Grandi opere imposte ai territori e politiche di aggressione neocoloniali che portano profitti ai fondi d’investimento privati
Il 21 aprile scorso 12.000 persone scendevano in piazza a Sulmona conto l’Hub del gas. Una manifestazione importante, visti i numeri esigui degli ultimi cortei di protesta nel nostro Paese, e soprattutto perché a partecipare sono stati principalmente i cittadini delle regioni del centro e sud Italia interessate dal progetto, e quindi Abruzzo, Marche, Molise e Puglia. Alla manifestazione hanno aderito oltre 400 associazioni e molte amministrazioni locali, che tutti i giorni devono confrontarsi con le grandi opere imposte dallo Stato ai territori.
L’obiettivo era contrastare la centrale di compressione Snam a Sulmona, che dovrebbe comprimere il gas nel metanodotto in progetto della Rete Adriatica, l’infrastruttura che dovrà collegare il Tap (Trans-Adriatic Pipeline) con la futura centrale e lo stoccaggio di Minerbio, nel bolognese, e che dovrebbe passare nei territori dell’epicentro del terremoto di Amatrice. E così, dopo le proteste contro il Tap dell’anno scorso e le lotte contro gli stoccaggi in Lombardia ed Emilia del 2013/2014, continua l’opposizione anche in centro Italia: ulteriore segno che queste grandi opere sono calate dall’alto senza un reale dibattito con i territori e i cittadini, e che l’Hub del gas e i progetti collegati rispondono solo a giochi geopolitici e logiche di profitto.
Mentre la protesta continua, infatti, il MedReg (Mediterranean Energy Regulators), l’associazione che riunisce le Authority dell’energia di 25 Paesi del Mediterraneo, pubblica un report: “Gas infrastructure map of the Mediterranean region”. Il Coordinamento No Hub del gas Abruzzo riprende il relativo comunicato stampa del 3 maggio (“New MedReg Gas Infrastructure Map shows national gas transmissions, interconnections, storage capacities and future investment plans in the Mediterranean”), e denuncia: “La scarsità della domanda di gas è il principale ostacolo alla realizzazione di nuove infrastrutture come gasdotti e stoccaggi. A dirlo in un comunicato stampa diffuso ieri è stata l’associazione che riunisce tutte le Authority per l’energia dei Paesi del Mediterraneo, i cosiddetti regolatori del mercato, nel presentare un documento sullo stato delle reti e sui nuovi progetti di infrastrutture in corso di esame e/o realizzazione nell’area.
Il comunicato è cristallino e, si può leggere: In terms of barriers affecting the investment plans, MedReg Members indicated the insufficient market demand as the biggest one (In termini di barriere che riguardano i piani di investimenti, i membri di MedReg indicano l’insufficiente domanda di mercato come il principale problema). Inoltre: Looking at LNG and storage capacities versus demand, Spain, Portugal, Italy and France are the most secure countries to respond to peak demand and crisis (Guardando alla capacità di stoccaggio e rigassificazione rispetto alla domanda, Spagna, Portogallo, Italia e Francia sono i Paesi più sicuri nel rispondere ai picchi di domanda e alle crisi). Insomma parole inequivocabili che sono una pietra tombale sulle giustificazioni di Snam e governo rispetto alla necessità per il Paese di realizzare nuovi gasdotti, stoccaggi e rigassificatori”.
A questo si deve aggiungere che proprio a maggio è iniziata la messa in esercizio della nuova centrale di compressione Snam a Sergnano, pronta a partire a settembre, con il fine di cominciare a esportare gas verso i Paesi del nord Europa, nell’ottica del grande progetto dell’Hub del gas (1).
