di Davide Corbetta
Dietro la separazione degli immigrati tra clandestini e richiedenti asilo, la grande speculazione del Villaggio della Solidarietà di Mineo e l’accaparramento dei fondi europei trasformati nel guadagno privato dei soliti imprenditori amici
Il 4 aprile scorso, il quotidiano La Repubblica riporta un accorato appello di Gustavo Zagrebelsky pubblicato nella home page di Libertà e Giustizia, associazione della quale lo stimato giurista è presidente onorario. Il testo è una forte invocazione alla mobilitazione della società civile contro il degrado che attualmente affligge la democrazia italiana, per responsabilità, in primis, del governo; degrado di cui è parte integrante anche “l’assenza di pietà per esseri umani privi di tutto, corpi nelle mani di chi non li riconosce come propri simili”.
Zagrebelsky traccia un toccante quadro delle “navi affollate di esseri umani alla deriva” e delle “immense tendopoli” militarizzate che accolgono i profughi giunti al sud Italia. Tuttavia, a parte le parole struggenti e il caldo richiamo al volontariato bipartisan (laico e cattolico) e, perché no, anche a quello pubblico; a parte un innocuo buffetto sulla guancia del governo, non “immune dal vizio d’accarezzare le pulsioni più egoiste del proprio elettorato”; a parte la considerazione su che cosa si aspetta “la parte civile del nostro Paese”, quella alla mobilitazione appare più che altro un’invocazione alla retorica.
In un punto soltanto l’appello sembra avvicinarsi al nocciolo duro di una questione che, forse per le capacità dello Stato di nascondere la forma economica dietro quella politica, forse per l’incapacità del giurista di sfrondare la prosa e di entrare a gamba tesa nelle pratiche sociali del potere, passa ancora ben celata sotto i banchi del governo – per buona pace di Zagrebelsky, ma non nostra: l’affermazione che, “prima di distinguere tra i profughi chi ha diritto al soggiorno e chi no”, ci dovrebbe accomunare “un grande moto di solidarietà”.
Senza nulla togliere alla solidarietà, una discrepanza come quella tra i profughi aventi e non aventi diritto, a un giurista di lungo corso, dovrebbe dire qualcosa di più. Forse suggerire come questa spartizione sia oramai alla base di una nuova etica del lavoro: l’extracomunitario non è più soltanto il barbaro e primitivo nomade conquistatore, giunto da fuori i confini politici dell’Unione europea, ma anche una rinnovabile materia prima, utilizzabile in tutti i processi di produzione: economici, politici e sociali. È solo attraverso questi processi, che l’immigrato può rientrare appieno nella dialettica etica e culturale di quella “parte civile del nostro Paese” a cui Zagrebelsky si rivolge; e non come soggetto di moralità, ma come oggetto prodotto per la moralità.
Lo ‘studio di settore’ sull’impresa dell’immigrazione, cela al proprio interno quell’idea archetipa che gli studenti dei corsi di Michel Foucault, nelle sue lezioni al Collège de France (1970-1984), hanno conosciuto come ‘sorveglianza e punizione’; un meccanismo di potere che prende piede in quel momento storico in cui le discipline del corpo, attraverso le proprie strutture, accrescono l’utilità del corpo stesso. Quindi la sua capacità di generare plusvalore.
Gli sbarchi di immigrati tunisini sulle coste italiane, fenomeno intensificatosi nei mesi di febbraio e marzo scorsi, dopo lo scoppio dei conflitti nord africani, sono quel momento storico da cui ha preso avvio un nuovo meccanismo di potere. Gli scarroccianti barconi della speranza hanno portato sulle coste meridionali più di seimila fuggiaschi, riconosciuti dal governo come ‘immigrati clandestini’ e ‘rifugiati politici’: una divisione di classe, con soluzioni di classe.
Se per i primi, l’accoglienza è avvenuta nei già istituiti Cspa, Cda, Cara e Cie (1), per i secondi ha dovuto pensarci, ancora una volta, l’agile mente liberista del presidente del Consiglio, opportunamente consigliata da quella del suo ministro degli Interni leghista. È bastato un sopralluogo a Mineo, piccolo comune situato nella contrada di Cucinella (Catania), per elevare a più solidali (e internazionali) scopi quello che fino a ieri era conosciuto col nome di Residence degli Aranci, e che è in un lampo diventato il primo Villaggio della Solidarietà. L’ennesima struttura del potere.
