Da oggi avete un motivo in più per sputare in un occhio a chi afferma “Mussolini ha fatto anche delle cose buone”. Compirete tale nobile gesto sulla base di una motivazione ancora più nobile, come la difesa della biodiversità e, soprattutto, la salute pubblica.
Passo del gambero: per chi non lo sa o per chi ha la memoria veramente molto corta, quando il fascismo prende il potere negli anni ‘20 una delle prime cose che fa è martellare sui miti nazionali, prima di tutti quello della romanità. In effetti far credere a un pigmeo (il popolo italiano) di essere un gigante (cittadino dell’Impero Romano) è un ottimo modo per farselo amico. Per vendicare la sconfitta subita nel 1896 durante la Guerra di Abissinia e nella Battaglia di Adua (primo tentativo di creare una base per un futuro impero) il 13 ottobre 1935 le truppe stanziate in Eritrea attaccano l’Etiopia, violando l’articolo XVI dello statuto della Società delle Nazioni. La conseguenza immediata è l’applicazione di sanzioni economiche, che però sono alquanto traballanti in quanto a efficacia, visto che chi per un motivo chi per l’altro numerosi Paesi continuano a rifornire l’Italia di materie prime importanti, come petrolio e carbone. Germania e Giappone non aderivano alla Società delle Nazioni, e quindi non rispettarono il blocco, così come gli Stati Uniti.
Al mito della romanità da recuperare si aggiunge l’orgoglio nazionalistico del “farcela da soli”, e il regime specula abilmente su questo fattore foraggiando la produzione dei cosiddetti prodotti autarchici. L’impulso dato all’industria chimica, a quella farmaceutica e a quella dei tessuti, si traduce in una serie di prodotti ingegnosamente ricavati dalle materie prime disponibili. Nascono così la fibra artificiale rayon, la lana sintetica ricavata dal latte, il Lanital, il cuoio artificiale, Cuoital. Nel settore dei tessuti spicca per qualità e quantità di produzione la canapa da fibra, di cui l’Italia diverrà il secondo produttore mondiale dietro la Russia, grazie al clima particolarmente favorevole delle zone più depresse del Po (Argenta) e di quelle dell’agro napoletano (San Giorgio a Cremano) che consente fino a tre raccolti l’anno.
La sciagurata simpatia per gli Stati Uniti, spinta anche dalla lobby degli emigranti, in un secondo momento porterà disgraziatamente Mussolini a distruggere la florida ed ecologica industria della canapa a tutto vantaggio del nylon statunitense, adottando al contempo una legislazione antiproibizionista (spalmata su quella americana), che colpisce la canapa stupefacente senza sapere neanche che esiste (antiproibizionisti, oggi sapete con chi prendervela).
Si moltiplicheranno i prodotti di massa dalla qualità scadente: al posto del caffè, divenuto quasi introvabile, saranno utilizzati l’orzo, la ghianda e il fico; andrà di moda il caffè di cicoria, fatto nella ‘napoletana’ riempita a metà e venduto nelle varietà Extra, Cammello e Suora; a Bologna appariranno prodotti improbabili come il Condit, una specie di ragù, e la Vegetina, tortino di verdura dai componenti quantomeno sospetti. La cosa più comica però, sarà la contraddizione evidente tra i consigli dietetici del Partito, che raccomanda una dieta spartana e guerriera attraverso l’opuscolo Sapersi nutrire, ricco di illustrazioni e motti sulla infelicità e i malanni provocati da un eccesso di cibo (“Ne uccide più la gola che la spada”, “Gli obesi sono infelici” ecc.) e la famosa “guerra del grano” del 1925.
Subito dopo la presa del potere il fascismo fa uno sforzo molto grosso per aumentare la produzione agricola. Da un lato investe grandi quantità di denaro pubblico nelle bonifiche delle zone paludose come l’Agro Pontino, che vengono rese fertili e coltivabili. Dall’altro lato fa invece una scelta terribile perché incrementa la produzione dei fosfati e l’ibridazione delle piante del grano, il tutto solo e solamente per aumentare la produzione e rendersi indipendenti dalle importazioni. È sicuramente vero che in sei anni il deficit commerciale viene annullato e l’importazione di grano quasi dimezzata. Ma sull’altro piatto della bilancia abbiamo terreni sempre più sfruttati e impoveriti grazie all’uso massiccio dei fosfati.
