intervista di Massimo Vaggi |
Trecento giorni di guerra
E lui non mi ha nemmeno guardata
Trecento giorni e trecento notti
La guerra non ha né anima né occhi
È troppo tempo che stiamo insieme
E so che l’amore si consuma
Come i soldi, come i ricordi
Ma tutt’attorno
Cadevano le granate
E io sentivo solo il bisogno
Che mi abbracciasse
(Abdulah Sidran)
Nell’agosto-settembre del 1995 due settimane di bombardamenti degli aerei della Nato sulle postazioni serbo-bosniache localizzate sulle pendici dei monti Trebevic e Igman e delle alture intorno a Sarajevo e Pale misero fine all’assedio della città, che durava dal mese di aprile del 1992. Più di quanto durò quello di Stalingrado. Cifre ufficiali parlano di oltre 11.000 morti tra i civili, ma sono cifre convenzionali, perché difficile è distinguere sino in fondo la resistenza armata dalla popolazione inerme. Per oltre tre anni, nell’ambito di un conflitto in cui nessuna delle parti si risparmiò le peggiori atrocità, cecchini imbottiti di cocaina e raki spararono dai campanili e dalle colline sugli uomini, sulle donne e sui bambini che sfidavano l’esposizione di quelle strade che una macabra mappa, che circolava per la città e indicava le postazioni degli assassini, segnalava come pericolose. Una testimonianza raccolta da Luca Rastello (La guerra in casa, Einaudi) fa raccontare a quel che restava nel 1994 di un cecchino reduce dal massacro di Vukovar, e cioè un uomo devastato da una tardiva consapevolezza, che quando nel mirino del fucile di precisione l’obiettivo era un bambino, il segreto stava nel cercare, immediatamente dopo lo sparo, un altro bersaglio da colpire, per evitare di doversi soffermare sul corpo troppo piccolo steso a terra. Nel mentre, in Italia si consumava un’indifferente campagna elettorale, accompagnata ma non scalfi ta dalle immagini e dalle notizie dei tg. Il mondo del pacifismo, al contrario, è stato scosso e tormentato per lunghi anni dalle vicende di Sarajevo.
Gianfranco Bettin, che conosciamo come intellettuale, giornalista, scrittore (tra gli altri, Sarajevo Maybe, Feltrinelli, 1994) e assessore del comune di Venezia, è stato un protagonista della stagione del pacifismo a Sarajevo. Nel ventennale dell’inizio dell’assedio, nessuno meglio di lui può contribuire a far virare il tono della commemorazione, oggi proposta in molte salse spesso innocue al palato e alle menti, sul piano della riflessione.
“Guardate / come fiorisce / il pianeta Sarajevo / non sentite / come inesorabilmente scorre / il sangue nelle sue vene? / La gente, guarda, va / a curarsi i denti / alcuni, vedi, portano / i bambini a tagliarsi i capelli.” Abdulah Sidran canta in questo modo la normalità e l’ostinazione di Sarajevo – del pianeta Sarajevo – durante l’assedio e i bombardamenti. La prima domanda non può che riguardare la città, e non gli eventi che la deformarono e distrussero. Nell’immaginario la città era l’erede tollerante di quella che accolse gli ebrei perseguitati e profughi di Spagna, era il luogo delle mille religioni e delle mille convivenze pacifiche. Tu come l’hai conosciuta?
L’ho conosciuta direttamente durante l’assedio, prima non c’ero mai stato. Ne conoscevo la storia, più o meno, avevo letto Ivo Andric e altri autori anche più recenti, sapevo che era una delle città più moderne e cosmopolite non solo dei Balcani. Però non c’ero mai stato. Ci sono arrivato con la prima marcia pacifista del dicembre ’92, dopo un primo tentativo di raggiungerla, insieme a Claudio Fava e ad altri deputati italiani, nel giugno precedente, fallito perché le strade
erano bloccate dai gruppi paramilitari cetnici e dall’esercito federale.