La struttura del potere
È dal portale di documentazione civica quimineo.netsons.org che possiamo ricomporre, grazie a un’intervista all’ingegnere Rubino – dell’organico dell’azienda costruttrice Impresa Pizzarotti & C. s.p.a. di Parma – la planimetria del residence eretto nel 1997 (a uso esclusivo con vincolo di destinazione) per le famiglie dei militari USA di stanza alla vicina base di Sigonella.
Il centro si estende per 70.000 metri quadri, e il nucleo abitativo è composto da 404 villette. Avendo alloggiato soldati stranieri, è dotato di un ufficio governativo, ma anche dei più elementari esercizi commerciali, come supermercato e bar. E non mancano edifici di sociale interesse quali palestra, asilo, centro ricreativo, sala per funzioni religiose e una caserma dei vigili del fuoco.
Gli ospiti possono trovare piacere nei numerosi spazi ludici, campi da baseball o football americano. Oppure passare un mezzogiorno diverso nelle aree picnic e barbecue. Sempre con un occhio ai più piccoli, che possono sfogarsi alle giostrine, oppure sgambettare sui dodici ettari (compresi giardini privati), accuratamente irrigati da un impianto computerizzato.
Le villette, nelle quali adesso alloggiano i rifugiati, non si presentano da meno: cucina abitabile, sala da pranzo, soggiorno, bagno, lavanderia e tre camere da letto (due piani, per un totale di 160 metri quadri). Ciascuna unità, poi, è climatizzata da un impianto autonomo che fornisce l’elettricità e, come racconta Rubino, “il residence è autonomo dalle condutture pubbliche: attinge a un pozzo privato di 20 km da qui, nel territorio di Vizzini. Attraverso un acquedotto – anche questo di proprietà della Pizzarotti”.
I costi di manutenzione di questo autosufficiente e privato residence, prototipo del villaggio borghese, per una vita borghese, con passatempi borghesi, sono più di 2 milioni di euro l’anno; costi nei quali rientrano anche gli stipendi dei lavoratori locali impiegati al residence, alle dipendenze della Pizzarotti o delle ditte subappaltatrici.
Costi che i militari USA hanno deciso di abbandonare, con una lettera del governo americano datata 26 gennaio 2010, nella quale si dava disdetta al contratto di locazione (8,5 milioni l’anno) in scadenza per l’1 aprile 2011, costringendo l’azienda di Parma a correre ai ripari.
E così, il residence ha vissuto quello stesso mutamento che nel XVII secolo ha trasformato i lebbrosari in case di internamento per i poveri: un effetto riciclaggio. Il piano di salvezza dell’immobile (denominato all’occorrenza ‘nucleo sociale polifunzionale’) aveva previsto una riconversione in luogo detentivo alternativo per detenute madri, poi in centro di accoglienza per tossicodipendenti, approdando infine all’attuale Villaggio della Solidarietà – non dopo aver tentato (senza riuscirci) di attrarre privatamente le famiglie americane con un canone di affitto per le super villette pari a 900 euro mensili.
Agli inizi di marzo il governo sequestra l’intero complesso, in questo modo scavalcando, causa emergenza umanitaria, il vincolo esclusivo di insediamento residenziale ad ambito chiuso. Ciò che importa, è mantenere la prassi del meccanismo di potere: catalogazione, isolamento, sorveglianza e riabilitazione sociale. “Con un senso del tutto nuovo, e all’interno di una cultura assai diversa, le forme resisteranno. Essenzialmente quella forma fondamentale di una separazione rigorosa che è esclusione sociale, ma anche reintegrazione spirituale” (2).
