di Erika Gramaglia |
La logica gentiliana di un’istruzione di classe nella riforma Gelmini
Se lo scontro rovente che l’autunno scorso ha incendiato il mondo della scuola, in rivolta verso i provvedimenti del governo in materia di finanziamenti e riorganizzazione del sistema scolastico, fosse parso a qualcuno argomento di recente attualità, sarebbe solo la dimostrazione di quanto la coscienza e la memoria degli italiani abbia ormai raggiunto livelli di guardia preoccupanti. Nella realtà giuridica si tratta di argomento di lunga data, all’ordine del giorno fin dalla nascita dello Stato moderno, in quanto attiene, in senso generale, alla piena espressione dei principi democratici dello Stato liberale moderno. È chiaro infatti che solo una pubblica opinione in possesso di adeguati strumenti intellettuali è in grado di interagire efficacemente con gli organi istituzionali, sviluppando appieno il concetto di partecipazione democratica alla vita politica dello Stato. In questo contesto l’offerta scolastica è fondamentale, ma facilmente strumentalizzabile.
Un buon esempio in tal senso è la riforma Gentile, promulgata nel 1923 e definita dallo stesso Mussolini “la più fascista delle riforme”. Essa prevedeva, accanto all’innalzamento a 14 anni dell’obbligo scolastico, un corso elementare di cinque anni uguale per tutti, al termine del quale l’alunno aveva possibilità di scegliere tra la scuola di avviamento al lavoro, che precludeva qualsiasi ulteriore scolarizzazione, e la scuola media, che consentiva l’accesso ai licei scientifico e classico, tra cui solo quest’ultimo permetteva l’ingresso all’università. La riforma Gentile realizzava il concetto di scuola di classe: da una parte una scuola elitaria, destinata alla formazione di una classe dirigente plasmata sui principi ideologici conservatori e dominanti; dall’altra una scuola ‘del popolo’, funzionale a fornire un livello d’istruzione prettamente manuale alla classe lavoratrice, nella quale le materie umanistiche avevano minor spazio di quelle scientifiche (saper contare è necessario al lavoro di un operaio, saper pensare no). Una scuola che negava le risorse culturali necessarie alla formazione di una coscienza collettiva, indispensabile non solo per opporsi alla deriva dittatoriale delle istituzioni ma anche per comprendere i meccanismi economici del capitale; lo stesso capitale che appoggiava il fascismo e che necessitava di manodopera ignorante e sottomessa da sfruttare.
Su questo assetto incidono i successivi articoli 33 e 34 della Costituzione, che sanciscono la libertà di insegnamento quale presupposto e conseguenza della libertà di espressione. Ben consapevole che curare, organizzare e diffondere la formazione culturale e civile di un popolo significa garantire la qualità della democrazia, il legislatore si è preoccupato di farne materia costituzionale, imponendo allo Stato, senza alcun monopolio, il compito di istituire scuole di ogni tipo, ordine e grado, in modo da garantire a tutti la possibilità di accedere a un’istruzione scolastica libera e adeguata. A questo dovere statale corrisponde un vero e proprio diritto allo studio dei cittadini, da esercitare nella forma a essi più congeniale, in un’ottica di perseguimento comune del progresso economico e sociale del Paese.
Nonostante i principi posti dalla Costituzione, la concreta difficoltà di mettere mano all’ordinamento scolastico, dovuta alle istanze particolaristiche dei differenti gruppi politici presenti in Parlamento, ha di fatto bloccato ogni intervento fino all’inizio degli anni Sessanta. La differenziazione della scuola secondaria viene definitivamente superata solo nel 1962 con la legge 1859, attraverso la previsione di una scuola media unificata che permetta l’accesso a tutte le scuole superiori. Nel 1968 viene istituita la scuola materna statale, mentre nel 1969, sotto la spinta dei movimenti studenteschi, viene riformato l’esame di maturità e liberalizzato l’accesso alle università. Con la legge 820/1971 viene riformata la scuola elementare mediante l’introduzione del tempo pieno, pensato sia come risposta ai mutamenti intervenuti nel tessuto sociale italiano – primo fra tutti il progressivo inserimento delle donne nel ciclo produttivo – sia come laboratorio dove sperimentare forme di apprendimento mirate alle necessità dei singoli alunni.
