Le foto, i filmati, l’archiviazione che ha impedito il processo: per non dimenticare
Incontro dibattito sul libro Non si archivia un omicidio di Giuliano Giuliani (2013) al circolo Agorà di Cusano Milanino, 9 marzo 2013
Quello di cui mi permetterò di discutere oggi è la bugia istituzionalizzata di questo Paese, a cui partecipano responsabili della cosa pubblica e governanti e della quale si fanno interpreti rigorosi gran parte di coloro che lavorano nei cosiddetti media. Andiamo indietro di tredici anni, al G8 di Genova del 2001, e cerchiamo di ricordare quello che è stato detto nell’immediatezza di quei giorni.
L’allora vice presidente del Consiglio, Gianfranco Fini, che frequentava i posti nei quali si organizzava quello che era disordine pubblico, e non ordine pubblico – il Forte San Giuliano, sede dell’Arma dei carabinieri, e la questura – la sera dello stesso venerdì 20 luglio, il giorno in cui Carlo Giuliani è stato ucciso, ospite nella trasmissione approntata per la bisogna, ovviamente da Bruno Vespa, disse: «Genova messa a ferro e fuoco», richiamando l’immaginario degli Unni. Ebbene, la frase è stata riprodotta da tutta la grande stampa e soprattutto dalla televisione per lunghissimo tempo, insieme a quello che vi faceva da contorno implicito: la presenza di manifestanti violenti, che non avevano alcuna intenzione di manifestare ma di distruggere una città, e di impedire che otto grandi, come dice il G8 – e non hanno neanche il senso della misura né temono il rischio del ridicolo – risolvessero le grandi questioni che erano al centro di quella riunione e che dovevano migliorare le condizioni del pianeta.
E già questa è una bella ricostruzione fantasiosa, dato che gli otto grandi sono entrati con una certa percentuale di fondi da destinare alla lotta alla fame e ne sono usciti con una riduzione della percentuale; sono entrati dicendo “dobbiamo difendere l’ambiente” e ne sono usciti con una distribuzione dell’inquinamento in percentuale in base alla capacità industriale di un Paese, che è una vera follia.
Comunque, quel movimento, il movimento no global, che non era affatto violento, purtroppo ha presto esaurito la sua carica, sicuramente per divisioni interne ma è certo che un elemento forte è stata la repressione al quale è stato sottoposto a Genova; è andato avanti ancora un paio d’anni, a Firenze nel 2002, una manifestazione stupenda, partecipata, grande, poi gradatamente è scomparso. Aveva fatto molta paura ed è per questo che è stata decisa una repressione così dura. Possiamo immaginare che un movimento che va dalle suore di Pax Christi ai ragazzi dei centri sociali, ai giovani comunisti, alla sinistra extraparlamentare, non faccia paura al potere politico ed economico che si sta organizzando per conquistare l’intero pianeta con capitalismo e globalizzazione? È chiaro che fa paura.
E non è un caso che la più forte repressione, operata proprio venerdì 20 luglio, prenda questi due lati estremi del movimento.
