Stanotte ho fatto un sogno da vee-jay, un sogno cioè in cui qualcuno si divertiva a sostituire con rapida mano da vero funambolo un particolare visivo con un altro.
Nessuna sfumata: in una frazione di secondo via un particolare e dentro un altro, a baionetta. Non sono però tanto sicuro che fosse un sogno: m’è rimasto uno strano sapore in bocca. C’era dunque questo baraccone da fiera paesana o da luna park pieno di luci colorate, col suo bravo banco di legno lucidato dal tempo più che dai gomiti degli avventori – men che mai dalla solitamente popputa banconista di felliniano stile che dietro il predetto bancone si spogea.
Dietro di lei un altrettanto classico carosello animato di figure di vario genere – il ricordo qui è un poco sfumato.
Quando le figure si muovono voi, con il vostro fucile ad aria, dovete tirarle giù, una dopo l’altra, e di solito se vincete qualcosa si tratta di un animale di peluche enorme, tipo un pulcino giallo fosforescente alto un paio di metri che nessuno sa mai dove mettere. Stavolta i pupazzi animati, udite udite, avevano tutti la faccia del Silvio nazionale con annesso ghigno a trentadue carati. A gambe divaricate, con fucile imbracciato, miravo impavido e determinato attraverso il mirino. POP! La prima faccia veniva giù. Ma ricompariva subito a venti centimetri di distanza. POP! E giù un’altra, ma subito ricompariva, e via così per altre quattro volte. Faccia compiaciuta della poppona: «Forza giovinotto! Miri bene, non è difficile!» Inspiravo profondamente seguendo con lo sguardo il carosello. Mi facevo ricaricare velocemente il fucile dalla tenera poppona e ricominciavo a sparare di buona lena. POP! POP! POP! POP!
Ve la faccio breve: più ne tiravo giù, più quelle facce malefiche ricomparivano in altri settori, sempre più ghignanti, sempre più sfottenti… e per giunta adesso mi sembrava che ognuna di quelle facce se ne andasse in giro per conto proprio, non più ordinatamente e un po’ stupidamente collocata sull’invisibile binario che le portava in giro, ma del tutto autonome, come impazzite. Rideva il ghigno di Silvio, e adesso rideva anche la poppona, sgangheratamente, coi lati della bocca tirati all’insù all’inverosimile…
Qualche ora dopo ero in cucina a far colazione e ho schiacciato il telecomando del lettore CD. Si sono sparse, a volute lente come un serpente che si alza dalla cesta, le note di I want to be happy (Voglio essere felice), scritta qualche decennio fa da un bel più nobile presidente, il sublime Lester ‘Prez’ Young, e adesso reinterpretata dal clarinetto sottile di Don Byron. Ahhhhhhh, ho tirato un sospiro di sollievo.
Ecco un presidente in cui mi riconosco. E la giornata è scivolata via molto, molto meglio.
Sono tornato su quel CD a metà mattinata, me lo sono messo su al lavoro e ho fatto una scoperta, tanto più piacevole quanto inaspettata, e che mi riannodava al sogno della notte appena trascorsa. Il 53enne clarinettista del Bronx assomiglia un po’ alle paperelle o agli orsi che dovete tirar giù nei caroselli da fiera. Non finisci di inquadrarlo attraverso il mirino del tuo senso musicale che POP!, ricompare da un’altra parte.
L’ho seguito dal suo esordio folgorante, Tuskegee Experiments, black music dura e pura tra funk-jazz, poesia, denuncia della scienza dei bianchi e invettiva. A sorpresa mi ricompare davanti con Bug Music, un disco di musiche del Cotton Club degli anni ’30, funamboliche, incredibili, dove tutte le note sono scritte, anche quelle delle ‘improvvisazioni’ soliste. Non finisco di riprendermi dalle risate convulse che mi procura una versione ragtime della Carmen, che il ragazzo mi spara un omaggio alla musica del più grande funambolo della musica klezmer contemporanea, Mickey Katz, e alle parodie delle canzoni per i vari gruppi etnici presenti negli Usa. Insomma, ho smesso di preoccuparmi o di perplimermi (come direbbe Rocco Smitherson) e mi sono goduto tutto quello che tirava fuori dal cilindro, godendo del farmi sorprendere ogni volta.
Stavolta pensavo di averlo fregato, dato che m’ero guardato tempo addietro una bella intervista su Youtube in cui il nostro spiegava il percome e il perquando di quest’album, Ivey-Divey, formalmente ispirato alle registrazioni di Lester Young in trio con Nat King Cole e Buddy Rich. Un album che, en passant, era il suo primo album in cui suonava anche il sax tenore, e che aveva ottenuto la nomination ai Grammy per il miglior disco strumentale, oltre a essere eletto disco dell’anno dalla rivista Jazz Times. Un album in cui Cole e Rich erano sostituiti dal talentuoso Jason Moran al piano e, udite udite, da Jack DeJohnette alla batteria.