Un’altra novità importante di quegli anni è l’approvazione, nel 1974, dei cosiddetti Decreti delegati, che introducono nella vita della scuola le rappresentanze dei genitori, del personale amministrativo, tecnico e ausiliario e, limitatamente alla scuola superiore, degli studenti.
Il filo conduttore di questi interventi, frutto delle spinte rinnovatrici di quegli anni, è quello di rendere la scuola meno impermeabile alla società, fornendo all’offerta scolastica una duttilità tale da adattarsi alle diverse realtà italiane, fatte di centri urbani a forte densità di popolazione ma anche di regioni a vocazione agricola caratterizzate da piccole comunità. Un filo conduttore che trascende le azioni dei singoli governi e che, come vedremo, si pone in netta antitesi con i provvedimenti successivi.
La spinta rinnovatrice nel mondo della scuola si sopisce provvisoriamente durante gli anni Ottanta per poi tornare d’attualità politica nel decennio successivo. Non a caso: l’ondata di privatizzazioni avviata nel 1993 non poteva lasciare fuori dal libero mercato e dalla corsa al profitto un settore importante come l’istruzione. A partire dal 1996 vari sono stati i tentativi di riforma che si sono affastellati al fine di riorganizzare il sistema scolastico – molti dei quali mai entrati in vigore o cancellati da provvedimenti successivi – il cui unico effetto è stato di creare un disordine normativo capace di disorientare anche il più attento degli osservatori.
Il primo tentativo di riorganizzazione del sistema scolastico attribuibile alla seconda Repubblica è la cosiddetta riforma Berlinguer, varata con legge 425 del 1997 dal ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Prodi, Luigi Berlinguer, ex rettore dell’università di Siena. La riforma si proponeva l’innalzamento a 15 anni dell’obbligo scolastico, la riforma dell’esame di maturità, l’autonomia scolastica e il riordino dei cicli di apprendimento. Non è possibile valutarne gli effetti sul sistema nel suo complesso poiché, con il cambio di maggioranza seguito alle elezioni del 2001, la riforma Berlinguer è stata interamente abrogata dalla legge 53 del 2003, meglio nota come riforma Moratti, la quale a sua volta ha seguito la stessa sorte, finendo la sua parabola giuridica – senza neppure entrare in vigore – con l’abrogazione a opera del successivo governo di centrosinistra; che però non è stato in grado di emettere un provvedimento sostitutivo. Onere lasciato al governo Berlusconi, che il 29 ottobre 2008 ha portato ad approvazione la legge 169/2008, la cosiddetta riforma Gelmini, relativa alla scuola primaria e secondaria.
Capisaldi della riforma sono la reintroduzione del maestro unico, contro i tre ogni due classi previsti dal sistema precedente introdotto nel 1990, e la riduzione del modulo orario applicato al tempo pieno, con possibilità per i singoli istituti di provvedere, a proprie spese però, al mantenimento del modulo precedente. Sul versante dei finanziamenti statali alla scuola pubblica il provvedimento recepisce l’articolo 64 della legge 133/2008 (legge finanziaria triennale) che prevede forti riduzioni di spesa per il triennio 2009/2012; tradotti in cifre, in base alla definizione dei criteri operativi stabiliti con decreto di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, i tagli di spesa corrispondono a 87.400 esuberi tra il personale docente e a 44.500 tra il personale ausiliario.
