Dietro la sentenza Glivec una guerra per l’egemonia economica nel mercato dei farmaci
“Millions of patients in developing countries can go to sleep in peace knowing that their drugs are on the way to India” (1).
Leena Menghaney, Medici senza frontiere
Il primo aprile di quest’anno la Corte Suprema indiana, dopo un contenzioso durato quasi sette anni, ha deciso di negare al colosso farmaceutico Novartis il brevetto per l’ultima variante del Glivec (principio attivo l’imatinib), un antitumorale essenziale nella cura delle leucemie. I giudici indiani hanno ritenuto che il nuovo medicinale non contenesse variazioni sostanziali rispetto alla versione precedente, non più coperta da brevetto, e che dunque la richiesta della multinazionale svizzera si configurasse come un tentativo di evergreening (una tattica per prolungare artificiosamente la tutela brevettuale di un farmaco). Il caso di Glivec si aggiunge così a quello di Nexavar (nome commerciale del sorafenib della Bayer), e di Sutent (il sunitinib di Pfizer), per i quali lo scorso anno l’India aveva rispettivamente autorizzato la produzione di copie low cost e revocato il brevetto (anche se entrambe le aziende hanno in seguito fatto ricorso).
L’avvocato Anand Grover, che ha seguito il caso per la Cancer Patients Aid Association indiana, ha commentato così la decisione della Corte Suprema: “Quello che sta accadendo negli Usa è che una gran quantità di soldi è sprecata in forme nuove di vecchi farmaci. Questo non accadrà in India” (2). Anche Medici senza frontiere (Msf ) si è schierata a favore della decisione della Corte Suprema indiana, dichiarando che quella del Glivec rappresenta una vittoria nella lotta per ottenere farmaci a basso costo per i Paesi in via di sviluppo.
“È un enorme sollievo per i milioni di pazienti e medici nei Paesi in via di sviluppo che dipendono dai farmaci a basso costo provenienti dall’India, e per i fornitori di cure come Msf. La decisione della Corte Suprema rende ora i brevetti sui farmaci di cui noi abbiamo un disperato bisogno meno attuabili. Si tratta del segnale più forte possibile per la Novartis e le altre multinazionali farmaceutiche che devono desistere dall’attaccare la legge indiana dei brevetti” (3), ha commentato Unni Karunakara, presidente internazionale di Msf, che aggiunge: “Invece di cercare di abusare del sistema dei brevetti modificando le regole e rivendicando sempre più brevetti su vecchi farmaci, l’industria farmaceutica dovrebbe concentrarsi sulla vera innovazione, e i governi dovrebbero sviluppare delle regole che consentano lo sviluppo di farmaci resi subito disponibili a prezzi accessibili. Si tratta di un dialogo che deve iniziare al più presto. Invitiamo la Novartis a essere parte della soluzione e non del problema” (4).
La terapia con il Glivec, infatti, può costare fino a 70.000 dollari l’anno, secondo quanto riporta il New York Times (5), contro i 2.500 dollari della stessa terapia effettuata con la versione indiana del generico. L’India, nelle parole dei commentatori internazionali, è diventata così non solo il giovane Davide che si permette di sfidare e vincere il Golia delle Big Pharma, ma un fulgido esempio per le legislazioni sanitarie di tutti i Paesi in via di sviluppo. Peccato che ciò che si nasconde dietro il conflitto fra le società farmaceutiche occidentali e la legislazione indiana sia in realtà un problema di mercato.
L’industria farmaceutica e i brevetti
Il settore farmaceutico è diviso in aziende tradizionali (research-based companies) e aziende generiche (generics–based companies): le prime investono in ricerca e sviluppo e immettono nel mercato le nuove molecole, coperte da brevetto, mentre le seconde producono unicamente i farmaci generici, cioè quelli per cui il brevetto è scaduto, e che sono commercializzati con il nome del principio attivo che contengono.