Il 3 marzo del 1992 il governo della Repubblica dichiara l’indipendenza della Bosnia, dopo che nello stesso giorno sono pubblicati i risultati del referendum che affidava alla maggioranza la scelta autonomista (i favorevoli furono il 92,68% su una percentuale di votanti del 63,4). Il 4 aprile alcune unità paramilitari serbe attaccano la scuola di polizia di Vraca, nel quartiere di Grbavica. Tutto questo mentre a Sarajevo affluiscono da tutto il Paese e anche dall’estero decine di migliaia di pacifisti, per quella grande manifestazione, indetta per il 5 aprile, che sarebbe poi durata due giorni, fino all’assassinio da parte di un cecchino di Suana Dilberovic, che per convezione è identificata come la prima vittima della guerra. Cosa chiedevano tutte quelle migliaia di persone radunate davanti alla piazza del Parlamento? E soprattutto, che forza rappresentavano, oltre a quella del proprio desiderio di pace e convivenza?
Tutte quelle persone volevano che prevalesse la Sarajevo multietnica, democratica, pacifista, la città che interpretava al meglio il progetto di una Jugoslavia plurale, garante della convivenza e della cooperazione. Pensavano che bastasse evocare quest’idea, portarla in piazza dandole visibilità e consistenza umana e sociale, perché si affermasse e rappresentasse la spina dorsale delle nuove istituzioni che avrebbero dovuto nascere dall’evoluzione in corso. Purtroppo, la loro forza era quasi soltanto questa. Erano disarmati, non avevano alleanze efficaci in ciò che restava della Jugoslavia, nelle istituzioni e nell’esercito, e non erano abbastanza sostenuti dalla stessa Europa e dagli organismi internazionali. Era una folla ‘ingenua’, profetica, ammirevole. Che hanno lasciato massacrare.
Nel dicembre del 1992 raggiunge Sarajevo la prima marcia dei pacifisti italiani: cinquecento volontari, due vescovi, cinque parlamentari e alcuni giornalisti, che entrano in città per dimostrare che il pacifismo può arrivare dove la diplomazia e le armi non sapevano o non volevano arrivare. Monsignor Tonino Bello dice più o meno: “L’Onu dei poveri ha fatto quello che l’Onu dei ricchi non è stata capace di fare”. La seconda marcia, Mir Sada (Pace Adesso), è però un sostanziale fallimento. Qual è stato il significato della presenza pacifista negli anni dell’assedio? Quale il suo ruolo?
È stata una presenza di alto valore sia simbolico e politico che pratico, operativo. La prima marcia violò l’assedio, favorì una breve tregua dai bombardamenti e dai cecchini e aprì uno spazio di relazione, e percorsi di arrivo a Sarajevo che poi furono praticati da centinaia di volontari. Andare a Sarajevo significava recare soccorsi materiali – cibo, vestiario, farmaci, sigarette (le indispensabili sigarette dell’assedio!) ecc. – ma anche lettere, messaggi, notizie, e significava testimoniare direttamente da lì ciò che accadeva, far sentire un’altra voce accanto a quella degli operatori dell’informazione che, specie nei momenti più intensi, documentavano quello che accadeva (anche se ci sono stati lunghi momenti di oblio, di disattenzione dei media e dell’opinione pubblica negli anni dell’assedio, e sono stati i momenti peggiori per chi era sotto attacco costante).
Il pacifismo vive – nella volontaria assenza di armi – di gesti fortemente simbolici. Il 3 ottobre 1993 muore sul ponte di Vrbanja Moreno Locatelli, militante di “Beati i costruttori di pace”. Insieme ad altri quattro volontari stava rendendo omaggio a Bosko e Admira, lui serbo e lei musulmana, che in quel luogo morirono abbracciati e vi restarono per sei giorni perché nessuno aveva il coraggio di recuperarne i corpi. Moreno, nelle fasi che precedettero l’azione, si chiedeva se il mancato rispetto della propria vita, esposta alla mercé di un qualunque cecchino, potesse considerarsi iniziativa davvero non-violenta. La morte di Moreno è la fine del significato e dell’efficacia del gesto simbolico o la sua enfasi? O la constatazione che anche il pacifismo non può fare a meno dei suoi eroi e dei suoi martiri?