Forme di integrazione spirituale: il social housing
In una realtà chiusa come quella dell’ex Residence degli Aranci, diventa fondamentale far sì che le infrastrutture e le attività commerciali che la compongono non perdano l’opportunità di svilupparsi; si possono in tal modo allontanare le accuse (sulla bocca di molti) di voler creare un ‘ghetto’ o peggio ancora un ‘lager’, e ci si può inserire nei programmi di social housing, ovvero un polo economico che incarna i buoni valori borghesi (si potrebbe dire anche cristiani): lavoro, famiglia, sanità.
Il progetto originale, in effetti, prima del sequestro del villaggio a opera dello Stato, era proprio quello del social housing; ma qualcosa non ha funzionato.
Il fondo per il social housing nasce da una trattativa triangolare tra il ministro dell’Economia Tremonti, le banche, e i presidenti delle principali Casse di previdenza private. O, come ha affermato Rubino, il social housing è “un’impresa che produce un utile: si uniscono il versante imprenditoriale e quello sociale”. Ovvero, è un maxi fondo immobiliare, che già esiste in Lombardia e Veneto e che potrebbe svilupparsi anche in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche e Piemonte.
L’idea di Tremonti è che il fondo abbatta i canoni di locazione, fissando un cosiddetto canone calmierato (3). Il piano prevede, come in ogni buon palazzo, un amministratore di condominio che si occupi (come fa la Pizzarotti a Mineo) della gestione e della manutenzione.
Quello che sembra un semplice rapporto contrattuale, fa parte della legge 2008 Piano Casa, la quale aveva previsto un finanziamento per 2,6 miliardi compartecipato dalle banche.
Finanziamento messo a disposizione per 1 miliardo dalla cordata Allianz Bank, Gruppo Banca Generali, Intesa Sanpaolo e Unicredi Banca; per 500 milioni da dieci Casse di previdenza private; per un altro miliardo dalla Cassa depositi e prestiti. Infine, per 140 milioni dal ministero delle Infrastrutture. Ma chi sono i beneficiari del progetto?
Giovani sposini, studenti, anziani, disoccupati, divorziati e, ovviamente, immigrati.
Dunque deve essere parsa un’occasione imperdibile (oltre che compatibile), per un’azienda di grande esperienza come la Pizzarotti, candidare (sempre scavalcando il vincolo esclusivo di insediamento residenziale ad ambito chiuso) il fu Residence degli Aranci.
Come avrebbe dovuto svolgersi l’operazione è presto detto: cessione dell’intero complesso a fondi sociali. La Pizzarotti sarebbe divenuta socio di minoranza, mentre la Cassa depositi e prestiti quello di maggioranza, con una quota del 40%; lasciando una buona fetta del 20% a Intesa Sanpaolo e un altro 20% a Comuni, enti e cooperative.
Ma simili operazioni hanno i loro tempi: la delibera del finanziamento del fondo era prevista non prima della fine di marzo. Troppo a ridosso della scadenza del contratto di locazione con gli americani (e dell’incasso dei relativi canoni d’affitto), e anche troppo tardi per inserirsi nella gestione dell’emergenza umanitaria dell’immigrazione. Che fare?
Se i canali finanziari vanno a rilento, l’unica alternativa è usare quel ‘primato della violenza’ che sempre le società borghesi ascrivono al ‘primato della politica’, camuffando in tal modo i reali rapporti di potere esistenti tra economia e politica. Basta introdurre nel piano di emergenza – come ha fatto il ministro dell’Interno Maroni – il potere, anche provvisorio (la temporalità e la temporaneità sono fondamentali nelle negoziazioni), “di requisire residence o altre strutture abitative” da riconvertire in centri d’accoglienza per immigrati (4)… et voilà, è fatta. Un movimento di capitale, camuffato in un’operazione politica.
Le politiche di inclusione sociale
Per ogni struttura del potere (la più conosciuta, oggi, è la prigione), lo scopo della reclusione e dell’esclusione (sociale) è di rendere un corpo povero, responsabile e regolato, trasformandolo in un inconsapevole strumento di ricchezza a basso salario.
Il residence catanese, dunque, è apparso un’ottima occasione per collocare sulla piazza del lavoro gli ‘abitanti giunti da fuori’. Già in fase di progettazione di social housing, infatti, era prevista la possibilità che i nuovi cittadini del villaggio collaborassero alla manutenzione del residence (depuratore, potabilizzatore, impianto fotovoltaico ecc.); oppure si integrassero nella realtà economica locale, frequentando corsi di formazione, orientamento scolastico e professionale; e, soprattutto, mandassero i proprio figli all’asilo della struttura, e nelle scuole dei paesi vicini.