Un reparto di poliziotti, che era stato inviato al carcere di Marassi per fermare un gruppetto di imbecilli impropriamente auto-definitesi black bloc, arriva e non li trova, sono già scappati, e quindi torna indietro, arriva a piazza Manin, trova quelli della rete Lilliput, gli scout e le suore, quelli con le mani bianche, incapaci di fare del male a una mosca, e li massacra; in contemporanea una banda di carabinieri, una banda, lo sottolineo, attacca senza alcun giustificato motivo il corteo di via Tolemaide dei disobbedienti o tute bianche, cioè il corteo che raggruppa appunto i giovani comunisti, quelli della sinistra, i centri sociali, che provengono dallo stadio Carlini. La Corte di Cassazione, nella sentenza del 13 luglio 2012 nel processo a 25 manifestanti, ha scritto che le cariche erano “violente e ingiustificate”, riconoscendo legittima la resistenza all’attacco dei carabinieri – anche se occorre ricordare che dei 25 manifestanti accusati del reato di devastazione e saccheggio (che ha un tempo di prescrizione di 15 anni!), 24 sono stati condannati in primo grado per un totale di circa 110 anni di carcere; poi quindici sono stati assolti in appello, mentre dieci sono stati condannati a pene pesantissime, per un totale di 98 anni e 9 mesi; la Cassazione ha successivamente confermato il reato per tutti e dieci i manifestanti, confermando anche le pene per due (6 anni e 6 mesi, e 10 anni), rinviando all’appello per la rideterminazione della pena per cinque, e annullando la condanna limitatamente al reato di detenzione di molotov per altri tre, con condanne dunque solo leggermente alleggerite per questi ultimi, e conteggiate dai 14 anni ai 12 anni e 3 mesi.
Quindi, abbiamo detto, polizia e carabinieri picchiano le due ali estreme, da un punto di vista ideologico, del movimento. Perché dico che l’informazione su Genova ha mentito clamorosamente? Perché ha evitato di analizzare e denunciare quale era stata la strategia repressiva ideata: a Genova si decide, intelligentemente, lo si deve purtroppo ammettere, di reprimere ottenendo il consenso più ampio possibile dell’opinione pubblica.
Nella città arriva qualche centinaio di manifestanti tra naziskin, hooligans e black bloc, tutti impropriamente coperti dalla terminologia black bloc; ma c’è anche qualche poliziotto vestito da black bloc, ci sono le foto dove si vedono le mostrine spuntare sotto la tutina nera. E spaccano, rompono, distruggono, incendiano automobili, mandano in frantumi vetrine e bancomat. Queste distruzioni avvengono tra le 11.20 e le 13.30/14.00 di venerdì. Poi, questi fantomatici black bloc spariscono, e guarda caso le botte le prenderanno, appunto, la rete Lilliput a piazza Manin e il corteo delle tute bianche in via Tolemaide. Naturalmente quando parte la repressione la gente dice: era ora. Hanno distrutto, hanno bruciato, hanno incendiato, era ora che li pestassero. Questa è stata la strategia della repressione con il consenso dell’opinione pubblica, e ci sono voluti anni perché venisse fuori la verità, anche sulla “macelleria messicana” della Diaz, un’altra operazione messa in piedi nascondendosi dietro i fantomatici black bloc.
Ricordo soltanto che quando c’è stata la presentazione del film Diaz di Daniele Vicari a Genova, il pubblico ministero Enrico Zucca, interrogato dai giornalisti su cosa ne pensasse, ha detto: «È stato molto peggio di quello che si vede nel film».
Gli uomini delle forze dell’ordine erano 16.000, tra poliziotti, carabinieri, guardia di finanza, penitenziari, c’erano i carri armati e perfino gli incursori della marina, come se i no global potessero arrivare con il sottomarino atomico! Rammentiamo, perché oggi viviamo nella fase del ‘terrorismo islamico’ e ci siamo abituati a grandi spiegamenti di forze quando ci sono eventi pubblici, che nel luglio 2001 tutto doveva ancora iniziare: l’attacco alle Torri Gemelle è del settembre successivo. Dunque 16.000 uomini, in un’area davvero ristretta e limitata – basta prendere una cartina di Genova del G8, con segnate le zone rossa e gialla – non sono stati in grado di fermare la distruzione dei black bloc, nonostante sapessero come e dove stessero operando, come evidenziano diverse telefonate giunte ai centralini di carabinieri e polizia; anzi, sono lì a cento metri e non intervengono. A dimostrazione richiamo giusto due telefonate di cittadini, ma ce ne sono tante.