La questione del brevetto sì o no, e a che condizioni, è molto spinosa. Data l’importanza che i farmaci rivestono per la salute, si giudica che sia eticamente inaccettabile che le aziende facciano profitto sulla vita umana. Emblematica in questo senso è la celebre frase pronunciata da Indira Gandhi (non a caso un’indiana), nel 1988: “The idea of a better-ordered world is one in which medical discoveries will be free of patents and there will be no profiteering from life and death” (6). Ma nelle forme di mercato capitalistiche così come oggi le conosciamo i brevetti costituiscono lo strumento principale per la protezione della proprietà intellettuale: bisogna considerare infatti che il costo sostenuto per lo sviluppo di un nuovo principio attivo è pari, secondo il Financial Times, a circa 1,4 miliardi di euro (solo nel 1970 erano 140 milioni) e che il processo di innovazione dura quasi tredici anni. L’impresa innovatrice deve dunque essere protetta dal fenomeno dell’inventing around, ossia dallo sfruttamento del principio attivo da parte delle imprese concorrenti: assicurando una temporanea posizione di monopolio, il brevetto garantisce un ritorno sugli investimenti effettuati, particolarmente costosi sia in termini di tempo sia in termini finanziari.
Il problema vero è che, in assenza di meccanismi di protezione, le aziende farmaceutiche tradizionali non avrebbero nessuna utilità a innovare: i brevetti generano quindi, in ottica economica, un guadagno d’efficienza dinamica, costituito da maggiore ricerca e un numero maggiore di prodotti sul mercato, auspicabilmente in grado di migliorare le condizioni di salute della popolazione, che si contrappone alla perdita di efficienza statica causata dalla distorsione al rialzo del prezzo del prodotto nel periodo coperto dal brevetto. Infatti, quello che Novartis India sottolinea, non del tutto a torto, è che “questa sentenza rappresenta una battuta d’arresto per i pazienti e ostacolerà la ricerca di farmaci innovativi per patologie senza opzioni terapeutiche efficaci” (7).
Il sistema sanitario indiano
Il governo indiano dichiara che il Parlamento ha disegnato la legge sui brevetti per assicurare sia un elevato livello di innovazione, sia la possibilità di produrre farmaci a prezzi abbordabili per il consumo locale. La preoccupazione del legislatore per il costo della salute dei cittadini suona tuttavia strana. Nel 2015 l’India entrerà a far parte del ristretto club delle potenze aerospaziali – finora limitato a Usa, Russia e Cina – inviando un suo astronauta nello spazio, e in molti prevedono che nel 2050 sarà la più ricca economia mondiale.
Tuttavia una nazione con tecnologie così evolute e obiettivi così ambiziosi è in coda nella classifica mondiale dello Human Development Index (119° posto su 169 Paesi), e vede al suo interno vaste aree di povertà e livelli di diseguaglianza elevatissimi. Mentre secondo la classifica di Forbes l’India ha 6 fra i 100 uomini più ricchi del pianeta – il più ‘povero’ dei quali vanta un patrimonio di 5 miliardi di dollari – il 55% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà – quella vera – con 1,25 dollari pro capite al giorno (molto peggio di Pakistan, Cina e Brasile), ed esistono enormi diseguaglianze al suo interno tra classi sociali (permangono di fatto anche le divisioni in caste) e tra aree geografiche: nello stato del Kerala solo il 10% della popolazione è povero, mentre lo è l’81% dei cittadini dello stato di Bihar.
L’India ha un sistema sanitario disorganizzato, quasi completamente privatizzato, iniquo e inaccessibile per gran parte della popolazione, come denuncia un gruppo di autorevoli rappresentanti della società civile indiana, riunito intorno alla rivista scientifica The Lancet (The Lancet India Group for Universal Healthcare): solo il 10% dei cittadini è coperto da qualche forma assicurativa, gli altri devono pagare le prestazioni mediche di tasca propria, e ciò spiega perché ogni anno circa 40 milioni di indiani finiscano in povertà a causa delle spese sostenute per la salute, soprattutto nelle aree rurali e negli Stati più poveri. Al tempo della sua indipendenza, nel 1947, l’India si era data un modello di sistema sanitario pubblico e universalistico, in termini ideali molto simile a quello che stava per essere istituito in Gran Bretagna, ma quel progetto non si è mai realizzato; anzi, negli ultimi trent’anni si è assistito a un progressivo impoverimento del servizio pubblico e a una crescita caotica del settore privato.
