Recensione del film Arrival di Denis Villeneuve (2016)
“Un tempo pensavo che questo fosse l’inizio della tua storia. La memoria è una cosa strana. Non funziona come credevo. Siamo così limitati dal tempo… Dal suo ordine. Ricordo alcuni momenti in mezzo. E questa è stata la fine. Ma ora non so più se credo che esista un inizio o una fine”. Già da tale incipit pronunciato dalla voce fuori campo di Louise Banks (Amy Adams), mentre si susseguono alcune immagini che descrivono il suo rapporto con la figlia, dalla nascita alla morte per malattia di quest’ultima in giovane età, si capisce come Arrival di Denis Villeneuve, tratto dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang, sia un film di impianto filosofico, prima ancora che fantascientifico, dove a essere oggetto di analisi è il tempo – o meglio il linguaggio come forma del tempo necessaria alla relazione tra l’Io e l’Altro, con tutti i rischi di fraintendimento, ma anche le possibilità di comprensione e crescita reciproca che ne derivano.
Quando dodici astronavi aliene, presto battezzate gusci, fanno la loro comparsa in altrettante località del globo – dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia all’Australia, fino al Pakistan – il colonnello Weber (Forest Whitaker) si reca da Louise Banks, una delle più brave linguiste sulla piazza, per chiederle di tradurre l’idioma con cui si esprimo gli extraterrestri in risposta alle domande degli esseri umani – militari, scienziati e funzionari del governo – già entrati in contatto con loro. Due anni prima Louise aveva collaborato con i servizi segreti per alcune traduzioni dal fārsī, la lingua parlata in Iran, Tagikistan, Afghanistan e Uzbekistan, motivo per cui dispone di una licenza per i documenti top-secret. “Se l’è sbrigata bene con quel video degli insorti”, afferma il colonnello Weber. “E voi ve la siete sbrigata con gli insorti”, ribatte Louise. Scambio di battute non irrilevante dal punto di vista tematico, poiché introduce la dimensione conflittuale che può assumere il rapporto tra l’Io e l’Altro, dal momento che si percepisce quest’ultimo come una minaccia. E ovviamente gli alieni – dal latino alienus: altrui – non fanno eccezione. Saccheggi e una domanda sempre maggiore di armi e munizioni sono conseguenze del panico generatosi tra la popolazione in seguito alla comparsa delle astronavi. Si capisce, dunque, come la situazione sia estremamente delicata: se da una parte non sono ancora chiare le intenzioni dei visitatori, dall’altra gioca la certezza che basterebbe un piccolo fraintendimento tra loro e gli esseri umani per innescare un massacro.
Tuttavia, di fronte a Weber, Louise sostiene di non poter tradurre la lingua aliena sulla base di una semplice registrazione come quella che il colonnello le ha fatto sentire: ha bisogno di un contatto diretto. Senonché la richiesta viene subito respinta: “Io non la porto in Montana”, afferma Weber, “devo evitare che diventi una meta turistica per chi ha una licenza top-secret”. Dopodiché minaccia di affidare l’incarico a un altro linguista. Ma Louise non si lascia intimidire: “Ha nominato Berkeley. Ha intenzione di chiedere a Denvers adesso? Prima di assumerlo, però, gli chieda la parola sanscrita per guerra e la sua traduzione”. Scelta del termine non casuale, visto il rischio effettivo di una guerra tra esseri umani e alieni. Inoltre, viene evidenziata ancora una volta l’importanza del linguaggio e quanto la possibilità di fraintendersi o, al contrario, di capirsi si giochi lungo il filo di un rasoio. Secondo Denvers, infatti, il vocabolo sanscrito per guerra è litigio, mentre, in realtà, la parola sta per desiderio di avere più mucche. Fatto da cui risulta chiaro quanto siano decisive le condizioni ambientali di un determinato popolo in relazione allo sviluppo del suo linguaggio.
