Dietro il successo di Expo: dalla surmodernità al kitsch, la società dei consumi e la rimozione della violenza
“Il kitsch è la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.”
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere
L’Expo di Milano si è concluso. Prima dell’inaugurazione e durante l’apertura è stato criticato, seppur da una minoranza di persone e dell’opinione pubblica, da diverse angolazioni: le inchieste della magistratura per corruzione, la quantità di denaro pubblico speso, la gestione del lavoro, con la creazione della figura del ‘lavoratore volontario’. Dopo sei mesi, la chiusura ha registrato un trionfo di dichiarazioni positive, per il numero di biglietti staccati e la carrellata di ospiti illustri, politici e non, che nei 180 giorni hanno varcato l’ingresso, e la Rai non si è fatta mancare uno spot finale celebrativo. Di fatto, Expo è stato politicamente, culturalmente e mediaticamente un successo: che i visitatori siano stati realmente 21,5 milioni oppure meno, che l’incasso della vendita dei biglietti abbia davvero coperto i costi o prodotto una perdita, non ha importanza. Una enorme massa di persone ha innanzitutto deciso di andarci, e in secondo luogo ne è uscita, nella grande maggioranza, entusiasta. Ogni criticità legata all’Esposizione (che anche Paginauno ha espresso sulle sue pagine), ogni pensiero negativo opposto alla sua stessa realizzazione, sul piano valoriale o economico, sono stati spazzati via dal consenso che ha raccolto.
Non è semplice sfuggire alla banalità quando si cerca di analizzare Expo. A cui si aggiunge quella sensazione di disarmo che si percepisce nel momento in cui, parlandone con una delle milioni di persone entusiaste, si afferma: è una enorme operazione commerciale travestita con un falso abito etico, e si riceve come risposta: certo, e allora? E intorno a quel allora è drammaticamente esposta la società in cui viviamo.
È la società dello spettacolo di Guy Debord, nella quale “lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” e l’epoca in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale; la società dell’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, il processo di mimesi che ha prodotto una identificazione totale e immediata dell’individuo con la società, rendendolo incapace di sviluppare un pensiero negativo che si oppone all’esistente; la società della surmodernità di Marc Augé, caratterizzata dall’eccesso di tempo – che rendendo egemone il presente impedisce di leggerlo come il risultato di una lenta trasformazione del passato e non lascia più spazio all’immaginazione del futuro – di spazio, creato dalla globalizzazione, di ego – l’individuo divenuto autoreferenziale, costretto dalla scomparsa delle grandi narrazioni ideologiche, di per se stesse collettive, universali e finalistiche e dunque produttrici di senso, politico o religioso, a interpretare da sé e per sé il mondo; la società dei consumi, della cosmotecnologia nella quale l’immagine rimanda all’immagine e il messaggio al messaggio, da consumare ma non da pensare; la società dei non luoghi, astorici, non relazionali e non identitari, che creano solitudine e similitudine.
Expo è tutto questo, perché rappresenta la società che lo produce; e ne rappresenta anche gli individui, che si sono sentiti in dovere di divorarlo, in quella dinamica di consumo alienato che Debord pone in diretta correlazione con la produzione alienata creata dal sistema capitalistico. Individui unidimensionali per i quali l’assuefazione al sistema merce ha inscritto nel codice della normalità la mercificazione di ogni cosa – e allora?
Solo nella società dei consumi un tema come “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”, che va ben oltre la categoria dell’alimentazione umana, può essere trasformato in ‘cibo’ e nulla più, confinando in cantina, come oggetti superflui, i concetti di ambiente, ecologia, sostenibilità. Temi ben più complessi da mercificare, rispetto a un bene divenuto da anni prodotto di consumo, brand, oggetto di format televisivi di ogni tipo, e che per il mondo occidentale ha assunto, per usare le parole di Jean Baudrillard, un valore di segno – la merce come riconoscimento sociale. Mentre la dinamica del non luogo permette l’eliminazione della storia, trasformando il cibo in ‘luogo della memoria’ dentro i padiglioni, e il meccanismo dello spettacolo e l’egemonia del presente consentono al Capitale di mettere in piedi un’operazione commerciale che l’individuo riconosce, fa propria, accetta e riproduce, come se la sua costruzione fosse priva di conseguenze, non collegata alla violenza intrinseca al capitalismo, un modello economico che produce disuguaglianza, a partire proprio dall’accesso al cibo.
È questa rimozione che ha permesso a milioni di individui di fare ore di coda, all’ingresso e ai padiglioni; acquistare e consumare cibo, in vendita ogni dove dentro l’Esposizione, chioschi, bancarelle di street food, bar, ristoranti, self service; giocare con i touch screen interattivi sparsi ovunque, che rimandavano la loro immagine, fare selfie, fotografare se stessi riflessi nelle pareti a specchio degli edifici e in tempo reale pubblicare ogni scatto sul proprio profilo facebook (nell’era della cosmotecnologia, consumare lo spettacolo è anche apparire nello spettacolo); fare «Oooh!» in coro davanti alla rappresentazione di luci e musica dell’Albero della Vita; vagare per il Decumano, entrando alternativamente in padiglioni di Paesi e padiglioni di aziende, senza che questo generasse un interrogativo: che ci fa la Kinder tra il Regno Unito e il Kazakhstan? Perché minigelaterie ambulanti su due ruote della Algida scorrazzano dappertutto? Perché ci sono cubi trasparenti della Technogym a ogni passo? Perché lo spettacolo deve essere interrotto a più riprese per annunciare: “L’Albero della Vita si accende grazie a Pirelli, Coldiretti, Orgoglio Brescia”?
