di Nicola Loda |
Il ponte sullo stretto di Messina come il canale di Panama?
Con ‘grandi opere’ si intende qualsiasi progetto infrastrutturale di grande entità. Quasi quotidianamente le cronache politiche di giornali e televisioni enfatizzano l’importanza di tali progetti, presentandoli come la pre-condizione indispensabile per un decisivo passo in avanti verso la modernità, lo sviluppo, la competitività e soprattutto la crescita del Paese, un po’ come il mulino a vento della Fattoria degli animali di Orwell. Opere delle quali lo Stato si fa carico in nome dell’esclusivo benessere dei suoi cittadini. Fulgido esempio e ‘madre di tutte le grandi opere’ è il ponte sullo stretto di Messina.
Ma si sa, grandi opere comportano grandi costi, sia in termini di capitali che di intraprendenza e capacità progettuale, e non sempre lo Stato può sobbarcarsi tali oneri. È quindi indispensabile che il settore privato faccia la propria parte e contribuisca a dimezzare i costi, facendosi carico delle difficoltà progettuali e lasciando allo Stato… il conto da pagare. Ed è proprio per questo motivo che parleremo della storia del canale di Panama, indissolubilmente intrecciata alla nascita stessa del Paese centroamericano.
Tutto inizia nel 1879, quando Ferdinand de Lesseps, il costruttore del canale di Suez, diede vita alla Compagnia universale del canale interoceanico. Ottenuta una concessione dal governo colombiano (di cui Panama era una provincia) iniziò i lavori. Purtroppo furono sottovalutate le difficoltà di quel che significava aprire un canale nella giungla e il progetto fallì miseramente nel 1889, quando de Lesseps dichiarò bancarotta e finì in carcere con l’illustre socio Eiffel, mandando sul lastrico migliaia di piccoli risparmiatori. Una nuova società, la Compagnie nouvelle du canal de Panama, acquisì i beni dell’impresa fallita (poche draghe arrugginite insieme alla preziosa concessione colombiana) e cercò di ottenere capitali per rilanciare il progetto bussando alla porta dell’unico investitore che poteva concederli: gli Stati Uniti.
Da molto tempo gli Usa erano interessati alla costruzione di un canale, per poter agevolmente trasportare truppe e merci da un oceano all’altro, ma l’opinione pubblica americana appoggiava una soluzione passante per i laghi del Nicaragua, soprattutto alla luce dell’avvenuto fallimento francese. Il Nicaragua era anche un paese maggiormente vicino e politicamente più stabile della Colombia, e forniva 160 km di laghi e canali navigabili. Una forte lobby presieduta dal senatore democratico Morgan difendeva questa soluzione e spingeva per approvare una legge che la finanziasse; anche il presidente McKinley era favorevole. Per vincere le resistenze la Compagnie nouvelle, nel gennaio del 1896, chiese i servigi di William Cromwell, noto avvocato di Wall Street. Cromwell, uomo eccezionalmente astuto e ambizioso, prese a cuore il progetto. Cercò di trattare con il senatore Morgan ma ricevette un rabbioso rifiuto; a quel punto, la vittoria della ‘via di Panama’ divenne una questione personale. Cromwell sfruttò i propri agganci politici e per assicurarsi l’appoggio del Partito repubblicano elargì, a nome della Compagnie nouvelle, una donazione di 60.000 dollari, divenendo il maggior sostenitore del partito. La legge sulla ‘via nicaraguense’ fu prontamente bloccata in parlamento dai repubblicani e venne creata una nuova commissione per discutere tutte le possibili soluzioni, Panama compresa.
In tal modo Cromwell ebbe il tempo di organizzare la mossa successiva: la creazione di una società americana che avrebbe rilevato la Compagnie nouvelle per poi rivenderne i beni e la concessione agli Stati Uniti. Coinvolse nell’impresa le vecchie conoscenze incarcerate per frode, de Lesseps, Eiffel e l’ex ingegnere capo Varilla, alcune eminenti personalità di Wall Street come J.P.Morgan, e personaggi vicini alla politica come il cognato di Theodore Roosevelt e il fratello del ministro Taft. Con questi soci creò, nel dicembre del 1899, la Panama canal company of America.