Secondo Nietzsche: “Le parole sono notazioni per indicare concetti; ma i concetti sono segni più o meno figurati per indicare sensazioni spesso ritornanti e ritornanti assieme, per gruppi di sensazioni. Non basta ancora, per comprendersi l’un l’altro, che si usino le stesse parole; occorre usare le stesse parole anche per lo stesso genere di esperienze interiori, occorre, infine, avere vicendevolmente in comune la propria esperienza. Perciò gli individui di un unico popolo si comprendono tra loro meglio di quelli appartenenti a popoli diversi, anche quando costoro si servono dello stesso linguaggio; o piuttosto, quando esseri umani hanno vissuto insieme a lungo in condizioni eguali (di clima, di terreno, di pericolo, di bisogni, di lavoro), nasce da tutto ciò qualcosa che «si comprende», un popolo. In tutte le anime un eguale numero di esperienze spesso ritornanti ha preso il sopravvento su altre esperienze verificantisi più di rado; sulla base di queste ci si comprende rapidamente e sempre più rapidamente – la storia del linguaggio è la storia di un processo di abbreviazione; sulla base di questa rapida comprensione ci si lega strettamente, sempre più strettamente. Quanto più grande è la condizione di pericolo, tanto più grande è il bisogno di accordarsi facilmente e rapidamente su quel che è necessario; non fraintendersi nel pericolo è ciò di cui gli uomini non possono assolutamente fare a meno per i loro rapporti. Si fa questa prova anche in ogni amicizia e relazione amorosa: nulla di tutto questo ha durata, appena si scopre che uno dei due, pur dicendo le stesse parole, sente, pensa, sospetta, desidera, teme in modo diverso” (1).
Inoltre, è evidente che un errore come quello di Denvers, per quanto piccolo, potrebbe avere conseguenze devastanti in rapporto alla situazione venutasi a creare con gli alieni.
Il tema della comunicazione viene espresso anche in occasione del primo incontro tra Louise e Ian (Jeremy Renner), un fisico teorico, sull’elicottero che li sta trasportando in Montana. Quando Ian cerca di parlarle, Louise all’inizio non lo sente, poiché la sua voce è sovrastata dal rumore delle pale in rotazione e lei non ha ancora acceso le cuffie attraverso cui i passeggeri possono dialogare tra loro. Il che ha un chiaro valore simbolico: per entrare in contatto con l’Altro è necessario saper ascoltare, ovvero aprirsi al mondo esterno. In altre parole: essere ripiegati interamente su se stessi costituisce una forma di sordità. Lo sa bene Byung-Chul Han, quando scrive: “L’Eros rende possibile l’esperienza dell’Altro nella sua alterità che strappa il soggetto dal suo inferno narcisistico. L’Eros mette in moto una volontaria autonegazione, un volontario autosvuotamento. […] Ma si tratta di un negativo dal quale deriva un effetto curativo, catartico” (2).
Non per niente, nel corso del film, tra Louise e Ian si instaura una relazione amorosa in cui si riverbera il rapporto tra l’Io e l’Altro, declinato nella sua forma più intima. Ma la scena del loro incontro sull’elicottero offre anche un ulteriore spunto di riflessione. Ian, infatti, cita l’incipit del libro di Louise: “La lingua è il fondamento della civiltà, è il collante che tiene insieme un popolo, è la prima arma che si sfodera in un conflitto”. Senonché subito dopo esprime il suo dissenso riguardo a questa idea: “Il fondamento della civiltà non è il linguaggio, è la scienza”. Viene evidenziato così il contrasto tra una forma mentis umanistica, quella di Louise, e una tecnico-scientifica, caratteristica di Ian. Tanto più che le prime domande che quest’ultimo vorrebbe rivolgere agli alieni riguardano il come sono arrivati – “Sono in grado di viaggiare più veloci della luce?” – e non il perché. Al che Louise gli suggerisce: “Facciamo che ci parliamo, prima di sbattergli in faccia dei problemi matematici?” Ecco ciò che contraddistingue più di ogni altra cosa Arrival rispetto a tanti altri film di fantascienza, tra cui Interstellar (2014), col quale il lavoro di Villeneuve presenta comunque molti punti di contatto in rapporto al tema del tempo. Anche nel colossal di Nolan, tuttavia, è la tecnica, in fin dei conti, a salvare l’Uomo dal disastro – nel caso specifico, un’estinzione di massa causata dalla graduale, ma inarrestabile, desertificazione del pianeta. In Arrival, al contrario, l’unica speranza è rappresentata dalla comunicazione con l’Altro e si colloca, dunque, sul piano umanistico.