Contemporaneamente Snam, tramite un consorzio di cui fanno parte i belgi di Fluxys e gli spagnoli di Enagas (tutti soci del Tap), resta l’unica concorrente in gara per la privatizzazione del 66% di Desfa, società che gestisce il trasporto del gas in Grecia; una vendita imposta dalla Ue alla Grecia, insieme alla privatizzazione di molti altri asset pubblici (porti, ferrovie, terreni, immobili ecc.) come condizione dei prestiti finanziari. Una vera e propria campagna acquisti che metterebbe sotto controllo italiano, belga e spagnolo un crocevia importante non solo per il gas azero del Tap, ma anche per altri progetti: il Turkish Stream, l’infrastruttura che la Russia vuole costruire sotto il Mar Nero per aprirsi una nuova strada per l’Europa, e il possibile gasdotto che attraverso l’Egeo potrebbe portare nel sud Europa parte del gas estratto dal megagiacimento Leviathan, situato tra le coste di Cipro e Israele.
Grandi progetti quindi a cui, come riconosciuto anche da MedReg, non corrisponde una domanda di energia, ma che portano utili agli azionisti delle società: chi sono questi azionisti?
Strane aziende di Stato
Nella classifica per l’ufficio studi di Mediobanca 2015, Exor Fiat Chrysler si trova in testa con 136,36 miliardi di euro di fatturato, davanti a Enel con 74 ed Eni con 67,74. Ma nel 2017, con il trasferimento in Olanda della holding degli Agnelli, Enel si trova prima con 69,1 miliardi (-6,7% rispetto al 2016), mentre il cane a sei zampe Eni è passato da 72,3 miliardi di ricavi nel 2016 a 55,8 nel 2017 (-22,9%). Calano dunque i fatturati, ma non i profitti, che nel biennio 2014-2015 hanno visto primeggiare Enel con 2,7 miliardi.
A maggio Snam ha annunciato i risultati del primo trimestre 2018: ricavi per 616 milioni di euro e utile operativo di 355 milioni (rispettivamente +2,5% e +0,6% sul primo trimestre 2017). Un paio di mesi prima, il 14 marzo, a Londra, il Ceo Marco Alverà ha presentato l’update del piano della società per il periodo 2017-2021, approvato dal Cda: si prevedono investimenti per 5,2 miliardi di euro (+10% rispetto al piano precedente), di cui 4,6 nel trasporto e 600 milioni nello stoccaggio e rigassificazione, mentre l’utile netto annuale è visto in crescita del 4,5% (nel precedente piano era al 4%).
Investimenti che principalmente ruotano intorno al progetto dell’Hub del gas. Il bilancio 2017 presentato ha confermato le attese: ricavi per 2,44 miliardi di euro (+26 milioni, 1,1%, rispetto ai ricavi pro-forma adjusted del 2016, grazie ai continui investimenti e ai maggiori volumi di gas immesso) e utile netto adjusted di 940 milioni (+95 milioni, 11,2%, rispetto al 2016, grazie anche ai minori oneri finanziari netti che beneficiano della riduzione del costo medio del debito). Per il 2018, Snam prevede un ulteriore incremento dell’utile fino a 975 milioni di euro.
Chi incassa i profitti di queste aziende?
Enel è quotata alla Borsa di Milano: il Ministero dell’Economia possiede il 23,6% delle azioni, e tra gli investitori istituzionali (che ne detengono il 54%) spicca con una quota rilevante ai fini del controllo (5,6%) BlackRock, la più grande società di investimento al mondo che gestisce un patrimonio totale di 6.000 miliardi di dollari, primo gestore indipendente quotato alla Borsa di New York; il restante 22,4% è retail, ossia suddiviso tra piccoli azionisti privati (i risparmiatori, per intenderci). Per ripartizione geografica, solo il 10,2% dell’azionariato istituzionale (il dato del retail non è disponibile) è in Italia (Figura 1).
Stesso discorso vale per Eni: quotata anch’essa a Milano e pure a New York, il 26,4% delle azioni è nelle mani di Cassa Depositi e Prestiti (CDP), il 3,9% appartiene al Ministero dell’Economia, 54,7% sono investitori i-stituzionali e 13,9% retail (più un pugno di azioni proprie). CDP è proprietà del Ministero dell’Economia per l’82,77%, mentre il 15,93% è di fondazioni bancarie e l’1,3% sono azioni proprie. Geograficamente, me-no della metà dell’azionariato di Eni è in Italia (Figura 2).
