Adam Arvidsson, Andrea Fumagalli e Domenico Vitale* |
Il nuovo mercato del lavoro che si nutre di immaginario
Incontro-dibattito presso il Centro sociale Sos Fornace (Rho, Milano), 13 gennaio 2015
Andrea Fumagalli. Il primo punto da affrontare riguarda il lavoro gratuito. Il primo fatto eclatante, che diventerà un elemento di storia delle relazioni sindacali tra cinque o sei anni, è l’accordo del 23 luglio 2013 sottoscritto a livello territoriale locale da Cgil Cisl e Uil, Comune di Milano in qualità di garante, e la parte padronale che in questo caso è Expo 2015 s.p.a., società per azioni privata – ricordo che per costituzione una s.p.a. ha come obiettivo, indipendentemente dalla struttura proprietaria che può anche comprendere realtà pubbliche, come nel caso di Expo 2015, l’accrescimento del valore delle azioni che compongono la società, quindi il profitto.
Questo accordo, per la prima volta nella storia del diritto del lavoro italiano – che nasce negli anni Venti, quindi è passato ormai quasi un secolo – legalizza e quindi istituzionalizza una prestazione di lavoro gratuita. È qualcosa che verrà ricordato dai giuslavoristi italiani, perché stabilisce che per la gestione dell’attività e dell’evento Expo sono necessari, secondo la stima fatta all’epoca e fino a oggi non smentita, circa 22.000 posti di lavoro. Sono ovviamente posti di lavoro a termine, perché l’evento è a termine. La novità introdotta dall’accordo è che vengono create delle tipologie contrattuali che recepiscono le riforme fatte dalla Fornero nel luglio del 2012 per quanto riguarda l’apprendistato e il contratto a termine – circa 400 apprendistati e 700 contratti a termine, per un totale di 1.100 persone. Sono poi introdotte altre 400/500 figure lavorative sotto forma di stage più o meno retribuiti – 400, massimo 500 euro al mese – per un totale di 1.600 posti di lavoro. I restanti, circa 18.500, vengono occupati attraverso squadre, con tempistica differente, con durata dalle quattro alle sei settimane, di lavoro cosiddetto ‘volontario’, che in termini concreti è lavoro gratuito.
Questo è il primo contratto che i sindacati firmano, dichiarandosi quindi d’accordo con il fatto che si metta in azione una prestazione di lavoro gratuita, non remunerata, al fine di far sì che l’evento Expo possa aver luogo. È qualcosa di assolutamente nuovo nel panorama italiano. L’unica persona che ha avuto qualche perplessità, soprattutto nella Cgil, che è stata promotrice di uno sciopero generale nel dicembre scorso contro il Jobs Act, è il segretario generale della Fiom Lombardia Mirco Rota, che ha scritto un articolo sul Manifesto in cui dichiarava che questo accordo era un po’ pericoloso perché poteva essere l’inizio di una tracimazione verso forme di lavoro di questo genere, cioè gratuito. Questo è l’antefatto.
Il secondo elemento su cui riflettere è che nella legge 78 del maggio 2014, chiamata anche decreto Poletti, che costituisce il primo atto del Jobs Act, viene istituito, tra le tante cose che qui non prendo in considerazione, quello che si chiama il “Piano garanzia giovani”, finanziato dalla Comunità europea sulla base del progetto Horizon 2020 stabilito nell’accordo di Lisbona, nel quale è previsto lo stanziamento di fondi per favorire il processo di avviamento al lavoro delle giovani generazioni, tenendo conto che il dato di disoccupazione giovanile, come sappiamo, in molti Paesi europei è alquanto elevato.
