di Giorgio Morale |
Disimpegnatosi lo Stato, è la corsa ai rapporti privati, alle clientele, agli amici degli amici. Viaggio nel ‘terzo settore’, dove le organizzazioni religiose spadroneggiano e impongono direttive etiche tra sovvenzioni pubbliche, relazioni politiche e lottizzazione
Scrivere a partire da un dato di realtà
Nel 1998 lessi sul Corriere della Sera di una madre che diventava prostituta perché convinta di riuscire a trovare l’assassino della figlia attraverso le frequentazioni che questa scelta le permetteva.
E ci riusciva, suscitando la commozione del suo Paese quando la storia veniva resa pubblica. La vicenda avveniva in Grecia, a Salonicco, ma nella mia mente trasferii naturalmente tale storia in Italia. Erano gli anni degli sbarchi dall’Albania, in cui criminalità e prostituzione nell’immaginario collettivo italiano battevano nazionalità albanese. Già allora i problemi dell’immigrazione e del lavoro erano centrali come adesso, anche se non si sapeva ancora che l’Occidente sarebbe piombato in quella perdita di garanzie nel lavoro e nella società che gli economisti giustificano dicendo che viviamo la più grande crisi economica dopo quella del ’29.
Cominciai a parlare con immigrati e italiani che lavoravano con immigrati e presto capii che ciò di cui io potevo parlare non era la realtà degli stranieri. Come parlare di ciò di cui tanti potevano parlare meglio di me? Come potevo essere io a raccontare la vita degli immigrati, quando essi stessi potevano raccontarla meglio di me, come fa sempre più una ricca letteratura dell’immigrazione in lingua italiana?
Quelli che fanno i soldi con gli sfigati
Ciò di cui io potevo parlare era qualcosa che ci riguardava molto da vicino: ciò che fanno gli italiani. Venivo scoprendo che il pregiudizio, il disprezzo, il cinismo erano persino tra quelli che avrebbero dovuto accogliere gli immigrati e prodigarsi con gratuità e che invece si rivelavano come ‘quelli che fanno i soldi con gli sfigati’. E parallelamente scoprivo che c’erano sfigati anche all’interno di ‘quelli che fanno i soldi con gli sfigati’, che anche in alcuni centri di volontariato e del terzo settore si ricreavano meccanismi di sfruttamento, di discriminazione, di perdita di democrazia e garanzie. Anzi, l’essere tali centri opere a fin di bene giustificava forme di lavoro che hanno addirittura anticipato la precarizzazione che sarebbe esplosa qualche anno dopo. Ne derivava un imbarbarimento delle relazioni degli operatori fra di loro e fra gli operatori e gli utenti. Meccanismi, questi ultimi, che sono andati crescendo negli ultimi anni. E come potrebbe essere altrimenti, quando tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo certe associazioni hanno del tutto assunto la logica del sistema di cui dovrebbero rappresentare un’alternativa e sono diventate vere e proprie aziende operanti con logiche da aziende? O alcune, addirittura, sono nate proprio per svolgere un’opera di rincalzo a forze di sistema, come loro emanazione e con il loro sostegno?
E tu chiamale onlus (organizzazioni non a scopo di lucro)
«Il bilancio di San Patrignano è di 31,1 milioni di euro nel 2008. 140 sono gli operatori volontari, cui si aggiungono 350 tra dipendenti, collaboratori e consulenti» mi dice l’avvocato Pietro Massarotto, presidente del Naga, associazione di volontari di Milano che si occupa di assistenza sanitaria e legale agli immigrati clandestini.
Siamo a parlare nel suo studio. Lui digita, legge sullo schermo e mi fa degli esempi. Altro esempio: «La comunità S. Egidio conta circa 50mila aderenti, in 73 Paesi nei cinque continenti. Chi ha 50mila aderenti è ancora un’associazione di volontariato?»