Basti pensare alla scena in cui Louise spiega a Weber quanto sia complesso porre agli alieni – battezzati Eptapodi: dal greco epta, sette, e podos, piede – una domanda tanto semplice all’apparenza come quella riguardante il loro scopo sulla Terra: “Prima dobbiamo essere sicuri che capiscano cos’è una domanda, quindi la natura di una richiesta di informazioni insieme a una risposta. Poi dobbiamo chiarire la differenza fra vostro riferito a loro due [gli Eptapodi all’interno del guscio comparso in Montana, n.d.a] e vostro più in generale, perché noi non vogliamo sapere perché mister alieno è qui, vogliamo sapere perché sono atterrati tutti. E scopo richiede la comprensione di un’intenzione. Dobbiamo scoprire se fanno scelte consapevoli o se la loro motivazione è così istintiva che non capiscono affatto una domanda con un perché. E il punto più importante è che dobbiamo avere un vocabolario sufficiente per capirne le risposte”.
A ulteriore conferma di ciò, si pensi all’intuizione di Louise secondo cui gli alieni non si esprimono a parole, come gli esseri umani, ma attraverso una scrittura semasiografica – che veicola, quindi, un significato, non esprime un suono – dimostrando così che le registrazioni fattele ascoltare da Weber, prima di partire per il Montana, non volevano dire alcunché. Secondo l’analisi offerta dalla voce fuori campo di Ian a metà circa del film: “Forse per loro la nostra forma di scrittura è un’occasione sprecata, perché tralascia un secondo canale di comunicazione. […] A differenza del linguaggio, un logogramma è svincolato dal tempo. Come la loro astronave o i loro corpi, la loro lingua non ha una direzione in avanti e indietro. I linguisti la chiamano ortografia non lineare. Il che solleva il quesito: è così che pensano? Immaginate di voler scrivere una frase, usando due mani a partire da entrambi i lati. Dovreste già sapere ogni parola che vorreste usare, oltre a quanto spazio andrebbe a occupare. Un Eptapodo sa scrivere una frase complessa in due secondi, senza sforzo. Noi ci abbiamo messo un mese per una semplice risposta”.
Ancora una volta, risulta chiaro come nel rapportarsi all’Altro sia necessario abbandonare preconcetti sviluppatisi sull’esperienza del nostro Io e adottare una prospettiva diversa. Tesi sottolineata da innumerevoli aspetti che regolano i viaggi dentro al guscio. Innanzitutto, il gioco gravitazionale che permette agli esseri umani di raggiungere la camera dove avvengono i contatti con gli Eptapodi, in virtù del quale il mondo esterno appare sottosopra rispetto all’interno dell’astronave (basti pensare alla scelta registica di riprendere il primo ingresso di Louise in quell’ambiente attraverso un’inquadratura ribaltata al contrario). In secondo luogo, ciò che si potrebbe definire un’estetica della profondità: già gli Eptapodi sono simili fisicamente a grosse seppie, per di più il loro modo di scrivere fa pensare al rilascio di inchiostro per cui sono famosi questi animali. Inoltre, i suoni che emettono ricordano i versi dei cetacei e l’interno stesso del guscio evoca un ventre di balena. Peculiarità volte a sottolineare come, nel rapportarsi all’Altro, sia necessario uno sguardo attento, che vada oltre la superficie, capace di cogliere una realtà nuova.
All’esterno il guscio appare, invece, come una sorta di monolito simile a quello di 2001: Odissea nello spazio (1968). E, in effetti, molto in Arrival può essere letto attraverso la lente della nietzschiana volontà di potenza – di cui il monolito di Kubrick sarebbe, appunto, simbolo – a cominciare dal rapporto conflittuale con l’Altro in cui sembrerebbe confermarsi la verità di tale assunto. Ma non solo: la volontà di potenza è, per definizione, la volontà che vuole se stessa, una forza impersonale, intesa come perpetuo rinnovamento dei propri valori. Dunque, secondo Nietzsche, l’Uomo deve continuamente aggiornare il suo punto di vista e mai fissarsi su una presunta verità definitiva, proprio come Louise e gli altri devono sforzarsi di adottare nuove prospettive, se vogliono comprendere gli Eptapodi e cosa sono venuti a fare sulla Terra. Infine, un ulteriore livello interpretativo riferito all’aspetto del guscio riguarda il rapporto tra Louise e la figlia, poiché le astronavi aliene sono in tutto e per tutto simili a grosse uova – o, se si preferisce, il loro aspetto rimanda a quello di un ventre materno.