Sul piano della salute alimentare, poi, la dieta nazionale peggiora, perché il regime si preoccupa di fornire alla gran massa della popolazione un numero di calorie al più basso costo possibile, il che significa mettere sul mercato una gran quantità di pasta a basso costo a scapito di tutta un’altra serie di alimenti. Viene diffusa l’idea che bisogna sbarazzarsi di tutta una serie di cibi definiti “vili e minori” – i broccoli, le cime di rapa, il farro, le rape: non bisognava né coltivarli né mangiarli per aiutare la produzione del grano. Talvolta il buon senso prevale, ma ci vuole una vera e propria mobilitazione popolare, come quando il regime tenta di convincere i contadini di Castelluccio di Norcia ad abbandonare la coltivazione della loro famosa lenticchia di montagna a favore del frumento. Vennero per suonare e tornarono suonati, come si diceva. Ma la conseguenza più nefasta della battaglia del grano è che l’aumento e la disponibilità della pasta a basso costo è la base più sicura per un aumento esponenziale dell’obesità, che è tutto il contrario dell’effetto salutistico di cui si parlava degli opuscoli di propaganda. Tutto il sapere contadino, legato a un’economia di sussistenza, a una dieta veramente salutare perché sempre accompagnata dall’attività fisica, alla preparazione del cibo in cui predomina la qualità della materia prima e non il condimento, comincia a scomparire sistematicamente nel primo dopoguerra, e anche questo è un effetto collaterale di quella “mutazione antropologica” profetizzata da Pasolini e che oggi è completa.
Sono un figlio del boom economico e non ho conosciuto la fame come tutti coloro che sono passati attraverso la guerra. Ma ho anche avuto la fortuna di crescere in una famiglia sana, come abitudini alimentari, e che manteneva comunque rapporti con la terra e con i produttori. E oggi mi do da fare nel mio piccolo per difendere con le unghie e con i denti la biodiversità: per esempio con lo scambio militante di semi tra produttori diretti: semi di piante antiche, dico, mai toccate da erbicidi, pesticidi e fosfati e semmai da sano letame di vacca che mangia erba sana; semi di piante e di varietà sull’orlo dell’estinzione, che provvedo a piantare, a far piantare e a far ripiantare.
Qualche anno fa ho avuto la fortuna di conoscere un eroe, uno che come me ama la cucina e la musica. In più è anche un emigrato, come me, il che ne fa un militante al quadrato. Si chiama Daniele de Michele, in arte Don Pasta, salentino, DJ, ex economista e attivista del cibo, come l’ha definito il New York Times. Il concerto-performance che gli avevo organizzato è cominciato con un’epopea: quella della parmigiana di melanzane alla salentina, cucinata dalla nonna a Ferragosto. Una preparazione che è una sinfonia-omaggio alla vita e ai prodotti di campagna, coltivati, arrangiati e poi mangiati in proprio, e anche ai protagonisti di queste stesse vita e prodotti che ancora oggi resistono alla inciviltà di cibo inquinato, malsano, di bassissima frequenza. Nella conversazione pre e post concerto DonPasta mi ha raccontato anche il progetto del film che avrebbe voluto fare e che alla fine è riuscito a fare. Si chiama I Villani (con la regia di Andrea Segre) ed è stato presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia. Questo film è il punto d’arrivo di un lungo viaggio attraverso la cucina italiana, che è cominciato con Artusi remix, in cui Don Pasta si è trovato in sintonia con il comitato scientifico Casa Artusi su una convinzione: il sapere del grande scrittore di Forlimpopoli andava reso contemporaneo.
Bando all’archeologia della tradizione: Pellegrino Artusi non aveva mai usato la parola “tradizione” nella sua opera, parlando solo di “cucina quotidiana del tempo moderno”. Don Pasta tramite Facebook ha aggiornato la raccolta di ricette che l’Artusi fece di persona e per lettera. “Mi ha fatto molto piacere vedere che mi hanno scritto molti giovani, che però avevano raccolto le ricette che mi inviavano direttamente dalle loro nonne. E poi mi ha colpito molto il baccalà: è stato decisamente l’ingrediente più citato nelle ricette che ho ricevuto, indipendentemente dalla provenienza regionale. Per me il baccalà è diventato una specie di simbolo, perché rappresenta la massima espressione della tecnica popolare applicata al cibo, in contrasto con quell’esasperazione dell’ultra-tecnica della cucina cosiddetta ‘alta’ che oggi ha una grande visibilità mediatica. E che è un bene che ci sia, soprattutto se, come questa ricerca mi ha confermato, non intacca quel sapere comune e diffuso che è alla base anche della dieta mediterranea” (1).