“L’oggetto-kitsch è comunemente tutta quella massa di oggetti ‘senza gusto’, in stucco, fasulli, di accessori, di ninnoli folkloristici, di souvenir, di abatjour o di maschere negre, tutto il museo di paccottiglia che prolifera dappertutto, con una preferenza per i luoghi di vacanza e di divertimento. Il kitsch è l’equivalente del ‘cliché’ nel discorso. […] è una categoria culturale […] ha il suo fondamento, al pari della cultura di massa, nella realtà sociologica della società dei consumi. […] All’estetica della bellezza e della originalità, il kitsch oppone la sua estetica della simulazione […]”, scrive Baudrillard. Kitsch è l’Albero della Vita e il suo spettacolino, kitsch è l’intero Expo. Il kitsch elimina dal campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile, scrive Milan Kundera. E anche il kitsch, l’estetica della simulazione, ha contribuito alla rimozione della umanamente inaccettabile violenza del capitalismo, permettendo a milioni di individui di consumare lo spettacolo del ‘grande evento’.
Paradossalmente, è nell’abito etico indossato da Expo che la violenza si è manifestata senza veli: la Carta di Milano. Scritta insieme da associazioni, fondazioni, imprese e politica, documento di cui il governo si è fatto vanto, consegnato con grande enfasi nelle mani di Ban Ki-moon durante la sua visita all’Esposizione, la Carta è stata definita l’eredità culturale di Expo. Di fatto, il suo peso è irrilevante, poiché non ha il potere di vincolare in alcun modo le politiche dei Paesi e delle multinazionali. L’elenco di valori e buone intenzioni che contiene dunque, poteva spingersi fino a immaginare un futuro diverso, dato che nessuno le avrebbe potuto presentare il conto della sua mancata realizzazione. Ma il conto l’ha presentato immediatamente il Capitale: il documento non contiene il minimo accenno ad argomenti quali la proprietà dei semi, gli ogm, l’acqua come bene comune, il land grabbing, la speculazione finanziaria sulle materie prime.
Anche la presenza dei padiglioni aziendali mescolati a quelli dei Paesi rappresenta uno dei rari momenti di sincerità della società dello spettacolo, se solo l’individuo unidimensionale fosse in grado di coglierlo nel suo reale significato. Dal momento che i Trattati di libero scambio – il NAFTA, il CAFTA, il recente TTP, il futuro TTIP – sottoscritti tra i Paesi consentono alle multinazionali di fare causa a uno Stato nel caso in cui le sue leggi limitino i diritti del libero mercato e del profitto, le imprese hanno tutte le ragioni di rivendicare per i propri padiglioni il posto accanto a quello riservato agli Stati: il loro potere decisionale sulla vita umana, sul piano quantitativo e qualitativo, nell’attuale fase storica è superiore a quello della politica. È il neoliberismo, bellezza, in tutta la sua violenza.
E quindi è giusto che McDonald’s stia tra il Turkmenistan e il Qatar, Birra Moretti di fianco al Marocco, Franciacorta vicino a Emirati Arabi Uniti, Perugina tra Moldova e Lituania, Algida accanto alla Repubblica Ceca, Lindt a fianco del cluster Cacao e cioccolato; che Enel, Banca Intesa, Corriere della sera e Technogym siano vicini a Repubblica di Corea, Polonia, Uruguay, Cina; che Coop, travestita da ‘Area tematica’ con il Future Food District, troneggi alle spalle di Spagna, Romania e Messico, e Eataly, catalogato come ‘Area di servizio e ristorazione’, occupi due padiglioni di 4.000 metri quadrati ciascuno tra Azerbaigian e il cluster del Caffè.
Ha un senso che i cluster siano costruiti intorno agli sponsor, e che gli spazi riservati ai Paesi, anonimi e uguali, scompaiano dietro gli sgargianti marchi pubblicitari di shop e bar: Illy al cluster del Caffè, la multinazionale cinese Huiyuan per Frutta e legumi e Spezie, Scotti al cluster del Riso, Farine Varvello per Cereali e tuberi, Eurochocolate (marchio dell’azienda Gioform) per Cacao e cioccolato.
È legittimo che Coca-Cola, China Corporate United, New Holland (Fca, ex Fiat), Vanke (multinazionale cinese del settore immobiliare), Alessandro Rosso (turismo e organizzazione di convention e viaggi incentive), Federalimentare, Alitalia-Etihad abbiano un intero spazio, denominato corporate, riservato ai loro padiglioni.
E trova la sua motivazione, infine, l’inserimento del caffè in una delle torri del padiglione elvetico. Quattro torri riempite con quattro alimenti, che i consumatori/visitatori potevano prendere gratuitamente; man mano che le torri si svuotano, si modificava la struttura interna del padiglione, rendendo visibile il vuoto dall’esterno. Sulla facciata frontale, una grande scritta: “Ce n’è per tutti?”. Il significato evidente era quello di stimolare la riflessione su un utilizzo ‘responsabile’ del cibo: di quanto ne hai bisogno, quanto ne vuoi consumare, quanto ne resterà per gli altri, per chi arriva dopo, per chi non può essere qui a prenderselo? Acqua, sale, mele, caffè i quattro alimenti inseriti nelle torri. Nell’ottica di bene necessario, perfetti i primi due – sale, in molti Paesi, significa ancora conservazione del cibo –; singolare il terzo, ma giustificato ufficialmente dall’essere un prodotto agro-alimentare elvetico; totalmente insensato il quarto.
A meno di non cambiare la chiave interpretativa: il marchio Nescafé, azienda della multinazionale svizzera Nestlè, invadeva ogni parete e firmava un bar davanti al padiglione stesso. Alla Svizzera va indubbiamente il primato di miglior spettacolo di Expo.
E allora?, quanto caffè c’è per tutti?