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La narrativa industriale britannica del primo Novecento, radice culturale di Ken Loach e William McIlvanney
Nel 1954, Kingsley Amis (1922-1995) pubblica Lucky Jim, la storia di Jim Dixon, giovane docente di storia medievale in un’università di recente fondazione, che si sente estraneo alla mentalità dei suoi colleghi più anziani, goffi imitatori dello ‘spirito di Bloomsbury’ senza essere membri dell’alta borghesia come i componenti del celebre gruppo. Jim viene da una famiglia modesta e fatica a integrarsi nell’ambiente accademico a cui sente di non appartenere. Nel cercare la protezione di colleghi anziani ma mediocri non riesce a nascondere la sua mancanza di stima nei loro confronti. Grazie alla relazione con Christine, il cui potente zio scozzese ha importanti conoscenze a Londra, Jim riesce faticosamente a conquistare l’amore della ragazza e la stima dell’influente zio che apprezzano la sua ruvida onestà – soprattutto dopo la sua conferenza, “Merrie England”, in cui prende in giro tutti i suoi presuntuosi e arroganti colleghi. (John Boulting, 1913-1985, gira la versione cinematografica nel 1958.)
Keith Waterhouse, nativo di Leeds (1929- 2009), autore di programmi televisivi di successo, deve la sua fama internazionale al romanzo Billy Liar (1959), la storia di un ragazzo di origini operaie dalla fantasia sfrenata e con l’ambizione di diventare scrittore di successo che non si accontenta del modesto lavoro in una ditta di pompe funebri. Quando finalmente Liz, la sua ragazza, lo convince a partire con lei per vivere e realizzare i loro sogni insieme, Billy si tira indietro all’ultimo momento fingendo di perdere il treno su cui lei è salita. (John Schlesinger, 1926-2003, dirige l’adattamento cinematografico del romanzo nel 1963 con una solare Julie Christie nella parte di Liz e un lunare Tom Courtenay nella parte di Billy.)
Margaret Forster (1938), nativa di Carlisle, pubblica nel 1965 Georgy Girl. È la storia di una giovane donna di ventidue anni, figlia del maggiordomo di un facoltoso uomo d’affari che ha per lei un atteggiamento paterno fino a quando non si rende conto che Georgy è diventata una donna attraente e le offre di diventare la sua amante. Georgy è ancora vergine, non ci sa fare con gli uomini e ammira l’amica Meredith che, dopo aver partorito una bimba, lascia il suo compagno e affida la figlioletta a Georgy per evitare che sia data in adozione a sconosciuti. Nel frattempo muore la moglie del facoltoso uomo d’affari e Georgy accetta di sposarlo per assicurare alla bimba e a se stessa un futuro agiato. È, in sostanza, il racconto-denuncia esemplare dell’unico modo che a una giovane donna di modeste origini sociali era consentito di conquistare un’esistenza sicura: sposare un uomo ricco. (Il canadese di origini italo-americane Silvio Narizzano, 1937-2011, dirige la versione cinematografica nel 1966 con Lynn Redgrave e James Mason.)
Il gallese Raymond Williams (1921-1988), figlio unico di un capostazione e una casalinga, ebbe una brillante carriera universitaria a Cambridge e diede l’avvio, insieme a Richard Hoggart (1918-2014), al pionieristico indirizzo di studi accademici interdisciplinari denominati Cultural Studies. La sua produzione di romanziere, pur essendo di altissimo livello, è stata messa in ombra dal suo stesso prestigio di intellettuale.
La sua trilogia, Border Country (1960), Second Generation (1964) e The Fight for Manod (1979), basata sui personaggi di Matthew Price e Peter Owen, è la colonna portante della sua narrativa. In Border Country Matthew, docente di economia a Londra, viene richiamato d’urgenza al paese natio dalla madre a causa dell’infarto che ha colpito il padre, Harry. Matthew ripercorre, seguendo i racconti di amici e conoscenti, le tappe più importanti della vita del padre e riesamina anche la storia delle proprie radici da cui si era allontanato per andare a lavorare a Londra. Matthew riparte qualche giorno dopo pur sapendo che il padre si sta ormai spegnendo ma con la certezza di avere compreso le cause più intime del suo senso di spaesamento.
In Second Generation Williams racconta dei fratelli Gwyn e Harold Owen e di come le criticità economiche degli anni ’50-60, nell’Oxfordshire dei contrasti stridenti tra il mondo privilegiato e prestigioso dell’università e i problemi della fabbrica automobilistica Morris Motors, condizionano l’esistenza delle loro rispettive famiglie. Peter, figlio di Harold, per il suo dottorato di ricerca studia i fenomeni economici dell’epoca sotto la supervisione di un professore che osserva freddamente gli eventi sociali con il distacco dello studioso.