Tuttavia, è necessario fare una precisazione: ai tempi in cui è ambientata la storia, la figlia di Louise non è ancora morta. Anzi, non è nemmeno nata. È questo uno degli aspetti più interessanti e originali – sul piano formale, oltre che contenutistico – del lavoro di Villeneuve. Sì, perché chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il cinema e la narrativa è abituato a ciò che, in termini tecnici, viene definito il fantasma – in parole povere, un evento traumatico nella vita del personaggio che influenza anche il suo presente. Ma Villeneuve si spinge oltre: quello che per tutto il tempo lo spettatore aveva creduto essere il passato di Louise è, in realtà, il suo futuro. Lei impara a conoscerlo, mano a mano che si immerge sempre più a fondo nella lingua degli Eptapodi. Ma per arrivare a tale consapevolezza ha dovuto prima sfondare diverse ‘barriere’ – rappresentazione di quelle che separano l’Io dall’Altro.
Basti pensare al cocktail di medicinali che un dottore le inietta appena arrivata in Montana per difendersi da un possibile contagio da parte degli alieni. Oppure alle tute antiradiazione che gli esseri umani sono tenuti a indossare ogni volta che entrano nel guscio. Non per niente, quando Louise cerca di insegnare agli Eptapodi il suo nome, se la toglie per mostrarsi a loro nella sua individualità: “Devono vedermi”. Infine, l’ultima barriera a essere infranta è quella estremamente concreta del pannello di vetro, posto tra gli esseri umani e gli Eptapodi, all’interno della camera in cui avvengono i loro contatti. In uno dei momenti culminanti del film, infatti, Louise viene fatta salire da sola all’interno del guscio per mezzo di una sorta di scialuppa, simile a una capsula, sganciata proprio dagli alieni – o meglio da uno di loro, poiché l’altro è stato ferito mortalmente dall’esplosione di una bomba, evento di cui si parlerà meglio in seguito. Qui il rapporto è a tu per tu, senza nulla in mezzo a dividere Louise dall’Eptapodo. E non è un caso che sia proprio in questa occasione che Louise comprende il perché della loro visita.
Gli Eptapodi sono venuti a insegnare agli esseri umani la loro lingua, imparando la quale è possibile percepire il tempo in maniera circolare – e non lineare, il che rimanda ancora una volta a Nietzsche e al suo concetto di eterno ritorno – dimodoché diventa possibile vedere nel futuro. Infatti, secondo l’ipotesi di Sapir-Whorf, citata nel film, la lingua influenza lo sviluppo cognitivo e il pensiero di ciascuno, tanto che, immergendosi totalmente in un idioma straniero, sarebbe possibile riprogrammare il cervello. È dunque una scelta consapevole, sul piano della sceneggiatura, il fatto che la scrittura degli Eptapodi sia composta da cerchi differenziati l’uno dall’altro dal numero di ‘riccioli’ che contengono e dalla loro disposizione; o che il nome scelto da Louise per la figlia, Hannah, sia palindromo – che si può leggere, cioè, in entrambe le direzioni.
Tuttavia, la situazione a questo punto si è fatta estremamente tesa. La bomba a cui si è accennato prima era stata piazzata da alcuni soldati, ammutinatisi sulla spinta della loro paura per gli alieni. Il che rimanda a un concetto più volte ribadito nel film, ovvero che l’ignoranza gioca un ruolo determinante nella percezione dell’Altro come minaccia. Ma qui l’aspetto più profondo e originale, che dimostra quanto l’arrivo degli Eptapodi sia da leggere in chiave metaforica, è che i problemi di comunicazione non riguardano solo il rapporto tra esseri umani e alieni, ma anche quello tra esseri umani stessi. Basti pensare alla scena in cui i dodici Paesi che ospitano i gusci decidono di interrompere vicendevolmente i contatti sulla base di svariati fraintendimenti, non ultimo dei quali l’errata interpretazione di una frase degli alieni relativa al loro scopo sulla Terra: portare arma, dove, in realtà, con arma bisognava intendere strumento, tecnologia – richiamo all’approssimativa traduzione di Denvers del termine guerra dal sanscrito. In questo senso, Villeneuve si dimostra estremamente attento al presente e, in particolare, alla sua dimensione geopolitica, anche se, essendo un film prodotto a Hollywood, Arrival non è esente da una certa parzialità.