Mi appassiono ai numeri e quando sono a casa accendo il computer e digito su un motore di ricerca qualche altro nome dei più noti… La Caritas nel 2007 ha un bilancio di 37 milioni di euro. Il bilancio della comunità fondazione Exodus è di 8.992.376 euro nel 2006 e di 9.957.656 euro nel 2007. Nel 2008 i dipendenti sono saliti a 307 unità, i collaboratori a 194 e i volontari a 363. Le sedi in tutta Italia sono 27, con le realtà collegate diventano oltre 40. La Compagnia delle Opere, “associazione di promozione sociale senza scopo di lucro”, ha 41 sedi, e secondo dati al 31 dicembre 2008 associa oltre 34.000 imprese, la maggioranza delle quali sono piccole e medie aziende, e 1.086 organizzazioni non profit; arriva a impiegare, su tutto il territorio nazionale, oltre 54.000 persone, fra addetti e volontari stabili. Il bilancio del 2008 è di 1.266.217 euro, di cui 611.154 provengono da contributi di enti pubblici.
Né stato né mercato… ma stretti stretti allo Stato
Il termine terzo settore è stato coniato per indicare soggetti che, almeno in linea teorica, operano tra lo Stato e il mercato. Esso svolge attività di interesse sociale: definizione molto ampia, si va da attività in favore di soggetti in estremo bisogno (immigrazione, tossicodipendenza, prostituzione, emarginazione), ad attività sportive, ricreative, culturali e per il tempo libero. Il fenomeno oggi ha dimensioni enormi. Basti pensare che al 2008 nella sola Lombardia ci sono 4.407 associazioni iscritte all’albo regionale del volontariato, di cui 855 associazioni non a scopo di lucro, 677 associazioni di solidarietà familiare, 446 associazioni di promozione sociale. Lo Stato e la pubblica amministrazione hanno progressivamente delegato loro la maggior parte dell’azione sociale.
Caratteristiche del terzo settore dovrebbero essere il collocarsi al di fuori dal mercato e l’assenza di fini di lucro: tutti gli utili prodotti dall’attività dovrebbero essere per definizione reinvestiti nell’attività stessa. In effetti sono compresi nel terzo settore sia soggetti di volontariato puro che sopravvivono in condizioni di precarietà, sia grandi organizzazioni nazionali come Caritas, Arci, Acli, Exodus, S. Egidio, San Patrignano, Compagnia delle Opere. Anzi, la configurazione di qualche soggetto è ormai diventata semi-istituzionale: penso per esempio a una molto discussa attribuzione a San Patrignano della gestione della Casa di lavoro nell’istituto di pena di Castelfranco Emilia in provincia di Modena: per la prima volta nell’Italia moderna la gestione della giustizia affidata a privati.
Una definizione che non definisce
«Il fatto è che terzo settore è una definizione residuale» dice Pietro Massarotto, «indica ciò che non è né privato né pubblico, perciò definisce poco e comprende soggetti diversi: fondazioni, comunità, associazioni, onlus, cooperative sociali, enti di volontariato, ong. Tant’è vero che si discute se le cooperative possano appartenere a pieno titolo al terzo settore: qualcuno lo esclude, anche se molti soggetti che operano nel terzo settore sono cooperative. Viceversa ci sono enti di volontariato puro che non si riconoscono nel terzo settore: non hanno una delega dallo Stato e non ricevono finanziamenti pubblici». Nei fatti, in tante realtà del volontariato e del terzo settore molto in vista e maggiormente sostenute dallo Stato e dalle amministrazioni locali ormai i criteri economici sono prevalenti. Tali soggetti oggi agiscono come normali soggetti economici, pur godendo di particolari vantaggi: sovvenzioni pubbliche e private, lavoro gratuito fornito da volontari, di cui tanti sicuramente spinti da tutt’altre motivazioni, o dallo stesso Stato anche attraverso l’assegnazione come operatori di giovani che svolgono il servizio civile nazionale.