Ecco così che troviamo Totò, coltivatore siculo di grani duri, antichi come i monumenti della Magna Grecia, filosofo e stornellatore alla chitarra, che parla della lenta dissoluzione del mondo contadino sotto i colpi delle coltivazioni intensive e della burocrazia che mette fuorilegge i preparati tradizionali. Ci sono due fratelli pescatori e allevatori di cozze a Taranto, Santino e Michele, per cui l’indipendenza da ogni padrone conta più della ricchezza. Ci sono un paio di allevatori del Sannio, Modesto e Brenda, che resistono tra mucche e capre ed epidemie del bestiame. E c’è infine Luigina, orgogliosa e caparbia coltivatrice trentina che si realizza nel suo lavoro, nei suoi semi non ibridi che possono riprodursi nella loro biodiversità.
Mi commuove pensare a questi personaggi come a tanti Asterix, resistenti caparbi (per quanto tempo?) e sicuramente rivoluzionari nella fede nella Natura, nella solitudine del giusto che lotta contro l’omologazione, la globalizzazione, la spietata legge del mercato.
Anche la colonna sonora di questo lavoro ricalca la sua impostazione: sette brani che profumano di salmastro, di terra riarsa, di sole a picco (Acqua ca nun leva sete), di andamenti ondeggianti e malinconici, come i fianchi delle vacche in transumanza (Blues per il benessere delle vacche e Blues per Modesto) e poi due perle, col sax di Daniele Sepe a farla da padrone in Militanza e Pasta Dub con una voce che parla di lontananze. Marco Messina e Sacha Ricci dei 99 Posse mescolano con sapienza gli umori del nostro Sud con l’elettronica e il dub, le chitarre di Alessandro Mannarino ed Ernesto Nobili, la voce di Salvatore (Totò) Fundarò.
Correte a vedere questo documentario dovunque lo proiettino. Gustatene il sugo, fatto proprio di questa musica e delle parole (poche) dei protagonisti. Ascoltate le parole profetiche di Lino Maga, leggendario vignaiolo dell’Oltrepò Pavese, amato da Pertini, Veronelli e Gianni Brera e antesignano dei vini naturali. E infine pensate a una nonnina, che su un ampio tagliere di legno impasta con gesti precisi (massimo risultato, minimo dispendio energetico) acqua, farina e magari uova per darvi la pasta più buona che abbiate mai provato. Ecco, in questa semplicità affratellate tutto il mondo che impasta, ‘ammassa’ come si dice in tutto il Centro-Sud, attraverso un ipnotico dub e una melodia che profuma di spezie lontanissime… vi ritrovate, fatalmente e simpaticamente, a Napoli, con la voce e le percussioni di Ciccio Merolla.
Ciccio mi folgora una sera che tiro fuori l’ultimo pacco di pasta della ditta Cocco, conservata gelosamente in dispensa per farmi un’amatriciana come zio comanda (certo, ho anche il guanciale e pecorino incazzito di Amatrice), e mi fa girare la testa e ridere fino alle lacrime con questo ‘Mpastà. Riconosco immediatamente l’andamento, che sa di cammello e dune, polvere e tè alla menta, e la voce angelica che sgorga da un corpo come quello di Jabba the hut di Star wars: è Nusrat Fateh Ali Khan di Mustt Mustt, buonanima, la stella più brillante della mistica sufi pakistana, che rivive nella voce e nelle percussioni dell’ottimo Ciccio Merolla, carismatico percussionista napoletano (già con Bennato e mille altri artisti) che si mette in proprio, sforna tre album uno più simpatico dell’altro, fatti di una Napoli viva e sanguigna, e alla fine tira fuori questo improbabile monumento dedicato prima di tutto all’arte dell’impastare, ammassare, mettere assieme, e poi al sublime casatiello, una pasta di pane trattata con formaggio (cioè caso, dal latino caseum, quindi casatiello), strutto, ciccioli e altri salumi, uova intere, e rilievitata, quindi cotta, preferibilmente in forno a legna. Di solito si fa a Pasqua, ma in barba alla simbologia religiosa inscritta nel preparato, si può tranquillamente mangiare tutto l’anno. Basta saperlo fare o trovare qualcuno che lo faccia per voi. Ma da oggi rifiuto di mangiarlo se non ho sotto ‘Mpastà di Ciccio Merolla (https://www.youtube.com/watch?v=ltkpFxKLE2s).
Salute!
1) Dall’intervista a Nicolò Vecchia https://www.identitagolose.it/sito/it/118/8978/in-libreria/lartusi-e-il-dj.html?p=0