La riorganizzazione dell’ordine e della società, quindi, doveva passare attraverso le politiche di inclusione sociale e le politiche di lavoro, con l’ingresso di nuovi soggetti (catalogati e osservati) pronti a sostituire lebbrosi, poveri e folli, in questa moderna operazione di riciclaggio produttivo. L’unico problema, forse, è stato di non aver tenuto conto della volontà di chi al residence avrebbe dovuto convivere forzatamente.
Del resto i patti, o meglio il Patto per la sicurezza, tra il ministro Maroni e i sindaci, prevedeva (genericamente parlando, perché così genericamente è stato stipulato) solo di potenziare e rafforzare la sicurezza e la sorveglianza nel territorio limitrofo alla struttura presidiata: duecento soldati (seguiti dai sessanta carabinieri mandati dal ministro La Russa) pronti a vigilare, proprio come avviene in ogni buon centro detentivo.
Dopo i primi trasferimenti a Mineo, sono iniziate le fughe di massa dal ‘lusso’. Alcuni rifugiati si sono avventurati nelle campagne, ma anche nelle strade, per una passeggiata di oltre 700 chilometri, tanta è la distanza da Catania a Roma, in cerca di lavoro e di condizioni migliori (magari prolungando il viaggio fino alla Francia e alla Germania). Forse perché dei campi da football e da baseball, della palestra e di dodici ettari di giardino non sanno che farsene.
Forse per la paura di un mancato ottenimento dello status di rifugiato politico, e quindi di un coartato ritorno in patria (l’approdo a Mineo, infatti, non garantisce affatto l’accettazione della domanda di asilo).
Soluzioni di classe: i fondi europei
Qual è l’origine della divisione, governativa, tra immigrati clandestini e rifugiati politici?
È stato nel centro di accoglienza di Lampedusa che si è effettuato il primo smistamento dei corpi. Mentre gli immigrati clandestini venivano portati nelle altre strutture a sud del Paese (Bari e Brindisi), i richiedenti asilo e i rifugiati politici, quelli appena giunti e quelli già da prima alloggiati nei centri dello Sprar (Sistema di protezione dei rifugiati, istituito dalla legge Bossi-Fini, che gestisce i Cara), venivano imbarcati su navi e aerei diretti a Mineo.
Certo un compito non piacevole, quello di sradicare le famiglie già integrate nei Centri per trasferirle a Mineo, dove dovranno ricominciare da capo il percorso di inserimento, in un costosissimo centro detentivo multietnico (tunisini, eritrei, somali, iracheni, afghani e pachistani)
con tutti i problemi sociali e religiosi che ne conseguono. Eppure è stato fatto.
Una strada dunque conduce a una procedura di improbabili rinnovi di permessi di soggiorno, nuovi smistamenti e, nella peggiore delle ipotesi, un viaggio di ritorno verso la Tunisia; l’altra porta dritti ai cancelli del residence delle meraviglie, e alla speranza di una rinascita sociale dovutamente spesata dallo Stato. Davanti al bivio, però, è ancora poco chiaro come sia stata compiuta la scelta.
Per farsi un’idea, occorre prima di tutto partire dalla frase con cui il Comitato Pro-Residence definisce i fortunati di Mineo: “Gli ospiti della struttura, nella generalità dei casi, saranno persone non pericolose e peraltro interessate a mantenere una buona condotta al fine di ottenere lo status di rifugiato”. Ma che cosa si intende per ‘rifugiato’?
La risposta ci viene dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che definisce, nel suo primo articolo, come rifugiato politico, “chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1 gennaio 1951, e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale, o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza, e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”.