Nel terzo romanzo, The Fight for Manod, le vite e le esperienze professionali di Matthew Price e Peter Owen s’incrociano quando vengono entrambi nominati da una commissione parlamentare per indagare su investimenti occulti di una multinazionale olandese che sta comprando intere aree rurali del Galles. Matthew e Peter sono entrambi gallesi ma hanno una diversa percezione delle loro radici e spesso si trovano velatamente in disaccordo. Prevarrà il loro amore della verità e della giustizia per smascherare gli accordi tra la multinazionale olandese e le lobby inglesi che agiscono dietro le quinte.
Questa avvincente trilogia è un grande affresco della società britannica tra gli anni Trenta e i tardi anni Settanta, delle rivendicazioni dei lavoratori delle ferrovie e delle miniere in Galles e degli operai delle grandi fabbriche in Inghilterra. Prevale, tuttavia, una sensazione di inconciliabilità tra il mondo rurale gallese e quello industriale inglese che Williams ebbe modo di conoscere bene nei loro aspetti più profondi e per i quali aveva sempre avvertito un lacerante e contraddittorio senso di straniamento e appartenenza allo stesso tempo. Le sue riflessioni, più che concentrarsi sulle esperienze dei protagonisti, passano in rassegna le problematiche collegate all’immobilità del Galles rurale, incapace di mettersi al passo con l’etica capitalistica inglese.
Stan Barstow, nativo dello Yorshire (1928-2011), figlio unico di un minatore e una casalinga, pubblica nel 1960 A Kind of Loving, il suo romanzo più noto (adattato per il cinema da Schlesinger nel 1961 con l’interpretazione di Alan Bates). È la storia, ambientata nel Lancashire, di due giovani, il giovane diplomato Victor e la segretaria Ingrid, appartenenti alla cosiddetta aristocrazia operaia, che tentano faticosamente di stabilire una relazione. Il loro benessere economico rispetto ai lavoratori delle fabbriche e dei cantieri navali, non li aiuta a costruirsi una vita serena. La ragazza rimane incinta prima del matrimonio ed entrambi devono trovare un compromesso tra i rispettivi sogni e ciò che la realtà offre loro. La decisione di andare a vivere con la madre di Ingrid, a causa della carenza di alloggi, contribuisce a compromettere definitivamente il loro rapporto. Nei romanzi successivi, Watchers on the Shore (1966) e The Right True (1976) che compongono con A Kind of Loving la trilogia, Victor, dopo il divorzio lascia la sua città nel nord dell’Inghilterra e va a vivere a Londra nell’illusione di una vita più agiata e professionalmente gratificante.
Una voce interessante, negli anni ’60-70, è Nell Dunn (1936), l’autrice di Poor Cow (1967), un grande successo letterario. Ken Loach gira, lo stesso anno, l’adattamento cinematografico. Sia il romanzo sia il film diventarono subito una testimonianza generazionale, una sorta di manifesto, un monito sulla condizione della donna in un’Inghilterra i cui modelli sociali venivano frettolosamente ed euforicamente considerati un esempio di grande civiltà. La protagonista, Joy, è la poor cow del titolo, vittima della lenta e inesorabile degradazione della sua vita incolore e priva di prospettive. Ha solo ventidue anni ma vive prigioniera di un matrimonio infelice e il suo futuro è condizionato dal figlioletto Jonny e dalla totale assenza del marito, uomo violento che vive di furti. La sua unica alternativa è di prostituirsi o accettare relazioni con uomini inaffidabili. Terrorizzata dal decadimento del suo corpo, scarica le sue ansie sul bambino a cui spera di offrire una vita migliore.
Figlia dell’alta borghesia, Nell Dunn si allontana dalla famiglia per trasferirsi nel 1959 a Battersea, un quartiere (allora) degradato di Londra che le ispirerà la raccolta di racconti Up the Junction (1963), ricca di ritratti di giovani personaggi di estrazione operaia e caratterizzata dalla sua abilità nel cogliere le loro parlate dialettali, i loro proverbi, il loro patrimonio culturale e musicale.
Poiché abbiamo citato Nell Dunn, apriamo una parentesi per sottolineare che in quegli anni si afferma un nutrito numero di scrittrici che – sebbene non parlino esplicitamente delle classi meno abbienti, come fanno più ampiamente i loro colleghi, ed esplorino prevalentemente le problematiche del rapporto uomo-donna – conquistano un loro spazio per esprimere la sensibilità e la percezione femminile riguardo alla società inglese. Citiamone solo alcune: Emma Tennant (1937), Fay Weldon (1931), Beryl Bainbridge (1934), Susan Hill (1942), Rose Tremain (1943), Angela Carter (1940-1992), Antonia Byatt (1936). A dimostrazione del peso della scrittura femminile in Gran Bretagna, non è un caso se sarà proprio una scrittrice di Sheffield, Margaret Drabble (1939), a lanciare un indignato allarme negli anni ultimi anni del Novecento sulla pericolosa illusione che la Gran Bretagna, insieme agli Stati Uniti, potesse essere percepita come un’area felice, una sorta di rifugio dal caos politico e morale mondiale.