Per l’Italia il Piano prevede 1,5 miliardi euro e dovrebbe creare un sistema di accordo regionale – i fondi sono infatti gestiti dalle Regioni – perché vi siano dei momenti di incontro fra società istituite a livello regionale (quindi di natura pubblica), che dovrebbero creare una banca dati chiamando i giovani a iscriversi, e contemporaneamente accogliere domande di lavoro da parte delle imprese, di modo da favorire il contatto tra domanda e offerta. Secondo le stime di Poletti, il Piano dovrebbe promuovere l’inserimento nel mercato del lavoro di 800.000 giovani – persone
che vanno dai 15 ai 35 anni. Questi 800.000 giovani dovrebbero entrare nel mercato del lavoro attraverso tre tipologie contrattuali, su cui però devo confessare la mia ignoranza perché non è chiarissimo quali siano: si parla di stage, di forza lavoro e di servizio civile.
Ora, io non so quanto questo piano sarà attuato, ma ciò vuol dire che l’accordo sul lavoro volontario fatto in ragione di Expo, quindi limitato e contingentato e temporaneamente definito, è diventato, con il decreto Poletti, una manovra di inserimento fittizio lavorativo a costo zero a livello nazionale. Questo è l’esempio di come Expo, per quanto riguarda le relazioni e le dinamiche del mercato del lavoro, sia una sorta di chiavistello per provare, sperimentare, verificare nuove modalità di regolazione del rapporto di lavoro.
Terzo punto, più generale: il Jobs Act è l’istituzionalizzazione del rapporto precario di lavoro. Raggiunge in pratica l’obiettivo che dieci anni fa si era posto Berlusconi e che ha cercato il supporto di Ichino e una parte del Pd dell’epoca: risolvere il problema della precarietà come fattispecie particolare rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato – che ancora oggi, a livello europeo, è considerato l’unico rapporto di lavoro possibile – e far sì che il rapporto di lavoro precario diventi la norma. In questo modo il problema della precarietà, da un punto di vista legislativo, politico, sociale, è risolto, perché non è più una fattispecie particolare ma diventa l’essenza del rapporto di lavoro. Quindi da questo punto di vista il Jobs Act ha questa funzione: istituzionalizzare ciò che era già strutturale, generale ed esistenziale.
È chiaro che questa istituzionalizzazione, dal punto di vista del governo e dei poteri forti, vuole chiudere, risolvere, il problema della precarietà, ma contemporaneamente apre un nuovo fronte: quello appunto del lavoro gratuito, che è l’estensione, a un nuovo livello, del percorso iniziato nel ‘97 con il pacchetto Treu. Un tempo era la precarietà, oggi, se vuoi iniziare a lavorare, a essere produttivo in questa società, devi prima dare un po’ di lavoro gratuito. Questo dicono, questa è la nuova frontiera che si sta aprendo, e questo è il punto di contraddizione, perché ora le soggettività del lavoro, che all’interno di questo processo sono violentemente inserite, devono essere in grado di farne una capacità di sottrazione, di respingimento, di opposizione, di denuncia. Perché il lavoro gratuito non è l’ultima frontiera: ci verrà chiesto di pagare per lavorare, arriveremo a questo paradosso.
Sembra un eccesso ma il lavoro gratuito, da un punto di vista economico, è assolutamente disarmante e controproducente, ma in un contesto economico basato sulla logica dei mercati finanziari, sui profitti e le plusvalenze a breve termine, a chi importa di quello che succederà dopo; l’importante è espropriare, accaparrare, approfittare qui e oggi. Questo è il dramma e la crisi in cui siamo immersi da sette anni. Abbiamo delle strutture dirigenziali, di governo, delle politiche di austerity europee che non fanno altro che segare il ramo dell’albero su cui sono sedute, sperando che l’albero regga. Ma non potrà succedere, la crisi è destinata ad aumentare rispetto a queste nuove prospettive di regolazione del mercato del lavoro.
Non voglio essere pessimista. Questo significa che dobbiamo essere in grado di sviluppare una soggettività, una capacità di inchiesta su queste forme di lavoro, perché da qui bisogna iniziare a mettere in atto azioni di esodo produttivo, dire io non ci sto a queste evoluzioni e riesco a trovare un’alternativa di sistema. E qui si apre tutta una serie di problematiche e di cose che sono tutte da discutere.