Sintetizzando, chiunque abbia anche solo il timore di essere perseguitato, ha diritto, senza distinzioni di razza, religione o Paese di origine, a un trattamento favorevole, al pari di altri cittadini stranieri residenti e non residenti sul territorio. Diritto che si estende alla libertà di culto (art. 4), all’acquisto di unità mobiliari e immobiliari (art. 13), all’esercizio di attività professionale dipendente (art. 17) o indipendente (art. 18) e, ovviamente, all’educazione pubblica (art. 22).
Stando così le cose, è davvero ammirevole la capacità di chi, al Cara di Lampedusa, è stato capace di distinguere, tra i seimila immigrati giunti in poche settimane, il rifugiato politico perseguitato (o l’aspirante tale) dai finti tunisini, libici, egiziani ecc. non perseguitati in patria (ma non lo sono tutti?). Specialmente in un’isola dove ci sono sbarchi ogni giorno, tra le proteste dei lampedusiani e le lamentele continue di chi si trova senza acqua, cibo e sigarette. E dove gli immigrati vengono già smistati tra il Centro, la parrocchia locale e la stazione del porto (oltre alle varie tendopoli erette un po’ ovunque).
Forse, per cercare di fare ancora più luce sulla faccenda, è bene dare un’occhiata a cosa ci viene detto, in materia di immigrazione clandestina, dal decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286, ‘Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione, e norme sulla condizione dello straniero’ – e già si potrebbe notare, solo dal titolo, come il fuoco venga spostato dalla parola ‘immigrato’ a quella ‘straniero’, producendo due catalogazioni differenti che però, di fatto, vengono assorbite tutte dalla seconda.
Infatti, il predetto Testo unico, viene applicato “salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri” (art. 1). E quindi a tutti gli stranieri, macro categoria oggettiva che viene ulteriormente oggettivata dall’articolo successivo: “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato, sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore, e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti” (art. 2).
Dunque, a far fede, il Testo unico riconosce alla persona straniera gli stessi principi umani riconosciuti dalla Convenzione di Ginevra.
Una specifica, se così si può chiamare, viene solo dall’art. 7, il quale appella come rifugiati gli “stranieri nei cui confronti sono state adottate misure di protezione temporanea per motivi umanitari”.
Il punto, dunque, sembrano essere i motivi umanitari, e diventa davvero complicato operare una
distinzione tra le due classi di profughi approdate a Lampedusa nei mesi scorsi, specialmente quando il governo, per primo, ha postulato lo scoppio delle rivolte in nord Africa come uno dei motivi principali dell’emergenza.
Al di là delle capacità soggettive di chi effettua il censimento nei centri di accoglienza, è chiaro come oggettivamente non ci sia alcuna differenza tra le due classi. La questione, quindi, permane.
Come mai il piano d’emergenza del ministro Maroni ha previsto questa suddivisione?
Forse qualcuno ricorderà che nel mese di febbraio, il ministro leghista ha ragguagliato il portavoce della Commissione Ue agli Affari interni, Cecilia Malmstrom, sulla situazione degli sbarchi a Lampedusa. Una telefonata puramente informativa, alla quale però sono seguite accuse rivolte all’Unione europea di lasciare sola l’Italia con la sua emergenza profughi.
Più che lasciarla sola, lasciarla a bocca asciutta.
Tra le accuse alla portavoce Ue, infatti, anche quella di aver promesso al nostro Paese 25 milioni quando Maroni, invece, aveva fatto richiesta per 100, perché “il punto è che uno Stato membro, che interviene in una situazione di emergenza, spendendo un sacco di soldi, ha diritto a un risarcimento”. Il punto è, ha replicato la Malmstrom, che 25 milioni di euro non sono quelli promessi all’Italia, ma quelli stanziati per il Fondo di emergenza europeo, quindi da suddividersi tra tutti i Paesi facente parte dell’Unione.
Dal sito del ministero dell’Interno (5) si può apprendere, infatti, che il ‘Programma generale solidarietà e gestione dei flussi migratori dell’Unione europea’ ha messo al bando quattro fondi, di cui uno per i rifugiati e uno per il rimpatrio degli immigrati.
