Le rivolte arabe e le manifestazioni di piazza europee: i media hanno sostenuto le prime e condannato le seconde, ma le ragioni alla base delle due proteste sono davvero diverse?
“Un ritorno alle nazionalizzazioni scoraggerebbe notevolmente gli investimenti. La storia dimostra che la privatizzazione è stata produttiva, utile e vantaggiosa perché ha aiutato numerosi Paesi a diventare delle democrazie”.
Margaret Scobey, ambasciatrice americana a Il Cairo, 21 maggio 2011
Il 25 gennaio 2011 l’Egitto scende in piazza, dopo che già la Tunisia, tra dicembre e gennaio, ha visto manifestazioni e proteste; l’11 febbraio Mubarak lascia l’Egitto, prima di lui, il 14 gennaio, Ben Ali ha lasciato la Tunisia. L’informazione italiana segue gli avvenimenti con lunghi articoli, analisi e dibattiti. L’interpretazione politica è univoca, così come il sostegno alle rivolte: finalmente, il vento della democrazia è soffiato anche nelle dittature arabe! Qualche timido mea culpa sull’appoggio fornito ai due dittatori fino al giorno prima ma, d’altra parte, la real politik e la non ingerenza negli affari interni di una nazione non consentivano di fare diversamente. E poi, si sente anche dire, il nord Africa non ha avuto la rivoluzione francese, il ’48… la democrazia è un vento che soffia dal basso, deve maturare nelle coscienze delle persone prima che un popolo possa rivendicarla con un’unica voce forte e collettiva. Analisi economiche sulla realtà dei due Paesi sono inesistenti, nella grande informazione italiana e, si può dire, nella totalità dell’informazione mainstream occidentale, europea soprattutto. Nessuno sembra chiedersi perché le rivolte siano scoppiate ora. Attoniti e sorpresi, politici, analisti e giornalisti si limitano a plaudire alla ‘primavera araba’ della democrazia.
Sette mesi prima, nel maggio 2010, esplode la protesta in Grecia; anche in questo caso la stampa segue gli eventi. Rischio default per il Paese, speculazione finanziaria sull’euro, prestiti concessi da Europa, Bce e Fmi in cambio di manovre economiche lacrime e sangue per i ceti medio/bassi – intoccabili restano i grandi capitali, le rendite e le banche – privatizzazioni e smantellamento dello stato sociale: queste le cause scatenanti il dissenso popolare. Ancora una volta, l’interpretazione politica e della grande informazione è univoca: una condanna senza appello delle proteste e degli scioperi generali che paralizzano il Paese.
A un anno dalla Grecia, il 15 maggio 2011, scendono in piazza gli indignados spagnoli, dietro un grande striscione che recita: “Non siamo merce nelle mani dei politici e dei banchieri”. Occupano
le piazze e vi restano campeggiati per giorni, a Barcellona fino al 27 maggio, quando la polizia li disperde con i manganelli, e a Madrid fino al 12 giugno. L’informazione italiana curiosamente è un po’ lenta, questa volta, e impiega qualche giorno ad accorgersi di quanto sta accadendo in Spagna.
Gli indignados protestano contro la politica neoliberista di tagli, privatizzazioni e compressione dei diritti dei lavoratori adottata dall’Unione europea in risposta alla crisi economica, ‘riforme strutturali’ che la Spagna, come tutti i Paesi membri, si appresta a mettere in campo. Chiedono “democrazia reale, ora!” e dichiarano di non sentirsi rappresentati da alcun partito.