Un’ultima cosa: oggi, 13 gennaio 2015, i lavoratori della cooperativa Cir, che si occupa di catering, sono in sciopero, perché nell’area emiliana alcuni di loro hanno avuto una disdetta unilaterale del contratto integrativo e hanno perso alcune commesse, per cui la cooperativa si è rivalsa sui lavoratori. Ora: la Cir gestirà 25 milioni di pasti all’Expo dal primo maggio al 31 ottobre, perché ha vinto l’appalto per la gestione del catering. Questa cooperativa, che è una delle tante cooperative di sfruttamento che ben conosciamo, si prende quindi una commessa per gestire tutti i pasti all’Expo e nel frattempo, oggi, licenzia i lavoratori per esigenze sue di gestione interne. Perché succede questo? Semplicemente perché la Cir rinuncia alle commesse attuali e punta tutto su Expo, per cui licenzia oggi per assumere domani, perché avrà bisogno di assumere persone per gestire il catering di Expo.
Questo significa che Expo rischia di non avere affatto un effetto di amplificazione dell’occupazione, ma un effetto sostitutivo. La stessa cosa, in termini diversi, avverrà con la questione della zona di Rho Fiera, perché durante Expo tutte le attività di Rho Fiera verranno sostituite da Expo, quindi tutti coloro che lavorano a Rho Fiera oggi, per le varie mostre, avvenimenti, fiere del calendario annuale, nel periodo di Expo vedranno azzerata la propria attività. Oltre al lavoro volontario, dunque, ci sarà l’effetto sostituzione, per cui l’aumento dell’occupazione, se ci sarà, sarà davvero risibile.
Adam Arvidsson. Non sono molto esperto di Expo, però posso dire che mi è arrivata una email, qualche giorno fa, proprio da Expo, dove mi si chiedeva se potevo fornire cinquanta studenti che avrebbero dovuto lavorare dieci giorni; ho risposto che gli sarebbe costato più o meno 20.000 euro! Agganciandomi a quello che ha detto Fumagalli sui nuovi sviluppi giuridici, spinti in qualche modo avanti dallo spettacolo dell’Expo, essi tendono di fatto a legalizzare quella che è ormai una realtà, almeno nell’ambito di quello che chiamiamo il ‘lavoro del sapere’. Con alcuni colleghi abbiamo realizzato una serie di studi sulle cosiddette industrie creative a Milano – la moda, la comunicazione – e adesso stiamo portando avanti una ricerca su quelle che sono le altre soluzioni messe in atto di fronte alla sfida della ristrutturazione del mercato del lavoro; soluzioni, i vari coworking, startup ecc., che in qualche modo sono anche un’altra forma di istituzionalizzazione del lavoro gratuito. A Milano se ne parla da circa uno/due anni, oggi ci sono una ventina di coworking space e ne aprono in continuazione, e questo sistema è stato molto spinto da vari enti, come fondazioni, Regione ecc., e anche da tutto il discorso ‘imprenditoriale’ secondo cui se non c’è il lavoro, createlo tu in qualche modo.
Indagando questa realtà, un aspetto emerso molto chiaramente è che ormai il legame fra lavoro e stipendio, lavoro e remunerazione, non c’è più. Sicuramente non c’è in termini economici – in una situazione come quella italiana, e milanese, dove manca un’economia del sapere in grado di assorbire tutte le persone qualificate che escono dalle università, il risultato è per forza una sorta di disoccupazione strutturale dove salari e stipendi tendono ad abbassarsi, e dove chi arriva ad avere uno stipendio decente è sempre meno frequente – ma è anche una situazione psicologica.
Nel settore della moda, per esempio, essenzialmente ci sono tre tipi di lavoro: i designer, che sono pochissimi, uno o due di nome internazionale e poi, dato che la maggior parte delle società della moda a Milano sono a gestione famigliare, i designer sono i figli di coloro che sono stati a loro volta designer negli anni ‘60/70; poi ci sono i bocconiani, che gestiscono l’ambito finanziario, il marketing ecc., perché ormai le industrie della moda sono grandi imprese, spesso internazionali, e hanno bisogno di una certa organizzazione; infine ci sono i lavoratori della moda, che sono più o meno l’80% della forza lavoro, che fanno essenzialmente comunicazione e gestione eventi. È tra loro che abbiamo fatto un sondaggio ed è risultato che lo stipendio medio è di 800 euro al mese (età media degli intervistati, 38 anni).