- “(carabinieri) Carabinieri…
- (cittadino) Sono qui alla foce … dove c’è il benzinaio … sono passati questi anarchici che hanno buttato della benzina dentro e adesso sta uscendo del fumo, ci sono i poliziotti ma stanno a cento metri, duecento metri, o carabinieri, non so…
- (carabinieri) Va bene, va bene…”
- “(cittadino) Pronto, buongiorno, vorrei sapere le forze dell’ordine dove sono. In corso Sardegna, nel mio palazzo, stanno distruggendo banche, stanno dando fuoco a tutto, non c’è un poliziotto
- né un carabiniere, vorrei sapere dove sono…
- (forze dell’ordine) Lo vuole sapere subito?
- (cittadino) Sì
- (forze dell’ordine) Va bene…”
Quando invece scatta l’attacco al corteo di via Tolemaide, questi sono gli inviti delle centrali operative di polizia e carabinieri:
- “(forze dell’ordine) Abbiamo quattro fermati in via Antiochia…
- (forze dell’ordine) Trucidateli”
- “(forze dell’ordine) Ascoltami bene, devi scendere per corso Gastaldi, arrivi … giri a destra per via … e vai ancora a destra… hai capito?
- (forze dell’ordine) Ho capito, con tutti quelli che ho qui con me?
- (forze dell’ordine) Confermo, con tutti quelli che hai, però devi fare una cosa veloce e poi massacrarli”
- “(forze dell’ordine) Dovete arrivare dritti dritti fino alla casa dello studente senza mai fermarvi, lasciate perdere qualunque cosa, andate direttamente alla casa dello studente, li prendete da sopra e li massacriamo”
Quest’ultimo è Pasquale Zazzaro, all’epoca vice questore, uno dei responsabili della centrale operativa, che è stato poi promosso questore a Imperia.
Le forze dell’ordine non avevano manganelli di ordinanza, come si è visto in numerosi filmati e come è stato poi ammesso in tribunale da un capitano dei carabinieri: a Genova hanno usato pezzi di ferro rivestiti di scotch nero. È questa la ragione delle tante fratture provocate dai pestaggi, perché un manganello normale, anche il tonfa, crea un ematoma, ma il ferro spacca le ossa. Ed esistono anche filmati in cui si vedono carabinieri con la pistola in mano, e il generale Sergio Siracusa, all’epoca comandante generale dell’Arma, ha detto che sono stati sparati almeno quindici colpi oltre i due di piazza Alimonda. E se lo dice lui, si può solo dire che come minimo sono stati quindici.
E veniamo a piazza Alimonda e all’omicidio di Carlo Giuliani. Tutto quello che affermo è supportato da diverse foto e video, e quello che mi fa rabbia è che queste immagini non le ho recuperate furtivamente nei vicoli di Genova ma sono documenti che mi ha dovuto consegnare il tribunale dopo che due magistrati, il pubblico ministero Silvio Franz e il giudice per le indagini preliminari Elena Daloiso, il 5 maggio 2003 hanno archiviato l’assassinio di Carlo, prosciogliendo il carabiniere Mario Placanica per legittima difesa e per uso legittimo delle armi.
L’archiviazione ha significato sostanzialmente una cosa: impedire lo svolgimento del processo. E come i fatti di Genova hanno dimostrato, i dibattimenti, su Diaz e Bolzaneto, sono riusciti anche ad arrivare alla verità – per quanto le pene a poliziotti e carabinieri siano state ben lievi in confronto a quelle comminate ai manifestanti, molte cadute in prescrizione, e nessuna per il reato di tortura che il diritto italiano ancora non prevede (il 5 marzo scorso il Senato ha approvato un disegno di legge che lo contempla, anche se solo come aggravante, ora manca il passaggio alla Camera). Non sempre capita in questo Paese, purtroppo, ma a volte avviene; e la decisione di archiviare il procedimento ha impedito che questo potesse accadere per l’omicidio di Carlo.