Lo stesso decreto consente inoltre alle università di trasformarsi, previo voto di maggioranza assoluta del senato accademico, in fondazioni di diritto privato, ossia in enti dotati di autonomia gestionale, organizzativa e contabile; in altre parole si aprono le porte alla progressiva privatizzazione della scolarizzazione superiore, con le conseguenze prevedibili sulla reale effettività del diritto allo studio così come concepito dalla Costituzione. Tale norma infatti si pone in modo sinergico con un altro provvedimento emesso dal ministro Gelmini, il decreto legge 180/2008, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 10 novembre 2008 e approvato dalla Camera l’8 gennaio scorso, intitolato “Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario della ricerca”, che prevede l’innalzamento del turn-over dei docenti dal 20 al 50% per gli istituti considerati “non onerosi” (ossia con una spesa per il personale inferiore al 90% dello stanziamento statale), fino al blocco, previsto per gli istituti considerati “onerosi”, dei bandi di assunzione per nuovi docenti, ricercatori e personale amministrativo.
La riforma Gelmini, con i suoi tagli, la spinta alla privatizzazione e la conseguente riduzione del peso dell’offerta formativa pubblica a livello globale, si pone in modo lineare con le politiche economico-finanziarie seguite dai governi italiani, indipendentemente dal colore, negli ultimi anni. A partire dalla finanziaria del 2002 abbiamo assistito a una progressiva riduzione dei finanziamenti alla scuola pubblica. Detta con altre parole, e attuata con una modalità diversa, si sta ritornando alla scuola di classe della riforma fascista: una scuola pubblica svuotata di risorse umane e finanziarie che non potrà offrire altro che una povera educazione di base, alla quale, chi potrà permetterselo, non iscriverà i propri figli, scegliendo per loro una scuola privata in grado di dargli una più completa educazione. A far da contrappeso vi è stato infatti l’aumento dei finanziamenti previsti alle scuole private parificate. L’argomento merita una digressione sulla condizione giuridica di tali enti.
L’articolo 33 della Costituzione attribuisce agli enti privati la possibilità di istituire scuole e istituti di educazione, ma precisa che questo debba avvenire senza oneri per lo Stato. Eppure ogni anno la finanziaria predispone dei finanziamenti diretti agli istituti parificati, in base a una norma, la legge 62/2000, varata dal ministro Berlinguer, che fissa i criteri relativi alla parità scolastica tra scuole pubbliche e private. La norma, in via preliminare, afferma l’appartenenza delle scuole parificate al sistema nazionale di istruzione, riconoscendo quindi ai titoli di studio da esse rilasciati validità legale equipollente a quelli rilasciati dagli istituti pubblici; garantisce inoltre alle scuole parificate piena libertà per quanto riguarda l’orientamento culturale e gli strumenti pedagogico-didattici da utilizzare. In merito ai finanziamenti la norma, per aggirare il divieto costituzionale, pone in essere un sottile artifizio: non prevede nuovi capitoli di spesa diretti esclusivamente agli istituti privati, ma li inserisce, con vincolo di utilizzo, nei capitoli di spesa già previsti in finanziaria per il sistema pubblico nazionale. Inoltre, la legge 60/2000 introduce il meccanismo dei buoni pasto, ossia di contributi diretti riconosciuti alle famiglie che scelgono di iscrivere il proprio figlio a una scuola parificata, che altro non sono che contributi indiretti alle scuole stesse. A questi vanno sommati gli sgravi fiscali derivanti dall’applicazione alle scuole paritarie del regime fiscale relativo agli enti senza fini di lucro.
Si stima che a partire dalla finanziaria del 2002, i contributi, diretti e indiretti, alle scuole parificate ammontino ormai a un miliardo di euro all’anno. La maggior parte degli istituti paritari, che rappresentano ormai il 20% dell’offerta educativa nazionale, è gestita direttamente o indirettamente da ordini religiosi facenti capo alla Chiesa apostolica romana. Per questo motivo, la Conferenza episcopale italiana, nella persona del monsignor Stenco, ha fortemente osteggiato il tentativo di Tremonti, nel dicembre scorso, di ridurre il capitolo di spesa relativo alle scuole paritarie nella finanziaria 2008; tentativo immediatamente abbandonato dal ministro, probabilmente intimorito dall’ira dei prelati. Che strano Paese il nostro: migliaia di studenti, centinaia di cortei in tutta Italia, mobilitati per difendere la scuola pubblica contro i tagli della riforma Gelmini, non hanno fermato il progetto del governo, mentre alla Chiesa, per difendere il proprio status quo, è bastato lanciare un’occhiata di traverso.