Stipendio bassissimo, perché nessuno può vivere a Milano con 800 euro al mese; però, il livello di soddisfazione è altissimo! Sono super contenti per il fatto di lavorare nel campo della moda, anche se non vengono pagati, anche se gli orari di lavorano arrivano a 15 ore al giorno, anche se non puoi andare a pranzo, anche se non puoi prenderti il tempo per una visita medica, se non hai il tempo di avere un fidanzato/fidanzata, se non hai una vita sociale ecc., ma caspita!, lavori nella moda! E questo, almeno fino alla fascia di età dei 35 anni – poi la curva della soddisfazione inizia a decrescere, per ovvi motivi – questo basta.
È una fonte di entusiasmo: io sono nella moda. Cosa ti piace della moda?, abbiamo chiesto: sono creativo, è stata la risposta. Però poi se si va a vedere le mansioni che effettivamente queste persone svolgono, c’è ben poca creatività: è un lavoro subordinato, altamente strutturato e comandato; però, ha l’immagine della creatività. In questo senso quindi la creatività non è una questione di pratica ma di immaginario: il fatto di essere nella moda, frequentare certi posti, essere vicino a certi eventi, circuiti ecc. E in qualche modo, per molte persone questo sembra essere sufficiente per accettare un lavoro mal pagato o addirittura non pagato – la percentuale di persone che vanno avanti a stage è molto alto.
Vediamo la stessa cosa nei coworking space, anche se è un po’ diverso, perché sono spazi che raccolgono lavoratori freelance. Anche qui però le remunerazioni sono molto basse, si aggirano intorno ai 1.500 euro al mese fatturati con partita Iva, che si traducono, più o meno, negli stessi 800 euro, quindi sempre insufficiente per riuscire a vivere in una città come Milano. Eppure anche qui il livello di entusiasmo è altissimo. Lunghi orari di lavoro, tanta attenzione e tempo dedicati alla formazione di competenze, di soggettività, e alla partecipazione a seminari su che cosa vuol dire fare l’imprenditore, lo startupper. È un modo di vestirsi, un ambiente, certe letture ecc. che continuano a costituire questa sorta di soggettività che pare essere la remunerazione principale per la partecipazione a questo tipo di lavoro.
In questo caso non è più il grande brand della moda che ha il controllo sull’immaginario, ma il meccanismo è più subdolo perché queste persone, che sono dei freelance, lavorano quindi per se stessi, mantengono però tutti insieme un ambiente in cui la flessibilità, la condivisione del sapere e tutta una serie di altri atti produttivi, che non vengono retribuiti, si combinano per abbassare ulteriormente il costo del servizio che forniscono.
Siamo quindi ormai davanti a un fatto: la sostituzione della remunerazione monetaria con la remunerazione identitaria, immaginaria.
La questione da porsi è come si spiega tutto questo. Se negli anni Settanta andavi da un lavoratore dell’Alfa Romeo e gli dicevi: perché non lavori senza lo stipendio, semplicemente per il bello di lavorare per l’Alfa Romeo?, ti avrebbe mandato subito a quel paese! Perché invece oggi il ventenne neolaureato accetta di lavorare per una bassissima remunerazione, in condizioni precarie, o addirittura senza essere pagato, come ‘volontario’? Francamente non lo so, penso sarebbe un’ottima occasione poter fare uno studio sui volontari dell’Expo e chiedere perché lo fanno.