La spesa sanitaria pubblica pro capite è di soli 11 dollari (un livello simile a quello dei Paesi africani più poveri) e rappresenta appena il 26% della spesa sanitaria totale. La situazione del sistema sanitario indiano è inoltre aggravata da una crescente crisi nel settore delle risorse umane: secondo l’Oms lo standard quantitativo di personale sanitario dovrebbe essere di 25,4 operatori sanitari (medici, infermieri e ostetriche) per 10.000 abitanti, ma il dato indiano è di 11,9 operatori sanitari per 10.000 abitanti, con profonde differenze tra stati (Chandigarh 23,2; Meghalaya 2,5) e tra aree urbane e rurali. La situazione sanitaria indiana è peggiore anche di quella degli Stati vicini, le cui economie sono molto meno floride (vedi tabella).
La conseguenza per il problema che ci riguarda è che gli indiani poveri malati di leucemia, senza alcun contributo statale alla spesa sanitaria, non potranno certamente permettersi il Glivec, ma nemmeno il farmaco generico. Anzi, la loro condizione quasi sicuramente peggiorerà, perché finora Novartis si accollava –per ingraziarsi i giudici? – attraverso programmi di charity (come il Glivec International Patient Assistance Program) le spese mediche di circa il 95% degli utilizzatori indiani del farmaco (quelle del restante 5% potevano essere rimborsate o finanziate da generosi programmi di aiuto ai malati), mentre ora, dopo la sentenza della Corte Suprema, chissà se le agevolazioni saranno ancora disponibili.
La posizione del governo indiano sul controverso tema dei brevetti non sembra dunque legata in modo convincente a preoccupazioni di natura umanitaria. Il fatto è che l’India sta espandendo la politica a favore dei farmaci generici ben oltre le costose molecole chemioterapiche: qualche mese fa la Corte Suprema ha concesso a un’azienda indiana di farmaci generici, la Glenmark Pharmaceuticals, di produrre e vendere un farmaco dell’occidentale Merck contro il diabete, Januvia, benché nel resto del mondo il farmaco sia coperto da brevetto. Sebbene sia una molecola importante, Januvia non è costosa: è stata lanciata in India al prezzo di 86 centesimi di dollaro per pillola, un quinto del prezzo praticato da Merck negli Stati Uniti. Ma per capire le ragioni del comportamento indiano bisogna andare un po’ indietro nel tempo.
L’India e i Trips
Già nel 1970, con il Patents Act, l’India aveva chiarito al mondo intero di voler indebolire la protezione sulla proprietà intellettuale, e particolarmente per quanto riguardava i medicinali, sulla base di una precisa strategia industriale. Le aziende farmaceutiche fanno ricorso principalmente a due tipologie di brevetto: di prodotto e di procedimento. Il brevetto di prodotto protegge la scoperta di un determinato principio attivo, mentre il brevetto di procedimento tutela solamente uno specifico processo di sintesi di una certa molecola. L’Indian Patents Act, che sostituiva la vecchia legge indiana sui brevetti di epoca coloniale, ammetteva solo il brevetto di procedimento e unicamente per una durata di sette anni. Questo consentì alle aziende indiane di produrre legalmente a livello locale farmaci generici il cui principio attivo era coperto da brevetto di prodotto in altri Paesi, semplicemente utilizzando metodi alternativi per sintetizzare il principio attivo (tramite il cosiddetto processo di reverse-engineering), e di esportarli in giro per il mondo, soprattutto nei Paesi poveri.
In dieci anni il numero dei brevetti scese da 3.923 (629 indiani, 3.294 stranieri) a 1.019 (349 indiani, 670 stranieri), e benché tutte le aziende innovatrici risentirono della nuova legislazione, fu subito chiaro che quelle straniere non sarebbero più riuscite a far rispettare alcun brevetto in India (8). Non solo: un aumento delle tariffe doganali e un regime di prezzi imposti resero sempre meno conveniente per le imprese farmaceutiche straniere vendere i loro prodotti sul mercato indiano, tanto che già all’inizio degli anni ‘90 venivano prodotti all’interno il 70% dei principi attivi e l’80% delle formulazioni finite di medicinali. Grazie all’assenza di misure protezionistiche sulla proprietà intellettuale, l’India era così diventato il primo produttore al mondo di farmaci generici (e la bestia nera di Big Pharma).