Ho conosciuto Moreno durante la marcia del dicembre ’92, ne ho apprezzato la profonda umanità, la dedizione e il coraggio, e anche la capacità di dubitare, di ragionare, compresa la disponibilità a mettere in discussione le forme di lotta e di manifestazione che il movimento sceglieva di volta in volta. La sua morte ha provocato una discussione radicale, tremendamente seria, che ha cambiato il corso delle mobilitazioni pacifiste.
Non servono gli eroi, anche se Moreno lo è stato, pur senza cercarlo, perché chi entra nel cuore della guerra e si pone a fianco delle vittime compie comunque una scelta straordinariamente difficile, inestimabile. Se poi, a sua volta, diventa vittima, non può essere considerato altro che un eroe, i soli eroi di cui la storia ha bisogno, quelli consapevoli, capaci di dubbio e di ragionamento, amanti della vita e della giustizia, della vera pace ma anche di decidere non solo da che parte ma anche in che luogo e a fianco di chi concretamente, fisicamente, stare. Moreno
è uno di questi.
Il 28 giugno 1992 è un volo del presidente francese François Mitterand ad aprire l’aeroporto di Sarajevo ai voli umanitari. Zlatko Dizdarevic, un giornalista bosniaco, scrive: “Da quel momento, pochi nel mondo si chiederanno perché mai a Sarajevo, una città che ha sempre avuto una sua economia, generi alimentari, medicinali e tutto quanto le serviva, sia necessario portare rifornimenti con aerei e convogli, invece di fare quello che serve per sbloccare la città e permetterle di funzionare normalmente”. Lo stesso Mitterand ha sempre pensato a Sarajevo come a un “problema umanitario”. C’è invece chi ha sostenuto che “l’ideologia umanitaria ha fornito spesso un avallo alla confusione tra carnefici e vittime”. È questa una riflessione che ha attraversato il movimento pacifista, e se sì, quale soluzione ha avuto?
Non ha avuto una vera soluzione. Il punto critico, irrisolto, coincide con il momento in cui recare soccorso avrebbe potuto significare difendere materialmente gli assediati, le vittime, e attaccare gli aggressori. Di fronte a questa opzione il movimento si è diviso e poi, sostanzialmente, ha perso la parola. C’è stato chi, come Alexander Langer, ha chiaramente detto che non bastava l’aiuto umanitario (cibo, vestiti ecc.) e la solidarietà politica e bisognava invece chiedere un intervento militare contro gli aggressori. La gran parte del movimento non condivise questa posizione, pensava che non era compatibile col pacifismo o, i più radicali, con la non-violenza in assoluto. Si rinunciò, quindi, a elaborare un’idea di intervento concreto, anche militare, di polizia internazionale, che non fosse partorita dai circoli politici e militari internazionali ufficiali. Il massimo a cui si giunse fu, da un lato, la pratica dell’interposizione (che culminò, appunto, con la morte di Moreno Locatelli), alla quale io stesso ho preso direttamente parte varie volte (a Sarajevo, a Mostar, a Belgrado, a Ramallah, a Gerusalemme, in Chiapas…), o la proposta di un corpo internazionale di ‘caschi bianchi’, che proprio Langer sostenne nel Parlamento europeo. Ma non si andò oltre, l’assedio, i massacri, continuarono indisturbati. Alla fine, intervenne la Nato e usò questa situazione per imporre l’ideologia dell’intervento umanitario come l’abbiamo conosciuta in questi anni, l’ideologia dell’intervento militare, lo strumento geopolitico principale per ridisegnare i rapporti di potere nel mondo post ’89 e, in seguito, post 11 settembre.
Adriano Sofri racconta – da anni – una barzelletta: due abitanti di Sarajevo si incontrano a metà del tunnel che, scavato sotto l’aeroporto, consente l’accesso in città. Uno di loro cerca di entrare, e il secondo di uscire. Quando si incrociano, entrambi e insieme dicono: dove cazzo vai? Qual era la prospettiva per la popolazione: la fuga dall’orrore o l’ostinato restare (l’inesorabile, come ricorda Sidran, scorrere del sangue nelle vene)?