Il bando del primo fondo “riguarda le politiche e i sistemi dell’asilo degli Stati membri, e promuove le migliori prassi in tale ambito. In linea con l’obiettivo del Programma dell’Aja di costituire un sistema di Asilo unico europeo, il fondo mira a finanziarie progetti di capacity building creando situazioni di accoglienza durevoli per i beneficiari. […] Obiettivo finale è quello di creare un sistema unico di asilo, improntato al principio della parità di trattamento, che garantisca alle persone effettivamente bisognose un livello elevato di protezione, alle stesse condizioni in tutti gli Stati membri”.
Entrando nel dettaglio, si può scoprire che tra il 2000 e il 2007, al nostro Paese sono già stati assegnati fondi per 17,5 milioni. In questa nuova fase, iniziata nel 2008, con scadenza 2013, i fondi saranno messi a disposizione – secondo la Decisione 573/2007/CE – di azioni complementari, integrative e rafforzative allo Sprar. Azione complementare come il progetto sociale del Villaggio della Solidarietà (complementare ai già esistenti centri di accoglienza).
Facendo un rapido calcolo, il fondo destinato all’amministrazione umanitaria dei rifugiati politici ammonta a circa 24,4 milioni, di cui 10,8 disponibili nel triennio 2011-2013. La spartizione del malloppo, tra coloro che presenteranno la domanda, dovrà essere effettuata dal ministro dell’Interno.
Per quello che concerne il rimpatrio degli immigrati, il Fondo, istituito con decisione 527/2007/CE, ha lo scopo di “sostenere gli sforzi compiuti dagli Stati membri per migliorare la gestione dei rimpatri in tutte le sue dimensioni, sulla base del principio di una possibile gestione integrata del problema (rimpatri forzati e rimpatri volontari assistiti)”.
Facciamo due calcoli anche qui: totale del fondo 68,2 milioni, di cui 50 milioni per il triennio 2011-2013.
Certo balza all’occhio la differenza – questa sì reale – tra la disponibilità di risorse a disposizione dei fondi per i rifugiati e quella accessibile ai fondi per i rimpatri. Una sproporzione che sottolinea la necessità di un’assurda separazione degli immigrati tra due categorie di profughi: pochi fortunati a cui riconoscere lo status di rifugiato politico, da stipare in villaggi della solidarietà – il complesso di Mineo è preposto a ospitare 2.000 persone, il governo pensa di metterne 7.000 – e tanti da rispedire nei Paesi d’origine.
L’accaparramento: da pubblico a privato
Sorge il sospetto che la struttura di Mineo sia stata convertita ad hoc per poter accedere ai fondi destinati all’accoglienza dei richiedenti asilo; che si sia voluto aiutare qualcuno; e che si sia dovuto farlo molto in fretta.
È il caso di tornare alla motivazione che ha fatto entrare nel business della solidarietà l’ex Residence degli Aranci: la scadenza del contratto di locazione stipulato tra il governo americano e la Pizzarotti, impresa appartenente alla famiglia Pizzarotti dal 1910, e in modo particolare al Cavaliere del lavoro, Paolo Pizzarotti, dal 1966, che con la holding Mipien s.p.a. ne detiene il 92,4%. Sebbene sia un imprenditore poco noto alla cronaca nazionale, navigando in rete si possono trovare interessanti ‘narrazioni’ che riguardano l’uomo e la sua attività.
C’è chi lo associa a Piersilvio Berlusconi, chi a Calisto Tanzi; detiene una porzione di Teleducato, ed è consigliere di amministrazione della Gazzetta di Parma. Ma i veri affari li conclude con l’azienda di famiglia.
Con il suo capitale sociale di 15 milioni di euro e un patrimonio netto di 18,6 milioni, di esperienza ne ha fatta parecchia, distribuendo la propria attività su quattro settori principali: energia, infrastrutture, edilizia e acqua. Ed espandendo le proprie opere, oltre che in tutta Italia, anche nelle Filippine, in Francia, in Algeria, in Marocco, negli Emirati Arabi, in Nigeria, nel Principato di Monaco, in Svizzera e in Israele – dove è coinvolta nella costruzione di una nuova linea ferroviaria ad alta velocità che penetra in Cisgiordania, confiscando terre palestinesi, e sarà destinata all’esclusivo uso degli israeliani (6).