L’approccio politico e informativo italiano mira, sostanzialmente, a ignorarli – brevi articoli di cronaca che recitano: nuovamente in piazza gli indignados spagnoli… – o a denigrarli. Uno per tutti, Pierluigi Battista, sul Corsera del 30 maggio, scrive una “Lettera (indignata) agli ‘indignados’”, nella quale li invita a “stare a fianco dei desaparecidos nelle galere di Teheran, dei giovani torturati o impiccati in piazza dal regime degli ayatollah”; a “evitare di ripetere il tragico errore del ’68 d’Occidente, quello che bruciava con un grande spettacolo nel Quartiere Latino ma ignorava un altro ’68, un’altra ‘primavera’, quella volta a Praga, e anche quella volta schiacciata dai carri armati. […] Pensate che aiuto ai giovani che combattono per la democrazia araba se vigilaste con attenzione sull’esito di quelle rivoluzioni, se invitaste quelle donne che l’8 marzo furono brutalmente cacciate da Piazza Tahrir al Cairo dai guardiani della purezza fondamentalista o se salisse sui vostri palchi il blogger laico Whael Ghonim, il simbolo della rivoluzione egiziana cui i Fratelli Musulmani strapparono il microfono non appena venne deposto Mubarak?”. E il giornalista conclude: “Gentilissimi ‘indignados’, se democrazia e libertà non sono per voi solo slogan, aiutereste il mondo a conoscere i nomi di chi, nel nome della democrazia e della libertà, ha perso la vita a Damasco?”.
La dicotomia tra il sostegno alle rivolte arabe e la condanna delle proteste di Grecia e Spagna, mirabilmente sintetizzata nell’articolo di Battista, non sorprende: è la perfetta espressione del pensiero unico neoliberista che affonda le radici nella ‘fine della Storia’ di Fukuyama, nel crollo dell’Urss, nell’oblio del pensiero di Marx, da una parte, e, dall’altra, nella conseguente e necessaria negazione, per incapacità o malafede, degli aspetti economici che hanno fortemente influenzato le rivolte del nord Africa.
The end of History and the Last Man, pubblicato nel 1992, è noto ed ebbe un grande successo.
Fukuyama, teorico legato alla destra neocon americana, ipotizzava l’avvento di un nuova ‘storia universale’ nella quale tutto il mondo si sarebbe omologato al modello occidentale basato sulla
democrazia e il libero mercato. I due aspetti, quello politico e quello economico, diffusi ovunque, avrebbero portato il benessere e la fine di ogni grande conflitto; il crollo del sistema politico e sociale sovietico, con la conseguente sconfitta dell’ideologia comunista, avrebbe infatti impedito il ripresentarsi di un ‘grande conflitto’ basato su un’alternativa di Sistema. Da qui, la teoria della ‘fine della Storia’. Al più, sarebbero potute ancora esplodere guerre locali e minori.
Con tutta evidenza Fukuyama si inserisce nel canone storico dominante che legge le due guerre mondiali e la guerra fredda come conflitti ideologici – la democrazia contro gli imperi centrali militaristi prima, contro l’alleanza nazifascista poi e infine contro il comunismo sovietico. È la stessa etica ufficiale – democrazia, diritti umani e civili – utilizzata nelle guerre post 1989 (ex Yugoslavia, Iraq, Afghanistan e Libia) a nascondere l’etica non ufficiale che vede nell’accaparramento delle risorse e delle zone geostrategiche del pianeta le ragioni dei conflitti.
È chiaro che la Storia non è finita, ma se analizziamo la teoria di Fukuyama solo dal punto di vista ideologico e culturale, la Storia appare morta e sepolta.
La coppia democrazia-libero mercato non è più in discussione, con un’aggravante: l’oblio in cui è precipitato il pensiero di Marx, dopo il crollo dell’Urss, ha permesso al pensiero unico neoliberista
di diffondersi dall’alto senza più alcuna voce critica in grado di smontarlo e svelarne i meccanismi. Con il risultato che perfino proteste importanti come quella spagnola finiscono per desiderare la realizzazione di un ossimoro: un capitalismo etico all’interno di un sistema democratico.
Come se lo Stato fosse neutrale e non l’espressione della classe dominante e dei suoi interessi, come se la democrazia non fosse semplicemente divenuta, dopo il crollo del Muro, la forma politica più idonea all’espansione del neoliberismo.
La vittoria dell’ideologia capitalistica ha infatti creato un regime politico unipolare ma diviso in partiti, i quali, essendo in perfetta sintonia sul sistema economico – il libero mercato – hanno spostato il fuoco dello scontro sui temi etici e i diritti civili – dato che la democrazia esige l’esistenza perlomeno di due schieramenti che si oppongano tra loro su qualcosa. Il voto è così divenuto quel simulacro vuoto e utilissimo che permette di portare avanti la recita: vuoi cambiare le cose?, hai lo strumento democratico delle elezioni.