C’era, in realtà, anche la speranza di trovare accoglienza altrove e poi di tornare, quando tutto fosse finito. Certo, più durava l’assedio e meno forte era questa speranza. Ma molti tennero duro, malgrado crescesse la disillusione per l’abbandono a cui la comunità internazionale condannava la città, e a volte la disperazione, e sempre la fatica, gli stenti. Il sangue scorreva anche nelle vene, come dice il grande Sidran, oltre che sulle strade.
Parliamo dell’Onu. O dei ‘puffi ’, come venivano chiamati i caschi blu. L’otto di gennaio 1993 il vicepresidente del governo della Bosnia Erzegovina viene assassinato da alcuni uomini di Karadzic mentre sta tornando in città su un mezzo UNPROFOR, scortato da militari francesi. È allora vero che l’Onu è morta a Sarajevo?
L’Onu era morta anche da prima, quando furono scoperti i primi lager, le prime fosse comuni. Quando non è riuscita a evitare il prevedibilissimo attacco a Sarajevo. E poi in tutti quei luoghi in cui si è lasciata alla mercé degli aggressori la vita di troppa gente. Già a Osijek, per esempio, all’inizio della guerra. L’Onu tuttavia era un semplice strumento della politica dei Paesi forti, europei compresi, che osservavano la situazione della Jugoslavia in via di disfacimento con un misto di ottusità e di cinismo, incapaci di capire alcuni e perfino troppo sgamati altri, pronti ad approfittare. Se si fosse proposto l’ingresso nella comunità europea di tutti i Paesi dell’ex Jugoslavia, ponendo condizioni precise di rispetto dei diritti umani e delle minoranze, forse si sarebbe evitata la catastrofe. Invece, ognuno puntò a privilegiare e tutelare i propri interessi e quelle repubbliche nascenti che si reputavano più vicine.
Sulla pelle dei più deboli, persone o comunitàche fossero, o intere città, come appunto Sarajevo,
o Mostar, Tuzla, Srebrenica e tante altre, tanti paesi e villaggi. Purtroppo, neanche dopo la fine delle guerre balcaniche l’Onu è sembrata aver appreso la lezione.
Il 30 agosto del 1995, due giorni dopo che una granata uccise 37 civili al mercato di Sarajevo, iniziano i voli degli aerei della Nato. Le missioni durano circa due settimane, e provocano un numero tutto sommato contenuto di vittime, solo tra i militari. L’assedio finisce. Questa improvvisa accelerazione dell’iniziativa bellica, e il suo effetto pressoché immediato sulla cessazione del massacro dei civili, pongono il movimento pacifi sta di fronte alla necessità di farsi una domanda inquietante, e cioè se le tradizionali parole d’ordine (il disarmo, la non-violenza, la nonbelligeranza) siano oggi sufficienti a garantire la protezione delle popolazioni inermi. A Sarajevo come in Rwanda o in Palestina o nella Repubblica Democratica del Congo o in Sudan…
È, appunto, la questione che ci si poneva prima. Se, cioè, basti invocare la pace, il disarmo, la non-violenza, per ottenerle o se sia sufficiente lavorare dal basso e in modo capillare, sui tempi lunghi della persuasione e dei piccoli cambiamenti, tutte cose ovviamente buone e giuste, o non occorra anche provare a sviluppare un’iniziativa che si ponga esplicitamente e direttamente, concretamente, il problema di come difendere gli inermi, le vittime, i minacciati, quando sono sotto attacco, sotto aggressione. Se sia possibile togliere il monopolio del discorso umanitario a chi lo ha utilizzato soprattutto a fini di potere, geopolitica, infangando l’idea stessa di intervento umanitario. Penso che bisogna provarci, che il dolore, la paura, la minaccia, la solitudine che subiscono gli inermi, e sempre più nel mondo contemporaneo, necessiti di un’attenzione autentica, che mira anche a recare soccorso e tutela nell’immediato. Se non la facciamo noi lo farà chi, di questo bisogno, farà un uso strumentale.