In Italia si è occupata della linea ferroviaria San Gottardo e del collegamento Busto Arsizio-Malpensa; della circonvallazione Naturno-Stava a Bolzano e di un tratto stradale della Catania-Siracusa; a Napoli della metropolitana linea 1 e delle torri 7G e 7D del centro direzionale; a Roma della ristrutturazione del Palazzo di Giustizia, a Milano del polo fieristico di Rho e a Parma del pronto soccorso dell’ospedale civile.
L’azienda, tuttavia, è famosa nel settore per la sua collaborazione con il governo degli Stati Uniti. Il riferimento non è solo all’ex Residence degli Aranci, ma anche a lavori presso la base di Sigonella (per l’edificazione di un centro destinato alla cosiddetta Forza d’intervento rapido statunitense), a Belpasso, provincia di Catania (per un immobile costituito da 526 villette destinate alle famiglie dei soldati di Sigonella) e al l’isola della Maddalena (per l’ampliamento delle banchine alla base navale Santo Stefano).
Poi c’è stato il residence di Mineo, per la cui costruzione l’azienda ha fatto ricorso a un mutuo (locazione finanziaria) con Intesa Sanpaolo: il finanziamento è stato ammortizzato in quattordici anni, dei quali dieci sono già trascorsi. Come faremo a pagare le rate dei quattro anni restanti, senza il contratto di locazione al governo americano?, deve essersi domandata la Pizzarotti.
Fossimo stati in altri tempi, magari negli anni Ottanta/Novanta, la società avrebbe potuto ricorrere all’aiuto del buon caro vecchio Sistema, come già fece nel 1992, quando consegnò a Craxi 500 milioni di vecchie lire in cambio degli appalti per la costruzione di Milano Malpensa. Erogazione attestata dai procuratori Di Pietro, Colombo e Davigo nelle famose diciotto pagine di avviso di garanzia consegnate all’ex leader del Psi. Non fu l’unica tangente pagata per Malpensa
2000. Come Pizzarotti stesso ebbe modo di testimoniare, aveva provveduto a “ringraziare il sistema” con un versamento di 1,3 miliardi di lire alla Dc, nella figura del cassiere Severino Citaristi, e definito in un secondo momento, con la segreteria comunista, le contribuzioni spettanti al Pci (versamento una tantum di 50 milioni di lire), così come stabilito dalla nuova ‘codificazione della spartizione delle contribuzioni’ (7).
La vicende si concluse con una richiesta di patteggiamento: pena di un anno e un mese, e un risarcimento di oltre 560 milioni di lire.
Le disavventure giudiziarie dell’impresa Pizzarotti non finiscono con gli anni del pool di Tangentopoli. Il suo nome, infatti, compare anche in una relazione della Commissione antimafia, come vittima di estorsioni che la vedevano nel mezzo tra controversie di notabili democristiani e boss mafiosi (Cutolo e Alfieri). Ipotesi confermata da un’indagine della Dia di Napoli, nel 2003. Faccenda alla quale viene fatta memoria dei ceffoni che un camorrista avrebbe tirato a un ingegnere dell’azienda. Altro dato indicativo è anche il legame di amicizia con l’ex ministro dei Lavori pubblici Pietro Lunardi (Forza Italia e Pdl), che proprio nel 2003 balza agli onori della cronaca per l’invito a convivere con la mafia.
Dal resoconto stenografico della seduta del Senato n. 846 del 31 maggio 2000 (8), si apprende anche che “nell’ottobre 1994 un imprenditore di Parma, Piero Conciari, si è tolto la vita negli uffici di un altro imprenditore, Paolo Pizzarotti, dopo aver trasmesso al sostituto procuratore della Repubblica di Parma, dottor Brancaccio, un memoriale contenente accuse nei confronti del medesimo imprenditore Pizzarotti, del ministro dei lavori pubblici Prandini e di altri”. Il memoriale era apparso anche in un dossier pubblicato da L’Espresso nel dicembre del ’94 (“Mani Pulite/Esclusivo: il caso Concari: «Prandini, io ti accuso»”), valso al quotidiano una denuncia (per danni materiali, morali, biologici), a seguito della quale il dossier è finito nelle mani del Consiglio superiore della magistratura, alla Procura generale di Roma e al ministero della Giustizia. Poi si è dissolto nel nulla.