L’idealizzazione della democrazia è stata la strategia politica vincente del neoliberismo. Ha fissato i confini di un gioco truccato all’interno del quale i cittadini non potranno mai vincere, se non rovesciando il tavolo e rifiutando di giocare; se non comprendendo che la democrazia è divenuta la pietra tombale che si chiude su ogni forma di dissenso.
Una recita che crea anche le condizioni per la condanna ideologica di ogni protesta, la quale diventa ‘antipolitica’ se assume una forma pacifica (la Spagna), ‘terrorismo’ se ai lacrimogeni e ai manganelli della polizia risponde con la stessa moneta (la Grecia). E così Pierluigi Battista può indignarsi, dalle pagine del padronale e istituzionale Corsera, per le manifestazioni spagnole, perché l’unica rivolta ammessa dalla cultura unipolare è quella dei popoli che ancora non hanno la democrazia. Quando Tunisia ed Egitto diventeranno due democrazie di mercato, sullo stampo di quelle occidentali, anche le popolazioni arabe ora applaudite dovranno tacere. Salvo scaldarsi, appunto, per i diritti umani, civili, delle donne, degli omosessuali, delle coppie di fatto ecc.; il nuovo innocuo, dal punto di vista economico (o perfino redditizio, perché capace di aprire nuovi mercati), cavallo di battaglia di quei partiti che una volta stavano a sinistra.
È ancora quel gioco che impone di ignorare gli aspetti economici delle rivolte del nord Africa, ché altrimenti il trucco sarebbe smascherato: se un’analisi svelasse che accanto al desiderio di liberarsi di una dittatura autoritaria la molla della ‘primavera araba’ sono stati lo sfruttamento e l’impoverimento innescati non da un sistema politico ma da un sistema economico; se svelasse
che il sistema economico è quello stesso neoliberismo che dagli anni Novanta regna in Europa come in Egitto e Tunisia; che le rivolte arabe sono esplose ora per la stessa ragione per cui ribolle l’Europa, ossia la crisi economica, come giustificare il sostegno alle prime e la condanna delle seconde?
Al punto che un giornale autorevole come lavoce.info (Tito Boeri, Francesco Giavazzi e Pietro Ichino in redazione) può scrivere in un articolo intitolato “I veri perché della rivoluzione egiziana”
(articolo prontamente ripreso dall’istituzionale Wikipedia nella voce “Sommosse popolari in Egitto del 2011”): “Le cause della rivoluzione egiziana di questi giorni non sono da individuare nel deterioramento della situazione economica del Paese. A partire dal 2000, sono state avviate varie riforme che hanno permesso negli ultimi cinque anni una crescita media del 5% l’anno e una diminuzione della disoccupazione” (1).
Andiamo allora a vedere come stava l’Egitto, dentro le sue riforme e il suo Pil da 5% l’anno.
Al cosiddetto ‘socialismo arabo’ di Nasser, che vide la nazionalizzazione dell’economia e un forte programma di industrializzazione, succedono la politica di apertura agli investimenti privati esteri
e l’avvio delle privatizzazioni di Sadat. Salito al potere nel 1981, Mubarak porta avanti il processo, lo intensifica a partire dagli anni Novanta e lo fa letteralmente esplodere negli anni Duemila. Banche, alberghi, manifatture varie, agricoltura e servizi passano di mano: nel 2005, su 314 imprese un tempo pubbliche se ne contano 209 divenute private; tra il 1994 e il 2001, il numero di lavoratori occupati nelle imprese statali è dimezzato. (Per inciso, l’Italia partecipa attivamente al banchetto. Due operazioni su tutte: San Paolo IMI acquista l’80% di Bank of Alexandria [il cui presidente, Mahmoud Abdel Latif, è un veterano di Citibank e Chase Manhattan] e un consorzio di imprese con a capo Italcementi acquisisce la quota di controllo di Suez Cement, la maggiore industria cementifera dell’Egitto.) Gli investimenti esteri passano da una media di 700 milioni di dollari annui tra il 1996 e il 2004 a 4 miliardi nel 2005, a 6 miliardi del 2006, a oltre 10 miliardi nel 2007 (2).