Una obiezione politica
Una fondamentale obiezione politica è che occuparsi dei servizi essenziali al bene pubblico dovrebbe spettare allo Stato, mentre l’attività volontaria dei singoli non dovrebbe essere sostitutiva, semmai aggiuntiva, motivata da situazioni di urgenza e di particolare necessità, e da svolgersi in condizioni di assoluta gratuità. «Quando non esisterà più nessun clandestino e l’ultimo degli immigrati avrà ricevuto il diritto all’assistenza dal servizio sanitario nazionale, il Naga non avrà più motivo di esistere» dice il presidente del Naga. “Più società meno Stato”, recita invece lo slogan della Compagnia delle Opere.
D’altra parte è vero che l’apparato statale non è sempre stato l’unico soggetto a occuparsi delle necessità sociali; ed è vero che negli anni Ottanta, di fronte a uno Stato inefficiente e corrotto, il diffondersi del volontariato ha rappresentato una ripresa dell’iniziativa della società e degli ‘uomini di buona volontà’; è sembrato poter essere una possibilità di impegno che superasse gli steccati di ideologie e schieramenti, nonché i modelli prevalenti di una società improntata all’egoismo e alla prevaricazione; e per molti così è stato per alcuni anni.
«Ancora oggi bisogna distinguere all’interno del terzo settore» dice Massimo Rossi della onlus Vento di terra che si occupa di cooperazione internazionale. «Esso», continua, «ha una funzione che mai lo Stato potrebbe ricoprire: dare modo alla società civile di valorizzare istanze e saperi in termini di intervento sociale e solidarietà. Inoltre l’apparato statale ha utilizzato il volontariato in aree ove non riusciva a intervenire, in terre di nessuno e di conflitto ove l’operatore istituzionale non sarebbe accettato: prostitute, tossici… Infine credo che il terzo settore abbia la funzione di difendere i diritti umani, anche quando calpestati dagli apparati statali».
Il fenomeno ha cominciato a configurarsi come problematico quando il rapporto tra l’intervento statale e quello di altri soggetti si è invertito e lo Stato ha cominciato a delegare totalmente i compiti sociali. Perché a questo punto molte realtà del mondo del volontariato hanno smarrito la coscienza della propria diversità adeguandosi, in nome di vantaggi immediati, ai meccanismi del sistema inizialmente rifiutati.
Hanno consolidato un sistema di relazioni con il potere che le pone al di fuori da ogni vero controllo, che comunque con l’esperienza acquisita sanno benissimo come aggirare; quindi per il loro carattere dominante impongono un modello economico e culturale, con il risultato di screditare progressivamente il fenomeno nel suo insieme e di nuocere ad associazioni che hanno tutt’altre motivazioni. Il tutto, nonostante le dichiarazioni di fede antistatalista, pagato ancora con denaro pubblico.
Perché lo Stato si disimpegna in favore del terzo settore?
Due risposte sono possibili. Una di tipo ideologico: perché si pensa che lo Stato debba per principio essere non troppo pervasivo e limitare il suo intervento. Una di tipo pratico: perché si pensa che il servizio pubblico sia più burocratico e meno efficiente di quello reso dal terzo settore. In realtà non è possibile un’affermazione univoca.
Per esempio paesi come Francia e Germania, dove il peso del terzo settore nella sanità è molto minore che in Italia, sono la dimostrazione che il servizio statale non è per definizione meno efficace e più costoso. Viceversa la Lombardia, la regione italiana dove il servizio sanitario è più terziarizzato, è quella che ha visto maggiormente impennarsi le spese per la sanità. L’opzione alla fin fine si riduce a una scelta di tipo politico, sostenuta da una ideologia che trova terreno fertile nei limiti oggettivi e nella cattiva reputazione di cui gode tutto ciò che è “pubblico” in Italia.
Il sistema Milano, la fase precedente: tutti alla pari, lottizzazione permettendo
L’ente pubblico si è defilato dall’impegno diretto, ma ha continuato a sovvenzionare e via via ha esercitato un condizionamento sull’intervento, che si è perfezionato con l’imposizione di direttive non solo tecniche, ma politicoideologiche.