È chiaro che ci sono diversi fattori. Uno, che non può essere ignorato, è il livello di disperazione economica, che evidentemente non è ancora arrivato al punto in cui questa situazione diventa inaccettabile, nel senso che la maggior parte delle persone che lavorano gratuitamente hanno un sostegno. Le condizioni del lavoro creativo sono infatti più o meno le stesse in tutta Europa, ed essenzialmente ci sono tre modelli: a Londra (come a New York), cerchi lavoro nella comunicazione però in realtà fai il barista, perché così guadagni e sopravvivi; nel nord Europa riesci a campare con il welfare state – lavori nella comunicazione però in realtà sei studente, e in quanto studente puoi usufruire del welfare (Berlino è piena di artisti-studenti danesi: ho insegnato all’università di Copenaghen per sei anni, quindi conosco bene il meccanismo: ti iscrivi all’università, prendi la borsa da studente, te ne vai a Berlino a fare l’artista e ogni tanto appari e fai qualche esame) –; in Italia, infine, terzo modello, il welfare è la famiglia. L’Italia è infatti un Paese in cui esiste ancora una delle più grandi concentrazioni di ricchezza privata, dove una famiglia del ceto medio è ancora abbastanza benestante e può ancora mantenere, in effetti sponsorizzare, la cosiddetta industria creativa milanese, coprendo il costo di sussistenza del figlio, affittando la casa, contribuendo con qualche centinaio di euro al mese ecc.
Un altro aspetto è la logica del self branding, la necessità di creare un brand intorno a se stessi: quindi il lavoro anche gratuito, anche pagato male, ti dà comunque un voto extra da mettere sul curriculum, e può essere visto come un investimento verso qualcosa che potrebbe poi eventualmente fruttare in un momento successivo. Tra i lavoratori della moda è molto forte il discorso della gavetta, in un approccio quasi masochista, nel senso che c’è quasi un godimento – sì, ora lavoro in condizioni pessime, non mi pagano, mi trattano malissimo, però bisogna fare la gavetta, bisogna soffrire un po’. Questo ‘soffrire’ rientra anche nella cultura cattolica, quell’idea per cui se soffri, poi non possono non darti un lavoro!
C’è infine un altro fattore molto importante, e cioè il controllo dell’immaginario. L’industria della moda, l’Expo, hanno monopolizzato un po’ l’immaginario: vuoi realizzare te stesso? C’è la moda, l’Expo, la creatività, c’è lo startupper, inventare un video game; non ci sono altri modi per realizzare se stessi. Esiste una sorta di monopolio su questa idea, in una generazione che è stata educata fin da piccola a diventare il massimo che vuole diventare: devi dare tutto te stesso, devi esprimere te stesso, quei talenti che hai dentro di te, se ti piace fare teatro devi fare l’attore, non puoi fare l’idraulico o il barista o il dentista.
Fumagalli, e qui concludo, dice che bisogna riappropriarsi della soggettività, e sono d’accordo, ed è qualcosa che in qualche modo sta già succedendo, nel senso che questa forza che spinge quell’immaginario che funziona da mobilitazione del lavoro gratuito, sta diventando più debole. Uno dei settori, e forse l’unico, che in questo momento in Italia crea posti di lavoro è quello agricolo, e questo perché in gran parte c’è una fuga verso la terra. Molti lavoratori del sapere, dopo essersi laureati, dopo aver passato due/tre anni cercando di entrare nel mercato del lavoro di Roma, Milano o di qualche altra città del nord, se hanno accesso a un pezzo di terra – e in Italia è abbastanza comune, perché la famiglia italiana, una o due generazioni indietro, ha in genere legami con la terra – cercano di mettere in piedi una qualche sorta di impresa lavorando in quel contesto. Con alcuni amici siamo impegnati in questo progetto, Rural hub appunto, sulla nuova economia rurale in Campania, Puglia e Sicilia, e vediamo molte di queste persone che, secondo me abbastanza giustamente, dicono: tanto non posso campare a Milano, tanto posso essere povero anche nel Cilento, dove si sta meglio e ho un’esistenza più autentica e più gratificante.