Assieme alle banche francesi la nuova società convinse facilmente i piccoli azionisti a sbarazzarsi dei titoli ormai senza valore della Compagnie nouvelle e completò l’operazione spendendo solo 3,5 milioni di dollari. Il passo successivo era convincere gli Stati Uniti ad acquistare la Panama canal company per 40 milioni di dollari.
Nel frattempo però, sia la commissione che la Camera avevano approvato una legge per la costruzione del canale in Nicaragua e presto anche il Senato avrebbe dato la sua approvazione. La ‘via panamense’ sembrava accantonata, quando l’uccisione del presidente McKinley e l’ascesa del suo vice Theodore Roosevelt mischiarono di nuovo le carte.
Roosevelt, diversamente dal predecessore, era un presidente energico e decisionista; su consiglio di Mark Hanna, capo dei repubblicani, intervenne direttamente nella questione del canale rovesciando la decisione della commissione e spingendo per una legge che scegliesse l’impervio istmo di Panama. L’opinione pubblica e la stampa insorsero e si appellarono al Senato perché non approvasse la proposta. Nell’aspro dibattito che ne seguì, Cromwell e Varilla fornirono tutti i mezzi per permettere ad Hanna di vincere la battaglia in parlamento; fondamentale si rivelò distribuire ai senatori francobolli nicaraguensi rappresentanti un vulcano in eruzione, sostenendo che se il Paese usava come simbolo un vulcano dovevano necessariamente esserci molti vulcani attivi. L’espediente dirottò verso Panama il favore dei senatori indecisi e il 19 giugno 1902 il disegno di legge passò: il canale sarebbe stato costruito a Panama, a patto che il governo riuscisse a sottoscrivere con la Colombia un trattato soddisfacente.
La Colombia dell’epoca era uno stato diviso da cinquant’anni di guerra civile. Panama aveva tentato più volte la via dell’indipendenza senza mai riuscirci, anche a causa dell’intervento delle truppe statunitensi che, in accordo con Bogotà e in ottemperanza a un trattato del 1846, difendevano la ferrovia americana che attraversava l’istmo. Nel 1902 i ribelli panamensi avevano quasi conquistato l’intera provincia. Il presidente colombiano Marroquín, con la mediazione di Cromwell, si accordò con gli Usa per la cessione della terra in cambio di 10 milioni di dollari, una rendita annua di 600mila dollari, e l’intervento diretto del governo americano per sedare la rivolta. Il 16 settembre i marines attaccarono Colon e sconfissero i ribelli. Nel gennaio 1903 il trattato venne firmato e immediatamente ratificato dal senato statunitense.
Ma sul più bello Marroquín fece marcia indietro e tentò di ricattare la Panama canal company: richiese 15 dei 40 milioni che il governo Usa aveva promesso alla società per l’acquisto della concessione. Se si fosse rifiutata, Bogotà avrebbe temporeggiato fino allo scadere di quest’ultima, nel 1904, per riprendersi i diritti e trattare direttamente con gli americani.
Cromwell non cedette e il parlamento colombiano non ratificò il trattato. A questo punto Cromwell optò per una decisione drastica: scelse due dirigenti panamensi della società ferroviaria americana, Amador e Arango, e li mise a capo della rivolta che rese Panama uno Stato sovrano. Nessuno rimase ucciso in questa rivoluzione: le guarnigioni colombiane, corrotte con fondi elargiti da J.P. Morgan, non spararono un colpo e il nuovo Stato venne immediatamente riconosciuto da Washington. In cambio, i patrioti panamensi dovettero accettare di nominare Varilla come plenipotenziario per la firma del trattato sul canale.
Dopo diciotto giorni dalla sua nascita, Panama cedeva la totale sovranità sul territorio del canale in modo perpetuo in cambio di 10 milioni di dollari. Successivamente, il governo Usa pagò i 40 milioni promessi a Cromwell e soci, che realizzarono una speculazione pari a circa un miliardo di dollari attuali.
La grande opera era compiuta.