Ma a metà degli anni ‘90 la normativa indiana sui farmaci dovette essere modificata: l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), infatti, stabilì l’obbligo per i Paesi membri di attuare almeno forme minimali di protezione della proprietà intellettuale. Con l’accordo Trips (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) del 1994 venne vietata la produzione locale di farmaci, vincolandone l’importazione, l’uso e la vendita all’autorizzazione del titolare del brevetto: un brutto colpo per il fiorente settore indiano delle aziende produttrici di farmaci generici. E sebbene all’India (e ad altri Paesi in via di sviluppo) sia stato concesso il permesso di rimandare l’attuazione dell’accordo fino al 2005, il Wto ha imposto di creare nel frattempo un sistema definito mail-box per ricevere e registrare le domande di brevetto nel periodo transitorio 1995-2005.
A partire dal 2005, la mail-box è stata aperta per vagliare le domande di brevetto rimaste in sospeso (fra cui quella del Glivec), eliminando il divieto di brevetto di prodotto che vigeva con la precedente legislazione ed estendendolo alla durata di vent’anni. Ma l’India non si è arresa al Trips senza lottare, e ha inserito nella terza sezione dell’Amended Patents Act del marzo 2005 la possibilità di rigettare richieste di brevetto per nuove formulazioni di vecchi farmaci, a meno di un ‘incremento significativo’ dell’efficacia terapeutica (ed è proprio il caso del Glivec). Non può sfuggire come la dizione ‘incremento significativo’ sia vaga e pertanto suscettibile di arbitrio: quando si può dire che un incremento è significativo, al di là di un tentativo di evergreening? Sulla base di quali razionali? In quali circostanze?
E questa non è l’unica concessione ‘nazionalista’ della nuova normativa: una clausola stabilisce che i farmaci possono essere esenti da qualunque forma di controllo dei prezzi per cinque anni se la molecola è stata sintetizzata da laboratori indiani, oppure se il processo di produzione è stato migliorato (o il sistema di distribuzione innovato) da un’azienda indiana. Sebbene i rappresentanti del governo affermino che l’obiettivo della clausola è incentivare tutte le aziende operanti nel mercato indiano a investire in ricerca e sviluppo, è evidente che il vero obiettivo è permettere ad aziende come Cipla e Rambaxy (le maggiori ditte produttrici di generici in India) di aggirare lo scopo del Trips: cosa impedirebbe infatti a una di loro di migliorare il processo produttivo di un nuovo farmaco sviluppato da altri e di ottenere addirittura un brevetto sul processo, violando i diritti commerciali della detentrice del principio attivo? Difficile non essere d’accordo con Anand Grover, rappresentante legale del settore delle aziende farmaceutiche generiche indiane (lo stesso, non a caso, scelto dai pazienti per la causa sul Glivec): “Le aziende produttrici di generici avranno margini per sopravvivere in India per molto tempo”. E non solo sopravvivere, ma anche crescere, e a che tassi.
Le cifre
L’India è uno dei primi cinque mercati mondiali emergenti per i farmaci: il settore è cresciuto a un tasso annuo medio ponderato del 15% negli ultimi cinque anni, e possiede ancora ampi margini di espansione: ci si aspetta che tocchi i 91,45 miliardi di dollari entro il 2020, come dichiara J.V. Prasad, segretario aggiunto del Dipartimento dei farmaci (DoP). Il settore è inoltre in testa a livello mondiale per quanto riguarda la produzione di farmaci complessi, lo sviluppo industriale e la tecnologia (produzione, sviluppo industriale e tecnologia fanno parte dei famosi ‘processi’, quelli in cui con la nuova legge il diritto di brevetto vale oro).
Grazie all’esperienza maturata nel periodo libero da protezioni brevettuali, il mercato indiano è oggi altamente organizzato per la produzione di medicine di qualità e un numero crescente di aziende trasferisce la sua attività nel Paese. Dato l’elevato numero di partecipanti la pressione concorrenziale è al momento molto elevata, e di conseguenza il livello dei prezzi tende a essere sistematicamente compresso al ribasso, ma il settore inizia a sentire le prime avvisaglie di concentrazione. Le stime danno per il 2013 una crescita del mercato interno intorno al 13-14%, crescita trascinata proprio dall’aumento nelle vendite dei farmaci generici, oltre che di quelli per le terapie croniche e grazie a una penetrazione maggiore nelle zone rurali. Il ministro del Commercio prevede per il 2014 esportazioni pari a 25 miliardi di dollari, con un tasso di crescita annuale del 25%. Appena lo scorso anno l’export era di ‘soli’ 13 miliardi di dollari, con un tasso di crescita del 30%, come ha dichiarato P.V. Appaji, direttore generale di Farmexcil (Pharmaceuticals Export Council of India).