Quindi se cinque anni fa, quando abbiamo fatto la ricerca nel campo della moda a Milano, vedevamo un fortissimo controllo sull’immaginario, e su questa idea per cui non c’erano alternative, adesso il ritratto è diverso e ha più facce, ed è comunque l’inizio di una sorta di esodo dall’economia volontaria monopolizzata dai brand della moda, di Expo e in generale dello spettacolo, della creatività, verso delle altre forme di esistenza.
Domenico Vitale. Il mio intervento intende dare un taglio giuridico alla questione del lavoro volontario, e già confrontarmi con il termine ‘lavoro volontario’ mi mette in difficoltà, perché da un punto di vista giuridico è una contraddizione in termini. Se si fa infatti riferimento alla fattispecie prevista dal codice civile di contratto a lavoro subordinato, la definizione è chiara, e prevede, a fronte dello svolgimento di una prestazione lavorativa, una retribuzione. Il contratto di lavoro volontario, laddove si volesse qualificarlo in termini, appunto, di lavoro volontario, sarebbe un contratto non disciplinato dal codice civile. Una parte degli studiosi del diritto del lavoro ha ritenuto trovare il suo fondamento in vincoli di solidarietà: esempio di lavoro volontario nei manuali di diritto del lavoro è quello svolto dai famigliari nell’ambito dell’impresa di famiglia, oppure dai religiosi nell’ambito dei vari ordini. Diciamo che il legislatore del codice civile guardava con disfavore, giustamente, una qualche forma di lavoro volontario, e nella stessa Carta costituzionale, il punto di riferimento è l’articolo 36, che parla di una retribuzione che deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, e in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia.
Questi sono i punti di riferimento a livello costituzionale ma anche a livello legislativo. Ci sono infatti situazioni in cui anche nell’ipotesi di contratto di lavoro nullo, è prevista una tutela del lavoratore soprattutto dal punto di vista economico; per esempio, nell’ipotesi che un giornalista non iscritto all’albo eserciti un’attività nei confronti di una testata giornalistica, anche a fronte della nullità del contratto egli ha diritto all’erogazione della retribuzione. Dal punto di vista legislativo, si tratta quindi di un principio molto forte. Dunque il mio tentativo di inquadrare il fenomeno del free jobs si muove lungo una direttrice volta a verificare quanto, da un punto di vista della realtà del dato normativo, ci si stia discostando dal precetto dell’articolo 36 della Costituzione; ossia in che modo, al di là dei fenomeni elusivi esistenti – l’utilizzo fraudolento degli stage, dei contratti di apprendistato e di altre fattispecie contrattuali – il legislatore nazionale è andato a istituzionalizzare delle forme di free jobs.
Prendiamo per esempio in considerazione i tirocini formativi e di orientamento, i cosiddetti stage. Solo nel 2012, con la riforma Fornero, si è stabilita la possibilità di garantire allo stagista un’indennità, la cui quantificazione è stata demandata a un accordo Stato-Regioni che ha fissato il minimo in 300 euro. Come nel caso dell’apprendistato, anche qui il legislatore ha previsto di discostarsi, ma in maniera lieve, rispetto all’articolo 36 della Costituzione, da una retribuzione proporzionata ed equa, in presenza di cause giustificative: nel caso dell’apprendistato la causa può essere data da uno scambio tra prestazione lavorativa e formazione, e da qui una retribuzione ridotta – ma anche in questo caso il legislatore è andato giù pesante, perché il contratto di apprendistato prevede la possibilità per il datore di sotto-inquadrare in due livelli contrattuali il prestatore di lavoro.
Da un punto di vista ‘fisiologico’ possiamo quindi dire che è lo stesso legislatore ad aver creato nel tempo questa situazione, attraverso diversi istituti che in questa fase sta cercando di rilanciare; c’è infatti una proliferazione di figure di stage, di tirocini, ci sono quelli curriculari che rientrano nel percorso scolastico e universitario, quelli extra curriculari, e poi ci sono altri istituti come il lavoro accessorio, quello pagato attraverso i voucher. Diciamo che il problema dei free jobs va inquadrato secondo due macro questioni: innanzitutto quella secondo cui la fattispecie dei free jobs non fa altro che determinare un fenomeno di evidente dumping salariale: è chiaro che la finalità diretta e indiretta dell’introduzione di forme contrattuali che prevedono una riduzione non ancorata al parametro dell’articolo 36 della Costituzione ha la funzione di determinare un abbassamento dei livelli salariali, e quindi una perdita del potere contrattuale dei lavoratori.