Fautore del miracolo economico è Ahmed Nazif, nominato primo ministro nel 2004. “Il governo si è impegnato in un programma graduale di riforme, ambizioso per portata ma sapientemente controbilanciato da una giusta dose di realismo politico. Le recenti riforme economiche hanno quindi consentito all’Egitto di imboccare la strada di una vera economia di mercato”, dichiara entusiasta nel 2006 Nicole Laframboise, del Fondo monetario internazionale (3).
Anche l’economia finanziaria esplode. La borsa egiziana passa dalle 3.000/4.000 transazioni al giorno del periodo 2000-2003 alle circa 30.000 del 2007, con una media di un miliardo di pound egiziani negoziati ogni giorno rispetto ai precedenti 50/60 milioni (4). Accanto alle privatizzazioni, le ‘riforme strutturali’ messe in campo dall’Egitto sono lo smantellamento delle barriere commerciali, la creazione di zone economiche speciali che garantiscono privilegi ed esenzioni doganali agli investitori, e una riforma delle imposte, varata nel 2005, che fissa tre sole aliquote, uguali per persone fisiche e imprese: la più alta, pari al 20%, si applica ai redditi/profitti dai 6.500 dollari annui ai… milioni di dollari. Fa da corollario un salario minimo mensile rimasto fermo al valore fissato nel 1984 – 35 pound egiziani, pari a 5 euro – e una legislazione del lavoro che stabilisce appena il 20% dello stipendio, lasciando il restante preda della contrattazione aziendale legata a premi di produzione.
Il Pil inizia a crescere vertiginosamente: dal +1,7% del 2002 al +7,2% del 2008. Poi esplode la crisi e il Pil crolla al 5,1 del 2010. Mentre l’inflazione (ufficiale) passa dal 4,3% del 2002, tocca la
vetta del 18,7% nel 2008 e si attesta a 11,7% nel 2010.
Il neoliberismo sconvolge anche l’agricoltura. Nel 1992 una legge liberalizza l’affitto, e permette ai proprietari di sfrattare i contadini dopo un periodo transitorio di cinque anni. Si creano grandi imprese agricole che orientano interamente la produzione verso le culture di esportazione, cotone soprattutto, con il risultato che il Paese diviene il primo importatore mondiale di grano, con 8,8 milioni di tonnellate l’anno. La gran parte della popolazione mangia grazie al ‘pane sovvenzionato’ dallo Stato, a prezzo calmierato. Dal 2005 al 2008 il costo della carne aumenta del 30%, quello del pollo addirittura del 146%, mentre il governo taglia le risorse per il pane pubblico. Secondo la Fao, tra il 2006 e il 2008 il prezzo del mais aumenta del 74%, poi la febbre sul grano si placa per esplodere nuovamente nel 2010 (+50% in un anno); per il World Food Programme, un’agenzia dell’Onu che si occupa di aiuti alimentari, 40 egiziani su 100 vivono al di sotto della soglia di povertà (con meno di 2 dollari al giorno).
È qui, nella situazione economica che esplode la protesta. Non nel 2011, bensì nel 2007. Parte dalle industrie tessili e si allarga al settore delle costruzioni, all’agroalimentare, ai trasporti, ai servizi sanitari, ai campi petroliferi di Suez, alla siderurgia e ai cementifici. Scioperi, occupazioni di fabbriche, manifestazioni. La rivolta operaia si estende agli impiegati, ai funzionari pubblici e al settore delle professioni. Il 6 aprile 2008 la Misr, la più antica industria tessile egiziana, creata nel 1927, nazionalizzata nel 1960, una delle poche imprese ancora pubbliche e tutt’oggi la più grande del Paese con i suoi 23.000 operai, scende nuovamente in piazza contro lo sfruttamento, i salari da fame e il carovita. Nasce il ‘movimento del 6 aprile’.
A fine 2010 il Garante egiziano per i salari propone al Parlamento l’innalzamento del salario minimo da 35 a 400 pound mensili: da anni i lavoratori egiziani chiedono di portarlo a 1.200.