Fino a un paio di anni fa il Comune emetteva un bando in cui precisava le somme disponibili e gli obiettivi di massima, dopodiché i vari soggetti presentavano i loro progetti, ai quali venivano assegnati dei punteggi secondo criteri previamente esplicitati: i concorrenti tutti alla pari, in teoria, sulla linea di partenza. In realtà, come è facile intuire nell’Italia lottizzata, basta guardare i nomi dei vincitori dei bandi per constatare chi ha progressivamente fatto la parte del leone: la Compagnia delle Opere, legata al presidente della regione Lombardia e al movimento di Comunione e liberazione da cui egli proviene, anche a spese dell’area cattolica progressista (Caritas) e dei soggetti laici.
«È un problema generale» dice a questo proposito Massimo Rossi. «Non credo che il tasso di corruzione nel terzo settore sia superiore a quello di altri settori. Viviamo una lenta deriva, il problema è il livello di coscienza di questo Paese in caduta libera. Finché non si affronterà il problema della corruzione, in Italia non si farà un passo avanti».
Il sistema Milano, la fase attuale: verso lo Stato etico?
Negli ultimi due anni il comune di Milano ha introdotto nei bandi per iniziative rivolte alle aree del disagio una serie di principi e dettagliati regolamenti, rivolgendosi non più a tutti indistintamente, ma principalmente ai soggetti con cui ha già rapporti di collaborazione e stretto convenzioni, in nome della necessità di avviare una politica basata sull’unità di intenti.
A inaugurare tale fase è stato il Patto di legalità e socialità nato nell’estate del 2006 da un’intesa politica fra prefettura, Provincia, Comune e Casa della Carità e che dettava delle regole di comportamento per i campi rom. Patto talmente dubbio nella sua validità legale e nelle norme che dettava che persino chi aveva avuto assegnata la gestione dei campi avanzava dubbi.
“Noi non lo applichiamo, perché è semplicemente impossibile farlo” diceva don Massimo Mapelli della Casa della Carità. “Si vogliono obbligare operatori sociali come noi a fare la parte dei poliziotti, controllando chi entra e chi esce, con limiti di orari e consegna di tesserini… È un lavoro da poliziotti, nell’appalto che abbiamo vinto non c’erano questi obblighi”.
“Mi auguro che questo patto possa diventare una piattaforma politica sia per il nostro governo che per l’Europa” dichiarava nel novembre 2007 il sindaco Letizia Moratti in occasione della seconda edizione del Forum sull’integrazione e sull’immigrazione promosso da Eurocities, la rete delle grandi città europee; prontamente ripresa dall’onorevole Franco Frattini: “Questo sarà il tessuto all’interno del quale si muoveranno le politiche di integrazione”.
Nei nuovi bandi viene richiesta una dichiarazione di intenti e l’adesione ai principi ideologici proposti dall’istituzione. Il problema si pone soprattutto per i settori in cui l’approccio ideologico è più forte: la tossicodipendenza, la prostituzione, l’immigrazione. Un esempio è l’accordo del comune di Milano con San Patrignano, di cui il sindaco Letizia Moratti sposa la linea d’intervento: il problema della droga viene affrontato senza nessun interesse per il disagio sociale e le sue cause e senza fare nessuna distinzione tra droghe leggere e pesanti; viene posta come unica strategia il contrasto alla tossicodipendenza anche con l’internamento e con metodi coercitivi come avviene in strutture come San Patrignano. Soggetti come la Lila, la cui azione è rivolta alla ‘riduzione del danno’, non hanno più nessun sostegno (e come mai non ci si interroga sul perché Milano, governata da vent’anni dal centrodestra, sia diventata la capitale della droga?).
«È un condizionamento indebito» dice Massimo Rossi. «Credo che sia un’invadenza della politica metodologicamente sbagliata, poiché le scelte di indirizzo devono essere lasciate ai comitati scientifici e non ai politici».
«Se non siamo allo Stato etico, poco ci manca» dice Pietro Massarotto. «A queste condizioni, noi non partecipiamo neppure ai bandi, non ci sentiamo di sottoscrivere queste linee di intervento che non condividiamo, per poi operare diversamente. E come noi non sottoscriveranno tanti altri soggetti».