Snam, sempre quotata a Milano, vede il 30,1% delle azioni nelle mani di Cassa Depositi e Prestiti, investitori istituzionali per il 52,57%, retail per l’8,6%, azioni proprie per il 2,45% e lo 0,53% è di Banca d’Italia. Non manca anche qui BlackRock, con una quota rilevante del 5%, accanto a Romano Minozzi – re delle ceramiche – con un 5,75%. Geograficamente, poco meno della metà delle azioni sono in mani italiane (Figura 3).
Siamo quindi davanti ad aziende ancora controllate dallo Stato – in nome di un’importanza strategica – attraverso una quota azionaria di controllo che ne determina le scelte aziendali e la nomina dei vertici, ma di cui una buona parte dei profitti, realizzati anche grazie a denaro pubblico, come vedremo, vanno nelle tasche di soggetti privati, anche stranieri.
Finanziamenti Bei: quattrini à gogo!
L’Italia è il Paese che più ha goduto dei fondi della Bei (Banca europea per gli investimenti). Su 70,25 miliardi totali stanziati per il piano investimenti, 12,29 sono arrivati all’Italia (pari allo 0,72% del Pil del Paese). Dal 2013 al 2017 gli investimenti Bei nel settore energia sono stati 60 miliardi, di cui 9,5 sono andati all’Italia: il 47% è stato destinato alle infrastrutture del gas, mentre a rinnovabili ed efficienza energetica è andata solo una quota del 24%.
La maggior parte sono finiti nelle casse delle principali aziende che si occupano di grandi opere, in primis la Snam. Nell’ottobre 2013 l’impresa accedeva al finanziamento Bei di 365 milioni di euro per investimenti sulla rete nazionale e per la costruzione di gasdotti internazionali utili per l’Hub del gas, ma già nel 2012 aveva ricevuto 283 milioni per la costruzione dello stoccaggio gas di Bordolano (Cremona). Nel dicembre 2015 ottiene ulteriori 373 milioni, sempre per la costruzione di opere legate all’Hub del gas, come il gasdotto Cervignano Mortara e le centrali di compressione di Sergnano (Cremona) e Minerbio (Bologna). Ma non è finita. Nel 2017 Bei concede a Snam altri 310 milioni per il potenziamento della rete gas, in particolare per la costruzione della condotta di collegamento con lo stoccaggio di Cornegliano Laudense nel lodigiano; stoccaggio di proprietà di Italgas Storage, società in mano a due fondi di investimento, Whysol Investment (italiano) e Sandstone Holding BV – che fa capo a Morgan Stanley ed è entrato nell’impresa con 1,2 miliardi di euro.
Stesso discorso vale per Italgas, che ha niente a che fare con Italgas storage. Italgas è una vecchia società passata di mano tra Eni e Snam, oggi quotata alla Borsa di Milano e primo operatore di distribuzione gas in Italia. Nel dicembre 2017 la Bei le ha concesso finanziamenti per 360 milioni di euro, principalmente per l’ammodernamento della rete.
Come se non bastasse, a fine gennaio 2018 la Bei ha finanziato il gasdotto Tap con 1,5 miliardi di euro. Tra i maggiori azionisti dell’opera, con una quota del 20% c’è Snam, insieme all’inglese BP (20%), l’azera Socar (20%), la belga Fluxys (19%), la spagnola Enagas (16%) e la svizzera Axpo (5%). Il 3 maggio il Parlamento europeo approva la Relazione annuale sul controllo delle attività finanziarie della Bei per il 2016; al punto 62, “Investimenti nelle infrastrutture”, si legge: “[Il Parlamento] esprime preoccupazione per il prestito del valore di 1,5 miliardi di euro concesso dalla Bei al progetto di gasdotto transadriatico (Tap, n.d.a.) che non rispetta, in misura diversa nei Paesi di transito (Albania, Grecia e Italia), le norme ambientali e sociali minime degli Equator Principles; si rammarica che la Bers abbia già stanziato finanziamenti per 500 milioni di euro e ritiene che il progetto non sia idoneo per un investimento da parte della Bei, né dovrebbe essere preso in considerazione a fini di finanziamento da qualsiasi banca che aspiri a investimenti responsabili sul piano sociale e ambientale”. Eppure, la Banca europea per gli investimenti l’ha finanziato.