Ma di cosa si trattava?
L’argomento era appunto il suicidio dell’imprenditore edile Piero Conciari, toltosi la vita nell’ingresso della Pizzarotti, quarantotto ore dopo aver consegnato al sostituto procuratore di Parma un memoriale riguardante proprio la Pizzarotti. A quanto pare, la documentazione raccolta dal concorrente parmense avrebbe svelato un intrigo affaristico e politico che era stato la causa del fallimento della ditta Conciari, vistasi esclusa da tutti gli appalti pubblici. La notizia uscì sul Corsera col titolo “Imprenditore suicida, giallo a Parma. Travolto dai debiti o da Tangentopoli?”. Sul piatto della bilancia due motivazioni: le dichiarazioni che avrebbe dovuto rilasciare al sostituto procuratore Brancaccio, riguardanti le mazzette parmigiane, e la crisi dell’azienda, alla quale una cordata di banche aveva rifiutato un grosso finanziamento (si parla di 4 o 10 miliardi di vecchie lire), forse proprio il medesimo giorno del suicidio.
La nota più triste di tutta la faccenda, tuttavia, è stata il secondo suicidio, quello del figlio Marco Conciari, avvenuto sette mesi dopo, apparentemente per gli stessi motivi del padre: il fallimento di tutte le imprese di famiglia.
Insomma, un po’ troppe traversie per un’azienda che pubblica sul proprio sito internet (9) questo codice etico: “L’impresa è consapevole che la buona reputazione derivante dalla sistematica applicazione di principi etici, favorisce gli investimenti da parte degli azionisti, attrae le migliori risorse umane, favorisce i rapporti con gli interlocutori commerciali, imprenditoriali e finanziari, consolida l’affidabilità nei confronti dei creditori e la serenità dei rapporti con i dipendenti e i fornitori; di contro i comportamenti non etici compromettono il rapporto di fiducia e possono favorire atteggiamenti ostili nei confronti dell’Impresa”.
Sarà in nome della propria buona reputazione che Michele Pizzarotti ha tenuto a rispondere personalmente a un articolo apparso sul sito del Sole24 ore il 18 marzo scorso, intitolato “Mineo aspetta i migranti: «Qui trovano solo la fame»”. Tra le altre cose, nell’articolo si sottolineava che, indipendentemente dalla difficile situazione degli immigrati, l’impresa aveva risolto il problema del contratto di locazione in scadenza, chiudendo un accordo con il Viminale e Palazzo Chigi la cui cifra è segretissima.
Il figlio del cavaliere Pizzarotti, risentito, ha tenuto a precisare che non c’è stata alcuna trattativa, perché il governo ha requisito il residence e l’azienda è ancora in attesa di un indennizzo da parte dello Stato.
A quanto ammonterà questo indennizzo?
A ciascuno la possibilità di fare i conti, con un occhio alla valutazione di mercato e l’altro ai fondi dell’Unione europea.
(1) Cfr. La ricca economia della carcerazione, Giovanna Cracco, Paginauno n. 14/2009
(2) La ricerca di Michel Foucault, H.L Dreyfus e P. Rabinow, La Casa Usher, 2010
(3)Un canone fissato entro un certo spread, variabile da zona a zona, e concordato tra le Associazioni dei proprietari e quelle degli inquilini
(4) Così come viene riferito dallo stesso Viminale sulla propria rassegna stampa http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=56899435
(5) http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazione/sottotema009.html
(6) http://stopthattrain.org/
(7) I riferimenti al coinvolgimento della Pizzarotti nell’indagine di Mani Pulite si possono trovare su Mani Pulite, M. Travaglio, P. Gomez, G. Barbacetto, Editori Riuniti, 2002
(8) www.parlamento.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=13&id=00006026&part=doc_dc-ressten_rs-gentit_ddddiqn:4-intervento_russorelatore&parse=no
(9) http://www.pizzarotti.it/web/cgi-bin/toolkit/bravosolution/host/pizzarotti/website/codice-etico.pdf