Alla base dell’archiviazione, poi, c’è l’incredibile perizia dei quattro consulenti della procura. Secondo loro esiste un calcinaccio che vola nel cielo di Genova, che devia la traiettoria del proiettile verso il basso e lo porta a colpire Carlo sotto l’occhio sinistro. È chiaro che affermare che lo sparo sia stato esploso verso l’alto e non ad altezza d’uomo rafforza la tesi della legittima difesa, perché se spari per aria non vuoi uccidere, al più vuoi spaventare, intimorire, e quindi ancora di più è legittimo. Ma lo sparo per aria non esiste, come dimostrano i diversi filmati, e nemmeno il calcinaccio, come lo vedono loro.
Andiamo a quello che è accaduto.
In piazza Alimonda arriva un reparto dei carabinieri. Così descrive quel momento il capitano Claudio Cappello, oggi colonnello, nella sua testimonianza in tribunale (1):
- “(Cappello) A piazza Alimonda c’è stato un apparente…
- (pm) Scusi, ma facevate cariche di alleggerimento e chi era davanti a voi? Cioè nei confronti di chi operavate queste cariche?
- (Cappello) Davanti a noi c’erano centinaia di manifestanti che continuavano a tirarci di tutto
- (pm) E questi manifestanti come erano? Voglio dire: a viso scoperto, coperto… come erano?
- (Cappello) No, erano… guardi, c’erano gente con il casco integrale, gente con il casco non integrale, col passamontagna, con i fazzoletti, con delle magliette legate al viso, a torso nudo… tanto che non ci spiegavamo come potessero resistere al CS che normalmente sulla pelle dà un senso di fastidio dovuto alla irritazione non indifferente [il CS è un gas lacrimogeno vietato dalla Convenzione di Ginevra, ed è stato usato a Genova, n.d.a.]
- (pm) Erano armati, e se sì come?
- (Cappello) Avevano spranghe, pezzi di legno, aste di bandiera, bottiglie di vetro, pietre, pezzi di metallo… cioè adesso le dico… ho una casistica abbastanza ampia su quello che mi è arrivato addosso, non…
- (pm) Quindi lei di fatto ha ricevuto addosso…
- (Cappello) Sì, sì. Ma credo che nessuno in quel giorno sia stato risparmiato almeno da un oggetto
- (pm) Bene. Quindi operate queste cariche di alleggerimento ha detto, disperdete…
- (Cappello) Sì. Abbiamo operato queste cariche di alleggerimento, siamo arrivati nei pressi di piazza Alimonda dove inizialmente permanevano ancora dei dimostranti, poi i dimostranti si sono sparpagliati tanto che quando entrammo in piazza Alimonda abbiamo avuto necessità di girare attorno alla chiesa; credo che ci sia una via, adesso non ricordo il nome della via che sta attorno alla chiesa; ci sono anche delle scalinate, c’è una scalinata abbastanza piccola da cui alcuni dimostranti ci tiravano degli oggetti. Bonificammo quella zona e anche a quel punto la situazione sembrava che fosse…
- (pm) Ecco mi scusi, lei ha detto prima che per operare queste cariche di alleggerimento si avvaleva dei lacrimogeni che le venivano passati fino a un certo momento dal carabiniere Placanica. Il carabiniere Placanica in questa fase era sempre al suo fianco? Cioè al suo fianco, vicino a lei?
- (Cappello) No. Cioè a parte il fatto che io poi ho messo la maschera e anche gli altri carabinieri, quindi diciamo in particolare lui come gli altri non riuscivo più a riconoscerli perché… io guidavo il contingente e i carabinieri mi stavano accanto con la maschera antigas; posso ricordarmi di Mirante o del maresciallo comandante di squadra al limite, che erano quelli con cui avevo contatto diretto per la diramazione degli ordini, ma… Diciamo nei servizi di ordine pubblico più parlano e più confusione si fa, quindi alla fine la catena di comando deve essere chiara; io parlavo col tenente e il tenente operava eventualmente sugli uomini quando c’erano delle necessità
- (pm) Ecco stava dicendo che siete arrivati in piazza Alimonda e avete dovuto fare anche un giro intorno alla Chiesa
- (Cappello) Sì
- (pm) Come era la situazione?