Il Ciessevi: come abolire il rapporto cittadino-istituzioni
Da una decina d’anni è stato costituito un ente sostenuto da fondi pubblici per fare da tramite fra le associazioni e le istituzioni: si tratta del Ciessevi (Centro di servizio per il volontariato). Con, al 2008, 42 collaboratori stabili pagati con denaro pubblico, si occupa di incombenze burocratiche come la stesura dello statuto di un’associazione e l’iscrizione della stessa all’albo regionale del volontariato. Fornisce consulenza e si occupa di segnalare alle associazioni i bandi, di raccogliere i loro progetti e di valutarli. Raccoglie soldi pubblici e li redistribuisce. Svolge azioni di formazione, comunicazione, progettazione, promozione. Al 2007 usufruisce dei servizi del Ciessevi il 57,8% delle organizzazioni di volontariato lombarde; tra le 33 organizzazioni socie troviamo rappresentate un po’ tutte le aree: Acli, Arci, Agesci, Avis, Caritas, Compagnia delle Opere, Legambiente, Uisp (l’elenco completo è consultabile sul sito).
Massimo Rossi trova che «la normativa e gli adempimenti sulle onlus sono quanto mai complessi e perciò il Ciessevi ha una sua funzione». Il fatto è che esso è comunque una struttura che si interpone nel rapporto diretto fra il cittadino e l’istituzione: interlocutore di un’associazione non è più un referente all’interno dell’istituzione ma una struttura di cui la stessa associazione formalmente è parte; in questo modo l’istituzione non deve rispondere in prima persona di certe scelte e si sottrae al rischio della conflittualità.
Il nuovo interlocutore diventa il Ciessevi, che è un’associazione di associazioni: “dal volontariato… per il volontariato” è il suo motto. Leggiamo nel bilancio del 2008 che “principio fondamentale di Ciessevi è di favorire il coinvolgimento del volontariato milanese nel Ciessevi non solo nella fruizione dei servizi, ma anche nella progettazione, gestione e valutazione dei servizi stessi”: il Ciessevi quindi siamo noi stessi. Salvo che “la guida del Centro di Servizi” viene assunta da alcune organizzazioni, secondo una logica che ricalca i rapporti di forza politici nel governo locale: la motivazione è che, leggiamo, tali associazioni sono dotate di “una ‘visione’ territoriale ampia e, spesso, dotate di esperienza specifica nello svolgere servizi e azione promozionale a favore di più piccole organizzazioni no profit”.
Qualche segno di flessione
Sarà da valutare che cosa significhi qualche segno di flessione dell’adesione al volontariato negli ultimi anni. In provincia di Milano, il numero di volontari mostra un trend di decremento costante: dai 60.000 del 2003, ai 59.500 del 2005, ai 56.800 del 2006, ai 54.000 circa della fine del 2007. Anche a livello regionale, mentre c’è stato un incremento significativo dai 138.762 volontari a fine 2003 ai 203.765 di fine 2005, si passa ai 202.000 del 2006 e ai 201.715 del 2007.
Confrontando i dati 2003 con quelli 2007 constatiamo che il numero di persone retribuite è più che raddoppiato (da 4.500 a 9.500 circa), mentre la precarizzazione arriva anche tra questi lavoratori: i dipendenti (a tempo pieno o a part-time), sul totale delle persone retribuite, sono diminuiti percentualmente dal 43,6% a fine 2003 al 32,9% a fine 2007, con un forte aumento delle collaborazioni a progetto e delle prestazioni occasionali.
Domande finali
Sono passati dieci anni abbondanti da quando cominciai a lavorare al romanzo Acasadidio, come mai questa realtà non è ancora di dominio pubblico? Perché si parla solo di camorra e mafia e non di questi sistemi di accaparramento di potere e risorse? Perché non si esprime il mondo della cultura, se è vero, come diceva Robert Musil, che “nessuna grande cultura può trovarsi in un rapporto obliquo con la verità”?