Anche Eni usufruisce dei prestiti Bei. Nel 2014 ha ricevuto 900 milioni per la ricerca di petrolio nell’Adriatico e per riconvertire la raffineria di Porto Torres, e nel 2016 110 milioni per la raffineria di Milazzo, controllata pariteticamente con Kuwait Petroleum Italia (della Q8, Kuwait Petroleum Corporation, la compagnia petrolifera nazionale del Kuwait).
Nemmeno Enel resta indietro, basti pensare che nel luglio 2017 riceve dalla Bei un prestito da un miliardo per sostituire i vecchi contatori con quelli digitali.
Ma da dove arrivano questi soldi? Le risorse della Banca europea per gli investimenti provengono dagli Stati membri della Ue – capitale sottoscritto 242,4 miliardi di euro, di cui versato 21,6 miliardi – e dal mercato, tramite emissione di obbligazioni; l’istituto non ha fini di lucro e fa prestiti a tassi (super) agevolati. L’Italia vi partecipa con il 16%. In parte, quindi, sono soldi pubblici.
I costi in bolletta
La bolletta del gas è composta da una varie voci. Oltre al costo della materia prima, che nel mercato liberalizzato dipende dai contratti stipulati, e dalle imposte (che incidono pesantemente), una della voci più importanti è quella relativa ai servizi di rete, che incide sul conto finale tra il 15 e il 20%; qui troviamo anche il costo dello stoccaggio e del trasporto.
Mentre nei servizi di vendita vige quindi il libero mercato e la concorrenza, nei servizi di rete siamo davanti a un monopolio. La rete nazionale dei gasdotti è infatti in mano a Snam per il 97%. Nella bolletta, la tariffa sul trasporto varia a seconda della località in cui si ubica la fornitura ed è proporzionale ai consumi fatturati. Anche nello stoccaggio vige di fatto un monopolio (il 90% degli stoccaggi è di Stogit, del gruppo Snam), e in bolletta ne paghiamo i costi per i depositi sotterranei dai quali il gas viene prelevato a seconda delle richieste del mercato.
A differenza della quota trasporto, questa voce è la stessa su tutto il territorio italiano e varia a seconda del consumo fatturato. Entrambe le tariffe sono aggiornate annualmente sulla base di specifici provvedimenti dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas, e il sistema idrico, e a gennaio 2018 gli aumenti stabiliti sono stati del 5,3% per l’elettricità e del 5% per il gas. Per quest’ultimo, l’aumento è stato dettato proprio dall’incremento relativo alle spese di approvvigionamento e, in parte, del servizio di trasporto.
È chiaro che un’azienda ricarica l’aumento dei costi sul prezzo del prodotto finale, ma qui siamo di fronte a società pubblico/private, nello specifico la Snam, che finanziano i lavori sulle proprie infrastrutture con prestiti della Bei a tassi agevolati e dunque, in parte, con soldi pubblici; denaro dei cittadini che poi, in bolletta, pagano nuovamente per quelle stesse infrastrutture.
Pubblico o privato?
Nel sistema dell’energia, del trasporto e dello stoccaggio siamo davanti a un monopolio, non di Stato ma misto pubblico/privato visto l’azionariato delle imprese.
Cassa Depositi e Prestiti s.p.a., che come sopra evidenziato è proprietà del Ministero dell’Economia per l’82,77% e controlla, tra le altre, Eni e Snam, in base alle regole di mercato dell’Unione europea è diventata un “Istituto nazionale di promozione”, e ciò gli consente di essere l’unico canale di accesso alle risorse del Piano Junker per Italia, advisor finanziario della Pubblica Amministrazione per l’utilizzo di fondi nazionali ed europei, e di avere il ruolo di stimolare la creazione di nuove attività a supporto della crescita a partire dalla progettazione, collaborando al reperimento delle risorse, co-investendo i propri mezzi e coinvolgendo anche gli investitori privati.