- (Cappello) Beh in piazza Alimonda ci siamo nuovamente scontrati – le dicevo – quando siamo arrivati con un folto gruppo di dimostranti che continuava a permanere in quella zona; poi i dimostranti si sono momentaneamente allontanati e noi per accertarci che il contingente nostro della polizia potesse rimanere in sicurezza abbiamo anche operato questa diciamo bonifica della parte posteriore della Chiesa e dopodiché siamo ritornati in piazza Alimonda e lì siamo rimasti insomma”
Per inciso, quello che il capitano Cappello chiama “bonifica della parte posteriore” è il pestaggio di un manifestante, per il quale devono poi chiedere l’intervento di un’ambulanza, come si è visto successivamente da un filmato ripreso dalla telecamera posta su un casco di un carabiniere. Dunque chiamano l’ambulanza e poi si rilassano, mangiano, bevono, dopodiché dicono che sono di nuovo attaccati (i filmati non mostrano alcun attacco) e si rimettono in assetto antisommossa. Aggirano l’aiuola della piazza e vanno a colpire il fianco del corteo di via Tolemaide.
L’aggiramento dell’aiuola è una precisa scelta strategica, chiara appena si vede una carta topografica della zona, perché permette l’effetto sorpresa: non vanno diretti, aggirano, di modo da saltar fuori all’ultimo momento.
Quanti manifestanti si trovano davanti?
Qualche carabiniere, nelle varie testimonianze in tribunale, ha provato anche a dire migliaia, ma sicuramente tutti hanno detto centinaia. Al solito, fotografie e filmati li smentiscono. Sono una cinquantina, si possono contare tutte le teste, mentre i carabinieri sono ottanta, e scappano nel giro di un minuto. La ragione per cui devono dire che sono centinaia è perché altrimenti sarebbero passibili del reato di codardia, essendo un corpo armato.
Le affermazioni in tribunale (2) del tenente colonnello Giovanni Truglio, oggi generale, ci danno la possibilità di valutare lo spessore del personaggio:
- “(Truglio) A un certo punto il contingente si ferma, si sono fermati non so dire più o meno a metà di questa… della parte superiore di via Caffa, cioè del raccordo con via Tolemaide, c’erano dei cassonetti, delle ostruzioni in mezzo alla strada e io ricordo che subisce un urto fragoroso davvero impressionante, ci fu proprio un clangore, uno schianto di qualcosa, probabilmente di questi cassonetti che si abbattevano sulle prime file di questo contingente, quindi una cosa che… che sostanzialmente era fermo, perché era arrivato lì e s’era fermato, vengono investiti da un’onda d’urto, ma proprio con un frastuono incredibile, si sentì proprio lo schianto di qualcosa che andava contro gli scudi del contingente e all’inizio cercarono di tenere, poi man mano indietreggiarono, indietreggiarono, ma poi sostanzialmente questo contingente perse un po’ di lucidità e arretrarono in maniera precipitosa sostanzialmente…”
Nel sonoro del filmato che riprende l’intera scena, il rumore più forte viene dalle pale dell’elicottero che aleggia sopra; clangore, cassonetti che si abbattono, non ci sono.
A piazza Alimonda c’è anche Adriano Lauro, vice questore e responsabile del reparto: la sua è un’altra testimonianza illuminante (3):
- “(Avv. Tambuscio) … lei ci ha detto che siete stati fatti oggetto di numerosi lanci di sassi
- (Lauro) Sì
- (Avv. Tambuscio) Lei ha visto qualcuno dei suoi uomini lanciare sassi nei confronti dei manifestanti?
- (Lauro) Qualcuno dei miei uomini che lanciava sassi? No
- (Avv. Tambuscio) Ecco. Le posso fare vedere una… lei è certo di questo?