La seconda questione importante è capire come il fenomeno dei free jobs si inserisca all’interno di un processo, piuttosto articolato, che tocca le politiche attive del lavoro, le politiche del welfare e il riordino delle fattispecie contrattuali. Dal punto di vista delle tipologie contrattuali, da un po’ di anni si stanno creando dei mostri giuridici. Si è sempre più andato a configurare un trend normativo in cui si vanno a individuare solo delle fattispecie, senza poi ricondurle alle macro categorie dell’autonomia e della subordinazione. Ci sono cioè figure, come il lavoro accessorio, che non è considerato rapporto di lavoro; ci sono gli stage stessi che non sono considerati rapporti di lavoro. E il problema qualificatorio, nell’ambito del diritto del lavoro, non è un problema secondario, perché la qualificazione di un rapporto come subordinato o autonomo rileva ai fini delle tutele, dato che purtroppo siamo in un sistema normativo nel quale se sei subordinato hai un apparato di tutele e diritti, se sei autonomo non ce l’hai. E quindi dentro queste due macro categorie il legislatore ha introdotto altre figure contrattuali, rispetto alle quali devi cercare di individuare la tutela applicabile secondo un gioco dell’oca.
È dunque all’interno di questo percorso e di questo processo che vanno letti i free jobs. Da un lato abbiamo questo divario tra retribuzione prevista per gli stage e per l’apprendistato, dall’altro questa riorganizzazione delle politiche attive del lavoro, del welfare e delle tipologie contrattuali, che si possono rinvenire nello stesso schema di decreto attuativo del Jobs Act; qui, all’articolo 11, si istituisce presso l’Inps un Fondo delle politiche attive del lavoro che prevede, a favore dei lavoratori licenziati per motivi economici o a seguito di licenziamenti collettivi, la corresponsione di un voucher, rappresentativo della dote individuale di occupabilità. Con in mano questo voucher, il lavoratore si reca all’agenzia pubblica o privata e si sottopone a una serie di doveri, ossia percorsi formativi e accettazione di offerte lavorative molto probabilmente non corrispondenti al profilo professionale. Questo è ciò che il legislatore, nello scheda di decreto attuativo del Jobs Act, chiama contratto di ricollocazione, che sembra un altro mostro giuridico: non è chiaro infatti la natura di questo contratto, sappiamo solo che è stipulato tra il lavoratore e l’agenzia.
Il trend che si va a delineare è dunque la proliferazione di quelli che un tempo erano definiti lavori socialmente utili, nei quali l’occasione di lavoro non è più in grado di garantire un reddito di lavoro parametrabile all’articolo 36 della Costituzione, ma solo una piccola parte di reddito, che si va a recuperare in parte anche dall’ammortizzatore sociale.
Questo è un po’ il quadro a livello nazionale che stranamente, ma non tanto, viene peggiorato dall’accordo Expo del luglio 2013. Anche commentatori sicuramente non progressisti, a fronte di una prima lettura dell’accordo hanno notato come le parti sociali abbiano fatto molto peggio di Renzi. Avevano la possibilità, e se ne sono avvalse, di derogare a quelle che erano le disposizioni di legge. Per esempio, hanno prolungato di un mese la durata massima dello stage, così come, in maniera preoccupante, per quanto riguarda la possibilità di assumere personale a tempo determinato è stato previsto un tetto percentuale dell’80% dell’organico complessivo, violando di fatto il limite indicato dal Jobs Act, individuato nel 20%.