Pur essendo vero, infatti, che personaggi come l’agente David Halpern (Michael Stuhlbarg) della Cia o i soldati che hanno piazzato la bomba all’interno del guscio in Montana, ferendo a morte uno degli Eptapodi, sono dipinti in maniera negativa, la logica qui è quella della mela marcia, mentre il sistema statunitense di per sé viene salvato, al netto di una certa ottusità da parte dell’apparato militare. Diverso discorso vale per la Cina, estremamente chiusa riguardo agli Eptapodi e la prima a minacciare di muovere guerra verso di loro. Solo l’intervento tempestivo di Louise, la quale, riuscendo ora a vedere nel futuro, apprende il numero personale del generale Shang (Tzi Ma), mostratole da lui stesso in occasione di un ricevimento che deve ancora avvenire, e a contattarlo telefonicamente, permette all’umanità di salvarsi. Una simile parzialità sul piano politico, tuttavia, non toglie valore al lavoro di Villeneuve su quello filosofico e artistico. Oltre alla ricchezza della sceneggiatura, una menzione speciale merita infatti la fotografia, in grado di suscitare nello spettatore una sensazione di straniamento simile a quella evocata dai quadri di De Chirico.
Infine, al di là dei temi già affrontati, si pone come necessaria una riflessione sul concetto di libero arbitrio. Se è possibile vedere nel futuro, infatti, significa che tutto è già determinato in partenza? A un primo sguardo, sembrerebbe di sì: gli Eptapodi sono venuti a insegnare la loro lingua agli esseri umani in quanto sanno che, tra tremila anni, avranno di sicuro bisogno del loro aiuto. Eppure Villeneuve parla anche di scelte. Per esempio quando – sempre nell’ambito di un flashforward – Louise spiega alla figlia perché lei e Ian hanno divorziato: “È colpa mia. Gli ho raccontato una cosa che lui non era pronto a sentire. Che tu ci creda o no, io so una cosa che succederà nel futuro. […] E, quando l’ho detta al tuo papà, si è arrabbiato molto. Ha detto che ho fatto la scelta sbagliata”. Sì, perché, come abbiamo visto all’inizio, Hannah è condannata a morire ancora giovanissima di una malattia terminale. Ma, come afferma la voce fuoricampo di Louise in accompagnamento alle scene finali del film: “Nonostante io conosca il viaggio e dove porterà, lo accetto”.
Una scelta egoistica – perché mettere al mondo qualcuno destinato a una fine così orribile? – o di generosità – forse perché quella vita vale comunque la pena di essere vissuta, soprattutto se la si rapporta a una concezione circolare del tempo, dove ogni istante si fa eterno – a seconda dei punti di vista, ma comunque una scelta. E molto ci sarebbe da dire, a tal proposito, sulla teoria degli universi paralleli – collegata a quella delle stringhe e dell’inflazione caotica – tra i cui sostenitori si trovano nomi del calibro di Stephen Hawking e Steven Weinberg (Premio Nobel per la Fisica nel 1979): possibile esista una versione di Louise che abbia scelto di non partorire Hannah, proprio perché consapevole della sofferenza che ciò avrebbe apportato alla sua famiglia? Ma qui ci addentriamo in un campo che Arrival non esplora nel dettaglio, limitandosi a suscitare nello spettatore la suggestione di qualcosa di estremamente grande e complesso di cui tutti facciamo parte. Complessità condivisa dal film in quanto fonte inesauribile di spunti di riflessione. Sicché il lavoro di Villeneuve si colloca a pieno titolo nell’ambito del grande cinema.
1) Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi
2) Byung-Chul Han, Eros in agonia, Nottetempo