- (Lauro) Che ho visto qualcuno dei miei uomini no
- (Avv. Tambuscio) Le faccio vedere un frammento del video che è già stato mostrato…
- (Lauro) Non ho detto che non li hanno lanciati, ho detto che non li ho visti io
- (Avv. Tambuscio) Certo. Certo. Mi scusi, lei ha detto che non c’erano altri agenti di polizia oltre a lei (Lauro) Ce n’era uno solo
- (Avv. Tambuscio) E chi era?
- (Lauro) Io
- (Avv. Tambuscio) Ok. È il reperto che oggi abbiamo già visto… che è già agli atti, sì
- (Lauro) Posso avvicinarmi? Perché io non è che vedo tanto
- (Avv. Tambuscio) Sì, certo. Non… non ricordo se gliel’abbiamo già mostrato. Riconosce la situazione? È un reperto che è già stato mostrato al tribunale. Nota… aspetti, magari glielo fermiamo al momento giusto. Riconosce la situazione? Cioè è il momento in cui eravate a fronteggiarvi in Via Caffa?
- (Lauro) Sì, sì
- (Avv. Tambuscio) Torniamo un attimo indietro perché la scena… ecco, se vede alla destra… mi scusi, alla sinistra dello schermo, se ha visto una scena… c’è un agente di polizia che lancia un sasso. Adesso gliela faccio vedere. Se lei ha visto questa scena. È all’estrema sinistra dello schieramento, si vede un casco azzurro…
- (Lauro) Veramente vedo tutti sassi che volano io, non vedo chi lancia sassi
- (Avv. Tambuscio) Sì, sì, aspetti
- (Lauro) Sì, vedo che si piega. Ma non è che devo…
- (Avv. Tambuscio) Aspetti, aspetti, guardi
- (Lauro) Sì, sì, sì
- (Avv. Tambuscio) Lei ricorda questa scena?
- (Lauro) Certo
- (Avv. Tambuscio) Chi può essere quell’agente?
- (Lauro) Ero io”
E così continua il racconto in aula del capitano Cappello (4):
- “(pm) Ascolti. Quindi lei a un certo punto dice che rivede la Land Rover e su questa Land Rover fa salire (la sua, quella assegnata a lei)…
- (Cappello) Sì. Sì, sì
- (pm) Che era guidata da Cavataio…
- (Cappello) Sì
- (pm) … fa salire i due carabinieri. Fa caso se sia presente in quel momento anche l’altra Land Rover?
- (Cappello) Sì, sì credo che ci sia stata anche l’altra Land Rover. Sì, sì
- (pm) E quando… Ecco a questo punto però lei ha detto anche che la situazione era di relativa calma…
- (Cappello) Sì
- (pm) … e vi siete tolti la maschera
- (Cappello) Sì
- (pm) Che succede?