M’ero deliziato ascoltando Byron parlare tecnicamente di quello che aveva voluto fare, ma con la sua solita impagabile souplesse: «Anni fa ho deciso che dovevo migliorare il mio modo di suonare perché, come clarinettista, non ero riuscito a raggiungere la fluidità che solo i sassofonisti hanno – è una grossa difficoltà tecnica e devi davvero padroneggiare il clarinetto per riuscirci… Così ho preso del materiale di Coltrane e ho cominciato a studiarlo, ma nel contempo ascoltavo collateralmente Lester Young. E mi sono accorto che Young poteva suonare avendo a disposizione tutti gli intervalli armonici di una scala mentre Coltrane aveva intervalli molto più larghi, cosicché Young poteva suonare roba davvero strana… un modo clarinettistico di suonare il sax. In quell’album (registrato nel marzo-aprile del 1946 ma pubblicato solo nel 1951 come The Lester Young Trio, n.d.a.) Young è di buon umore e sembra ci sia il sole che splende dappertutto. Non volevo semplicemente fare un omaggio a Young, quanto piuttosto far capire alla gente di oggi, con un linguaggio contemporaneo, la statura che possedevano questi musicisti». Una bella dimostrazione di modestia e soprattutto un atto di grande rispetto sia ai grandi del passato (che prima di tutto si devono studiare e solo poi omaggiare, se del caso) e poi al pubblico.
L’omaggio in questo caso è in quattro brani, incredibilmente puliti e vivi come I want to be happy (traccia di apertura al clarinetto basso e con un fantastico pedale di Moran che fa pensare all’attesa di una felicità che davvero arriverà) e poi I cover the waterfront, I’ve found a new baby (un ragtime, in origine, ma stravolto quel tanto che basta a renderlo cubista) e ben due versioni di Somebody loves me. La rilettura è superba ma, come preannunciato, tutto è meno che un esercizio. Non potrebbe esserlo anche per le qualità intrinseche degli altri due musicisti in ballo. Moran sembra abbia ascoltato, mandato a memoria e digerito l’intero frasario del pianoforte dai tempi di Jelly Roll Morton in avanti.
DeJohnette (che per chi non lo sapesse è anche un ottimo pianista oltre che un monumento vivente all’arte della batteria) è capace di pensare la sua batteria in termini di completezza musicale, cioè in accordi, dissonanze, contrappunti e vertiginosi assolo. Basta e avanza per riproporre interi repertori – non solo quello proposto su disco – ridigeriti e metabolizzati dall’umanità. Ne sono testimonianza i brani di Miles Davis che seguono: non è il Davis da canzone pop, ma quello avanti anni luce che compose Freddie Freeloader, sui pedali modali di Kind of Blue e soprattutto architettò In a Silent Way su un tema del compianto Joe Zawinul.
Nel primo caso la rilettura è vertiginosa e fa pensare a un’altissima capacità di ascolto reciproco. Nel secondo Byron gioca parecchio al contemporaneo abolendo possibili riletture newage-bucoliche del tema – ma a ragione. Il lirismo viene fuori comunque, anche se non c’è più il piano elettrico di Hancock, così come The goon drag riesce graziosa oltre l’autore (Sammy Price). Infine, quando si ascoltano l’uno dopo l’altro i quattro brani composti da Byron – Himm (For our lord and Kirk Franklin), Abie the fishman, “Leopold, Leopold…”, Lefty teachers at home – tutto il senso dell’operazione viene finalmente fuori. Lester Young non è (più) l’oggetto di un omaggio. Piuttosto, è una piattaforma da cui partire per esplorare se stessi come musicisti, da soli e nell’interazione con gli altri, tant’è vero che tutte le possibili idee di Lester Young finiscono per atterrare in pieno nell’orto musicale di Don Byron.
Lo stesso titolo dell’album è una riprova di come non fare una rilettura piatta e omaggiante. Come molte altre espressioni del jazz, anche questa, nel senso in cui la usava Young, voleva indicare una sensazione di tristezza permanente, a causa del fatto che il vivere nel mondo veniva filtrato dal blues, cioè una vita con un perpetuo feeling blues, ma Byron, con un guizzo di civetteria la fa diventare una sorta di lacrima asciutta a lato dell’occhio. La sensazione magari rimane, ma l’occhio e anche il cuore sono più lucidi. Solo così è possibile passare attraverso tutta la materia musicale come se fosse la terra, ma granello per granello, e infine elevarsi da essa anche solo semplicemente per scherzare.
Mi diverte questo disco. Mi appassiona ascoltarlo pensando che Byron è come uno studente che si appassiona alle cose che studia, esattamente come lo era Coltrane, e non smette mai di studiarsele e ristudiarsele fino a che, un bel giorno, si spicca il volo. Ed è allora che (per citare il compianto Herbert Pagani) grazie a questo sforzo costante, il nostro tempo quotidiano diventa musica.
Don Byron, Ivey-Divey, Blue Note Records, 2004