Per sostenere questi altissimi tassi di crescita nelle esportazioni il governo attuerà un piano triennale di brand promotion cui ha dato il nome di Pharma India. Come accennato in precedenza, l’industria farmaceutica indiana copre il 70% del fabbisogno interno, mentre le esportazioni si rivolgono al 60% verso i Paesi in via di sviluppo, e al 40% verso i mercati occidentali di Big Pharma, dove i due business model (quello occidentale basato su brevetti e prezzi elevati in un mercato con sanità pubblica o assicurazioni sanitarie private; e quello indiano basato su farmaci generici e prezzi bassi in assenza di protezione sanitaria), inevitabilmente collidono. Con una dichiarazione di guerra aperta agli Stati Uniti: “Of the export markets, indian pharma will focus on U.S market which presents significant opportunities for the next two years for generics, due to patent cliffs and recent changes in healthcare policies” (9), si legge nel report di Indian Ratings per il 2013.
Il patent cliff (letteralmente: precipizio del brevetto) è il momento di scadenza della protezione brevettuale per i farmaci particolarmente remunerativi (su cui si fonda spesso gran parte del fatturato delle aziende farmaceutiche occidentali), mentre i cambiamenti nelle politiche della salute fanno riferimento alla compressione al ribasso dei budget della sanità pubblica e privata per quanto concerne la spesa in farmaci. Nonostante le pressioni sul congresso Usa affinché si attivi per far rispettare i brevetti delle imprese americane (in un’audizione al Senato, l’azienda farmaceutica Pfizer ha, per esempio, accusato New Delhi: “Si fa beffe d’abitudine delle regole del commercio per rafforzare le industrie produttrici di generici a spese degli innovatori” [10]), sarà molto complicato per Big Pharma arrestare l’avanzata trionfale del capitalismo emergente.
Cina e India si avviano nei prossimi anni a superare gli Stati del G6 (Usa, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia) in termini di Pil nominale riconsegnando all’Asia il primato economico che aveva perso nel XIX secolo con il colonialismo. E se nel 2000 i Paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) producevano solo il 17% della ricchezza del G6, la Cina nel 2010 ha superato il Giappone, e nel 2023 sarà in grado di produrre più dei quattro Paesi europei messi insieme, obiettivo che l’India raggiungerà nel 2039, per diventare nel 2050, secondo la Banca mondiale, la prima economia del mondo, con un Pil di 85,97 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Quella del Glivec è per Big Pharma solo la prima sconfitta.
(1) “Milioni di pazienti nei Paesi in via di sviluppo possono andare a dormire tranquilli sapendo che i loro farmaci sono sulla strada per l’India”
(2) G. Harris – K. Thomas, Low-cost drugs in poor nations get a lift in Indian Court, The New York Times, 1 aprile 2013
(3) Comunicato stampa Msf, La Corte Suprema indiana si esprime sul caso Novartis, 2 aprile 2013
(4) Ibidem
(5) Cfr. G. Harris – K. Thomas, art. cit.
(6) “L’idea di un mondo governato meglio è quella in cui le scoperte mediche saranno libere da brevetti e non sarà permesso di trarre profitto dalla vita e dalla morte”
(7) Comunicato stampa Novartis, 1 aprile 2013
(8) Cfr. J. Lanjouw, Yale University and National Bureau of Economic Research, Usa
(9) “Per quanto riguarda le esportazioni, le aziende farmaceutiche indiane si concentreranno sul mercato Usa, che nei prossimi due anni presenta opportunità significative per il settore dei generici, dovute ai patent cliffs e ai recenti cambiamenti nelle politiche sanitarie”
(10) J. Politi – A. Kazmin, US groups accuse India of IP protectionism, Financial Times, 13 marzo 2013