- (Cappello) Cioè dopo che ci siamo tolti la maschera? Allora le dico una cosa ancora più precisa. Io mi sono tolto la maschera e ho usufruito dei servizi igienici di un abitante di Genova che mi ha fatto salire al terzo piano perché non si riusciva ad andare ai servizi. Sono salito, quindi faccia il calcolo di questo tipo di intervallo temporale, sono risceso, ho avuto il tempo di rimettermi la maschera e praticamente da via Tolemaide passando per via Caffa si è scatenato nuovamente il pandemonio, cioè si vedevano grosse masse…
- (pm) Ecco nel momento in cui lei è sceso dall’abitazione la situazione come era? Ha trovato una situazione ancora apparentemente tranquilla o era già…
- (Cappello) No, no, sono sceso di corsa perché sono arrivato a pelo, perché mentre ero su sono stato chiamato per radio e sono sceso immediatamente giù; tra l’altro la signora, giusto per la precisione, mi regalò anche un pacchetto di Diana (la signora che mi ha ospitato), sono venuto giù e già la situazione era diventata nuovamente pericolosa”
Questa testimonianza è particolarmente interessante perché Mario Placanica, successivamente, in un’intervista rilasciata a RTL 102.5, ha affermato che a uccidere Carlo Giuliani può essere stato un colpo di fucile sparato dal terzo piano. Ora: Placanica ne ha raccontate tante, ma tra le varie cose questa cos’è? Un segnale mafioso, guarda che so? Cosa? Personalmente ho molti dubbi sul fatto che sia stato Placanica, un giovane carabiniere ausiliario, a sparare, ma di certo quel colpo è partito dalla Land Rover. Tuttavia i dubbi ci sono e derivano dall’osservazione di tutta una serie di fotografie, filmati, elementi, contraddizioni, dalle stesse dichiarazioni che Placanica ha rilasciato nel tempo; dal proiettile, che se fosse stato un calibro 9, in regolare dotazione ai carabinieri, da quella distanza pochi metri, avrebbe devastato il volto di Carlo, mentre è entrato con un foro di appena 8 millimetri e uscito con un foro ancora più piccolo. C’era qualcun altro sulla Jeep, qualcuno di grado più alto? È questa la mia domanda.
Tornando allo scontro con il corteo di via Tolemaide, abbiamo quindi questa fuga generale del contingente dei carabinieri e i manifestanti che gli vanno dietro, un Defender che fa manovra e se ne va e l’altro che resta incastrato in piazza Alimonda e viene aggredito.
Abbiamo l’estintore, che in una foto precedente si vede in mano a un carabiniere mentre il plotone è in fuga e poi vicino alla Jeep, dove un manifestante lo raccoglie e lo scaglia contro il retro della Land Rover, dove viene respinto dall’interno con una pedata; una foto, quest’ultima, dove si vede anche la mano che già impugna la pistola. Poi abbiamo i frame del filmato, nei quali si vede Carlo Giuliani che si china a raccogliere l’estintore (foto 1) e si prepara a scagliarlo (foto 2) – un frame importante perché dimostra che non ha fatto nemmeno un passetto verso la Jeep, mentre i consulenti del pubblico ministero dicono che si è avvicinato – e poi c’è la foto che ha fatto il giro del mondo (foto 3), l’unica diffusa, dove Carlo sembra a mezzo metro dal Defender, attaccato, per effetto dello schiacciamento prodotto dal teleobiettivo, mentre è a quattro metri abbondanti. Da notare, in questa fotografia, anche l’inclinazione della pistola, ad altezza d’uomo.
Ci sono due spari, Carlo Giuliani cade a terra (foto 4). Dopodiché la Jeep fa retromarcia, gli passa sopra (foto 5), ingrana la prima, gli ripassa sopra.
E poi succede una cosa ancora più terribile dell’averlo ucciso. Intorno a Carlo ci sono solo poliziotti e carabinieri, come evidenzia una foto, che ingrandita (foto 6) mostra anche una pietra a distanza di un paio di metri circa da Carlo, mentre un accendino che gli è uscito dalla felpa, e niente altro, è vicino alla sua testa; poi c’è una fotografia successiva (foto 7), dove si vede un carabiniere accucciato vicino al corpo, che ingrandita (foto 8) mostra che la pietra non è più dove era prima, ma è vicina alla testa di Carlo; e la ragione per cui quella pietra è lì è che gli ha spaccato la fronte, come si vede in diverse foto (che non pubblichiamo per la loro crudezza, n.d.a.). Perché hanno fatto questo gesto?
Subito dopo arriva una telecamera, con il giornalista Toni Capuozzo, di Canale 5, e Renato Farina, in arte Betulla, che si è poi saputo essere collaboratore del Sismi (foto 9), che riprendono la scena diventata famosa. In piazza è rimasto un solo manifestante che urla «Assassino» al vice questore Lauro – quello che prima lanciava i sassi ai manifestanti – il quale gli urla indietro: «L’hai ucciso tu, bastardo, tu l’hai ucciso col tuo sasso!».