CDP infatti non entra solo nel capitale delle imprese, ma le finanzia anche a tassi agevolati: nel luglio 2012, appena dopo aver acquisito Snam a maggio, Cassa Depositi e Prestiti ha concesso all’impresa un finanziamento pari a 400 milioni di euro, durata decennale. Obiettivo: la realizzazione di due nuovi gasdotti nel nord Italia (il primo tra Poggio Renatico in Emilia Romagna e Cremona, il secondo tra Zimella in Veneto e Cervignano in Lombardia).
Come analizzato da Alberto Crepaldi e Luca Piana su L’Espresso (2), “un tempo, quando l’industria nazionale era un animale metà privato e metà pubblico, la Cassa svolgeva un ruolo importante ma, dal punto di vista degli equilibri di potere, secondario rispetto ai colossi come l’Iri o l’Eni: amministrare e investire il risparmio che gli italiani affidavano alle Poste. Da qualche anno in qua, però, finita in modo poco glorioso l’era delle privatizzazioni ed estinte o quasi le famiglie che governavano le grandi imprese tricolori, la Cassa è stata chiamata a riempire i buchi che si sono aperti nel sistema e che stavano determinando la svendita di aziende ritenute strategiche. Ha assorbito pezzi crescenti d’industria, la rete dei metanodotti di Snam e quella elettrica di Terna, i cantieri navali di Fincantieri e la compagnia petrolifera Eni, il gigante in crisi delle trivellazioni Saipem e le turbine di Ansaldo Energia”.
Un interventismo pubblico che continua a crescere. Proprio a fine marzo, l’ad di CDP Fabio Gallia ha dichiarato: “Noi tifiamo Ilva. Siamo disponibili a prendere una quota delle azioni della newco AM InvestCo, lo abbiamo detto da tempo”. Stesso discorso vale per Alitalia, viste le affermazioni del presidente di CDP, Claudio Costamagna, su un possibile intervento dell’istituto, seppur di minoranza. E ad aprile, nell’affaire Tim/ Telecom Cassa Depositi e Prestiti è entrata nel capitale con il 4,2%, permettendo la vittoria del Fondo Elliott su Vivendi.
Il bilancio di CDP gode di ottima salute: nel 2017 si è chiuso con un u-tile netto consolidato di 4,5 miliardi, in netta crescita rispetto al 2016 (1,2 miliardi), e CDP Reti, che detiene Snam, ha registrato nello stesso anno un profitto di 1,66 miliardi, in crescita annua del 35,2%. Buona cosa, essendo denaro che finisce nei forzieri del Ministero dell’Economia, ma il punto è il ruolo di questo sistema misto pubblico/privato; perché di fatto siamo davanti a un capitalismo di Stato ai tempi del libero mercato e della libera circolazione dei capitali, che dunque garantisce e porta profitti a soggetti privati, anche stranieri, mentre la funzione dello Stato nell’economia dovrebbe essere quella di portare una crescita economica del Paese, e dunque un maggiore benessere dei cittadini, con un progetto chiaro di politica industriale; e di certo nemmeno mettere in atto politiche di aggressione neocoloniali come quelle attuate da Snam nei confronti della Grecia, dovrebbe essere un suo obiettivo.
Soprattutto, l’energia deve essere un bene comune, accessibile a tutti e rinnovabile (3). Le imprese energetiche devono essere totalmente pubbliche e sociali, e le opere attuate non devono compromettere la salute e l’ambiente; la strategia nazionale dovrebbe mirare all’uscita dal fossile e dalla combustione, alla creazione di energia rinnovabile razionale e alla difesa dei posti di lavoro del settore. In pratica, dovrebbe avere come fine il bene della collettività, non la costruzione di un inutile Hub del gas per portare profitti ai fondi d’investimento privati.
1) Cfr. Enrico Duranti, L’Italia Hub del gas: disastrose scelte di politica energetica, Paginauno n. 51/2017
2) Alberto Crepaldi e Luca Piana, Capitalismo di Stato: quanto è potente davvero Cassa depositi e prestiti (e chi la controlla), L’Espresso, 21 aprile 2017
3) Cfr. Enrico Duranti, Energia bene comune. La strategia energetica nazionale: prospettive e alternative, Paginauno n. 54/2017