Questo vuol dire che le parti sociali hanno colto la palla al balzo per fare quello che neppure un governo di centrodestra, a suo tempo, è stato in grado di fare; hanno dato attuazione a quella norma che di fatto è sempre stata disattesa fino a qualche mese fa, che consente alla contrattazione di secondo livello di derogare alle disposizioni di legge, ma per garantire la stabilizzazione o per far fronte a situazioni di crisi. Qui invece, a fronte di un evento di rilevanza internazionale, i sindacati hanno consentito la stipula di un contratto che supera certi limiti di legge, e senza alcuna contropartita; anzi, come è ormai evidente, per Expo le assunzioni non standard rappresentano la stragrande maggioranza.
Ho dato solo un rapido sguardo ai bandi o alle comunicazioni rispetto alle diverse fattispecie contrattuali che si pensa di utilizzare. Per quanto riguarda i progetti che hanno una durata di 12 mesi, è previsto il ricorso al volontariato attraverso un bando del servizio nazionale civile, quindi entriamo in quel processo cui accennavamo prima: non abbiamo più delle fattispecie contrattuali, abbiamo delle mere occasioni di lavoro che vengono fornite a dei giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni. L’elemento che più preoccupa è che, da un punto di vista normativo, abbiamo dei riferimenti per quanto riguarda l’attività di volontariato. Esiste una legge del 1991 che lo disciplina, e afferma che è quell’attività che viene svolta in maniera personale, spontanea e gratuita, in assenza di fini di lucro anche indiretto e per fini di solidarietà.
Ora, un volontario che va a lavorare presso il sito espositivo, che fornisce una informazione, che dà un orientamento alle persone che accorrono all’evento, quale fine di solidarietà persegue?! Un altro aspetto interessante è che non è prevista alcun tipo di remunerazione per il volontario: secondo legge, c’è solo la possibilità di un rimborso spese. Sul bando del servizio civile, ma anche in quello del Comune di Milano, che partecipa a questo processo di sfruttamento con il bando “Dote Comune Expo”, è invece prevista una indennità mensile di partecipazione; un elemento di contraddizione che magari anche la giurisprudenza dovrà sciogliere, perché o ci si limita a un mero rimborso, che va documentato, oppure tutto ciò che non è rimborso e va oltre dovrebbe qualificarsi come retribuzione. Tra l’altro, facendo delle ricerche sul punto ho già trovato della giurisprudenza, sentenze della Corte di Cassazione che, al di là di una serie di altri indici, stabiliscono che non si può parlare di lavoro volontario.
Si aprono quindi degli spiragli. È vero che da un punto di vista sostanziale e processuale il trend è questo, però, per come sono impostati i bandi, è possibile utilizzare delle leve per contrastare, là dove ce ne fosse la possibilità, questa situazione. La battaglia è anche e soprattutto culturale, politica e comunicativa. Purtroppo a oggi non ho visto professori del diritto del lavoro, o avvocati del diritto del lavoro, scandalizzarsi di fronte a dei processi che stanno comportando anche uno snaturamento delle tipologie contrattuali. Il contratto di lavoro a tempo determinato, per esempio, che era ancorato a ragioni temporali – si assumeva a termine perché c’era una ragione temporale di assunzione – nella prassi sta diventando uno strumento di ingresso nel mercato del lavoro dei giovani.
Ormai tutte le tipologie contrattuali hanno questa funzione, si stanno creando delle figure di soggetti svantaggiati che vanno a coprire tutto l’arco del lavoro: è soggetto svantaggiato la donna, l’inoccupato, il disoccupato di lunga durata, e questo perché si devono andare a individuare delle categorie rispetto alle quali creare delle figure contrattuali di ingresso nel mercato del lavoro a tutele dimezzate, se non azzerate. In conclusione, l’accordo Expo del luglio 2013 va solo a peggiorare un quadro che già prevedeva questa confusione voluta, dal punto di vista delle politiche attive, del welfare e della qualificazione dei contratti di lavoro.
* Adam Arvidsson: docente di Sociologia, Università Statale di Milano; Andrea Fumagalli: docente di Economia politica, Università di Pavia; Domenico Vitale: avvocato del lavoro del Punto San Precario di Rho Fiera