Ecco a cosa è servito il sasso. Sono andati avanti fino a sera a dire che Carlo Giuliani era stato colpito da un sasso.
Naturalmente il capitano Cappello racconterà, in tribunale, che la sceneggiata di Lauro è avvenuta dopo che sono arrivate le infermiere, che hanno tolto il passamontagna a Carlo e si è visto che aveva una ferita sulla fronte. Questo è solo uno dei tanti squallidi imbrogli, perché il filmato ripreso da Capuozzo dimostra che la scena, a favore di telecamera – il manifestante viene inseguito per pochi metri e poi lasciato andare, ben poco impegno per catturare quello che si ritiene un assassino – viene fatta quando intorno al corpo di Carlo Giuliani ci sono soltanto loro, poliziotti e carabinieri.
Vale la pena concludere con il famigerato calcinaccio, che ha avvallato la tesi dello sparo per aria e della legittima difesa e portato all’archiviazione del procedimento.
I consulenti del pm hanno fatto delle prove tecniche, facendo pendere da un palo un grosso sasso, posizionando uno scatolone a rappresentare la testa di Carlo e ponendo la pistola, dentro il Defender, inclinata verso l’alto, in modo completamente diverso da quello che si vede in tutte le foto di Genova – anche di queste prove tecniche ci sono fotografie. È una ricostruzione vergognosa, ma è ancora più indegno che i magistrati Elena Daloiso e Silvio Franz gli abbiano dato credito.
Esistono due frame, estratti dal filmato dei due spari (foto 10 e 11), e i frame sono a distanza di un 25esimo di secondo l’uno dall’altro. Nel primo si vede chiaramente che il calcinaccio è molto vicino alla Land Rover e sta arrivando in corrispondenza della seconda ‘I’ della scritta CARABINIERI; nel frame successivo il calcinaccio si spacca perché picchia contro il tettuccio. A parte l’inclinazione della pistola, quindi, che non è verso l’alto, è impossibile che il proiettile l’abbia colpito.
Il primo a parlare di legittima difesa a fronte di un tentativo di linciaggio è stato l’allora vice presidente del consiglio Gianfranco Fini, la sera stessa, alla trasmissione di Vespa, e alla medesima conclusione, diciamo così, sono arrivati i due magistrati, decidendo di archiviare il procedimento. Io non uso più il termine ‘magistratura’ come categoria nel suo complesso, perché non posso mettere insieme i pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona, che a rischio della vita, perché hanno ricevuto minacce, si sono battuti perché i più alti vertici della polizia venissero condannati nel processo Diaz, con Silvio Franz e Elena Daloiso, che si tolgono dai piedi l’assassinio di Carlo Giuliani con la decisione di archiviare, o con i giudici di primo grado del processo Diaz, che hanno assolto tutti i vertici della catena di comando. Non è possibile metterli assieme. Non uso più magistratura, polizia, carabinieri, termini generici, ma dico quel questore, quel magistrato, quel colonnello; mi sottraggo alla tentazione di fare le ammucchiate, che sono soltanto la strada per fare qualunquismo. Una cosa però va detta.
Magistratura, polizia e carabinieri non fanno abbastanza per cacciare coloro che infangano la categoria.
E infine, una delle ragioni per cui ho scritto questo libro è rivendicare un po’ di verità, almeno un po’ di verità.
(1) Tribunale di Genova, proc. penale n. 583/04 RG (noto come processo ai 25 manifestanti), udienza 20 settembre 2005
(2) Tribunale di Genova, proc. penale n. 583/04 RG, udienza 16 febbraio 2007
(3) Tribunale di Genova, proc. penale n. 583/04 RG, udienza 10 maggio 2005
(4) Tribunale di Genova, proc. penale n. 583/04 RG, udienza 20 settembre 2005