Lo scenario si presenta fosco e foriero di cattivi presagi. Mai come ora la scuola pubblica è stata attaccata su più fronti: da una parte la riduzione dei finanziamenti, dall’altra l’ingresso nel mercato dell’istruzione, perché di mercato in senso economico si tratta ormai, di soggetti privati dotati di una indiscutibile capacità concorrenziale. Come abbiamo visto, la situazione attuale altro non è se non il risultato di un decennio di interventi che progressivamente hanno modificato, minandola alla base, la struttura finanziaria della scuola pubblica italiana. Un pericolo evocato da molte voci, anche in periodi che potrebbero essere considerati non sospetti. Voci che il discorso pronunciato da Pietro Calamandrei al III congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN) tenutosi a Roma nel lontano 1950, ben sintetizza:
“Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuole istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada. Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, a impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. E allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori, si dice, di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figliuoli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A ‘quelle’ scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private”.
La profezia di Calamandrei, per quanto catastrofica, è stata superata dalla realtà dei fatti. Se Calamandrei parla di un partito dominante a cui presumibilmente si oppone un partito minoritario, l’amara constatazione che nasce dall’analisi fin qui svolta è che ci troviamo di fronte a un disegno condiviso da entrambe le ali del Parlamento. Se è vero infatti che le coalizioni di centrodestra hanno emesso un numero superiore di provvedimenti in materia, è altrettanto vero che le coalizioni di centro-sinistra hanno avuto la responsabilità di iniziare, almeno formalmente, l’intero processo di parificazione tra scuola pubblica e scuola privata.
Si tratta insomma di un fenomeno espressione non di un partito dominante, ma di una trasversalità di forze politiche, non scevre da influenze di altri poteri forti: uno è la Chiesa, per la quale le scuole private cattoliche rappresentano introiti economici e controllo ideologico; l’altro è il capitale, che si avvantaggia non solo di una classe lavoratrice formata esclusivamente sulle necessità produttive – le tre ‘i’ di Berlusconi, inglese impresa informatica – ma anche di università divenute fondazioni private nelle quali potrà controllare la direzione della ricerca a proprio proficuo vantaggio, trasformandola da cultura a bacino di brevetti industriali finalizzati al profitto d’impresa.
Il dubbio è quello di trovarsi di fronte ai primi capisaldi di una nuova forma di dittatura: la dittatura della cultura. Come non pensare immediatamente a 1984? Una società quale quella concepita da Orwell nel famoso romanzo, in cui il potere si manifesta attraverso il controllo delle coscienze e la rimozione del passato, è possibile solo nel momento in cui l’istruzione diventa strumento di omologazione ai principi stabiliti dal potere stesso. In questo modo, escludendo a priori ogni forma di opposizione, stroncandola sul nascere proprio negando quegli strumenti culturali necessari alla sua stessa formazione, il potere conserva se stesso.
Nel romanzo, il protagonista Winston Smith, scolarizzato educato e controllato, fa parte della classe privilegiata; sotto di lui milioni di prolet, l’85% della popolazione di Oceania, rimasti l’unica speranza di riscatto e cambiamento sociale; ma da parte loro “non vi è nulla da temere: abbandonati a se stessi, continueranno – generazione dopo generazione, secolo dopo secolo – a lavorare, generare e morire, privi non solo di qualsiasi impulso alla ribellione, ma anche della capacità di capire che il mondo potrebbe anche essere diverso da quello che è. Potrebbero diventare pericolosi solo se il progresso tecnico-industriale rendesse indispensabile alzare il livello della loro istruzione”, ma poiché non è al momento necessario, “il livello di istruzione della popolazione sta in effetti peggiorando”.