Manager e proprietari d’impresa si oppongono. Dichiara Khaled El-Monoufi, vicepresidente di Electrostar Egypt, uno dei più grandi gruppi industriali del Paese: “La produttività dei lavoratori
e gli aumenti salariali devono essere strettamente collegati, altrimenti si provocheranno licenziamenti”.
Tutto questo avviene mentre esplode la crisi economica mondiale. Le esportazioni dall’Egitto all’Europa passano dal 33% del 2008 al 15% del 2009; nello stesso anno, le rimesse degli emigranti, che per il Paese costituiscono circa il 5% del Pil, diminuiscono del 18%. L’indennità di disoccupazione non esiste, è stato uno dei primi tagli al welfare operato dalle riforme neoliberiste: soppressa nel 1991.
Secondo un rapporto sul mondo del lavoro egiziano pubblicato nel febbraio 2010 dal Solidarity Worker’s Rights, tra il 2004 e il 2008, 1,7 milioni di operai e manovali hanno partecipato a 1.900 scioperi.
Piazza Tahrir esplode quindi dopo quattro anni di proteste contro le politiche economiche adottate dal governo Nazif e applaudite dall’Occidente e dal Fmi; è sulle rivolte operaie che si innesta la rivolta politica del 2011, interclassista e connotata da una forte presenza di giovani, studenti e disoccupati (metà della popolazione egiziana è sotto i 25 anni).
È difficile credere che i prezzolati giornalisti occidentali esperti di nord Africa non avessero sentito il sibilo, forte e prolungato, che emetteva la valvola di una pentola a pressione in ebollizione da anni; eppure, non vi hanno fatto cenno nelle loro analisi sulla ‘primavera araba’.
C’è chi teme, o auspica, una convergenza di ‘rivolte’. Qualcuno si domanda fino a che punto i cittadini europei accetteranno la macelleria sociale neoliberista come risposta alla crisi neoliberista.
Un assurdo logico, ma non economico. Anche in Italia, il mantra dei politici recita che la crisi offre la possibilità di fare finalmente quelle riforme mancanti: taglio del welfare e svendita di tutto il possibile al settore privato, innalzamento dell’età pensionabile e cancellazione dello Statuto dei lavoratori, innanzitutto. Perché una crisi è una manna se la si sa sfruttare; prima che la curva inverta la tendenza, bisogna saperne cogliere i frutti.
Ma la ferocia di queste ennesime politiche neoliberiste potrebbe, potenzialmente, porre le democrazie di mercato di fronte a una svolta epocale; in una situazione di default del sistema economico e politico occidentale, a opera di cittadini stanchi di essere sfruttati come galline in batteria. Molto probabilmente, nulla di tutto questo. Non ci sarà alcuna convergenza di rivolte.
Le popolazioni arabe avranno qualche miglioramento economico, qualche diritto civile e umano in più e l’auspicata democrazia; impiegheranno almeno qualche anno per comprendere che uno dei diritti fondamentali, l’uguaglianza, nel gioco truccato della democrazia di mercato non va di pari passo con la libertà. E quando se ne renderanno conto, probabilmente, saranno diventati europei. Avranno cioè introiettato l’ideale democratico al punto da non essere più in grado di ribellarsi nella stessa forma, unione, intensità e resistenza che hanno espresso ora.
I popoli europei non andranno oltre gli indignados (gli italiani non arriveranno nemmeno a quello, rimbecilliti dall’antiberlusconismo). Hanno l’esperienza per comprendere che alla democrazia popolare si è sostituito un governo plutocratico di enti economici sovranazionali, ma hanno perso la cultura politica per capire che, arrivati a questo punto, si può solo rovesciare il tavolo.
(1) I veri perché della rivoluzione egiziana, Laura Bottazzi e Rony Hamaui, lavoce.info, 8 febbraio 2011
(2) Egitto: potenzialità di crescita e opportunità di business, Conferenza Intesa Sanpaolo, Unione Industriali Torino, Centro Congressi UIT, 29 maggio 2008
(3) http://www.star-communications.us/corrieredellasera.pdf
(4) ibidem