifiche dei cento dischi imperdibili. Non mi importa che usino mandolini a pizzico piuttosto che un campionatore o una scatola di fiammiferi: il suono è destinato a cessare in ogni caso quando chi può controllare il proprio strumento lo zittisce e torna al silenzio, allo spazio primigenio da cui tutto può nascere, musica inclusa. E il suo desiderio di creare sarà tanto più forte quanto più egli saprà slegarsi dalla necessità di essere ascoltato da altri, visto da altri, infine pagato da altri per ciò che fa. Se questo non avviene bisogna rassegnarsi: la musica è già morta dentro di noi prima che fuori, nel mondo, e a nulla – men che mai oggi, visto che la morte di certa musica è già avvenuta da un bel pezzo –serviranno gli accorati lai dei bei nomi della critica musicale a comporre odi in morte della musica, rimpiangendo a oltranza i bei tempi passati quando la musica era vera e viva e loro stessi erano giovani e ribaldi e belli (mutatis mutandis, è esattamente come Oriana Fallaci che ripensa al Vietnam dei suoi vent’anni).
È un film già visto attraverso i secoli: il padre del padre del padre del padre del padre di mio padre, e magari ancora più indietro, si lamenterebbe allo stesso modo della musica di oggi mentre ai tempi suoi, quella, davvero era musica, ragazzi!
Come diceva il dàimon a Socrate: dovresti fare più musica.
(1) Di che cosa parliamo quando parliamo di musica, Augusto Q. Bruni, PaginaUno n. 13/2009