Nel 2003, all’inizio della guerra in Iraq, Margaret Drabble ha duramente criticato gli Stati Uniti, colpevoli di essere dominati da una incontrollabile febbre di potenza e di essere a torto considerati il Paese guida del pianeta. L’accusa agli Stati Uniti si è estesa anche ai suoi connazionali, colpevoli di essere succubi del modello americano e di non avere saputo evitare i gravi errori sociali ed economici commessi dagli ultimi governi, sia conservatori sia laburisti, e ha ammonito di non lasciarsi ingannare dalle apparenze di un benessere male distribuito. La Drabble, inoltre, denunciando la fine dello spirito liberal britannico, spazzato via non solo dal fondamentalismo del libero mercato ma anche da una irrisolvibile confusione culturale, intellettuale e morale, si è ritagliata il ruolo di autorevole testimone della decadenza della borghesia illuminata britannica.
Se fino agli anni ’70 si era mantenuta viva una letteratura attenta al mondo del lavoro, negli anni successivi la percezione della società da parte degli scrittori è cambiata. Ian McEwan (1948) e Martin Amis (1949), per citare due degli autori più rappresentativi degli ultimi trent’anni, sono attoniti cronisti del nichilismo del loro tempo di cui fanno fatica a cogliere e rappresentare le dinamiche disturbate dei conflitti di classe e delle aggressioni del capitale a danno dei diritti acquisiti dai lavoratori. Gli anni ’80 e ’90 sono anni di disorientamento, il senso della nazione britannica si indebolisce e si fanno sentire le voci di nuove categorie sociali ignorate e discriminate, ossia persone originarie di Paesi dell’ex impero che hanno ricevuto la cittadinanza britannica.
Forse è proprio la difficoltà a interpretare i sofferti cambiamenti sociali degli anni ’80 e ’90 a spingere gli scrittori a praticare il genere storico e accantonare il romanzo industriale. Ed ecco, allora, sulla scia tracciata da Kazuo Ishiguro (1954) con The Remains of the Day (1989), comparire autori come Alan Massie (1938) con A Question of Loyalty (1989) e The Sins of the Fathers (1991), Pat Barker (1943) con la trilogia Regeneration (1991), The Eye in the Door (1993), The Ghost Road (1995), Sebastian Faulks (1953) con la trilogia The Girl At the Lion d’Or (1989), Birdsong (1993) e Charlotte Gray (1998), Louis De Bernières (1954) con Captain Corelli’s Mandolin (1995).
In sostanza, come ebbe occasione Malcolm Bradbury (1932-2000) di sintetizzare in maniera molto efficace, insieme alla percezione della società cambia anche il lessico. È infatti il lessico l’indicatore più attendibile delle tensioni e delle aspirazioni del tempo prima ancora dei temi trattati (o ignorati): gli anni Cinquanta erano stati caratterizzati da un lessico ‘morale’; gli anni Sessanta da un lessico ‘radicale e sociologico’. Queste due decadi, grazie al loro lessico, hanno permesso agli scrittori di parlare con passione del mondo del lavoro. Al contrario, invece, gli anni Settanta con il lessico di ‘autocoscienza’ e gli anni Ottanta con il lessico dell’economia e del mito del benessere come prova della propria esistenza, hanno favorito una letteratura che pur parlando di questioni sociali le ha paradossalmente evitate.
Si può pertanto sostenere che la testimonianza di molti scrittori britannici riguardo al disorientamento di cui hanno sofferto i cittadini a causa dell’era thatcheriana ha acutamente evidenziato come il problema non sia più quello di una società divisa in classi a cui ci si può ribellare con l’obiettivo di riportare una più equa distribuzione della ricchezza. Anzi, il vero problema è che, nella rappresentazione postmoderna della società tardo-novecentesca e di inizio del terzo millennio, si avverte in maniere sempre più dolorosa una sensazione di profonda sfiducia provocata da un progressivo deterioramento delle tradizionali caratteristiche delle classi sociali e da un rimescolamento dei ruoli – una confusione in cui chiunque può diventare qualcun altro contro la propria volontà e perdere irrimediabilmente sia l’identità individuale sia i valori fondanti del proprio gruppo di appartenenza.
Tuttavia, in contrasto con questa diffusa percezione contrassegnata da una sorta di fatalistica accettazione del declino sociale, economico e morale del Paese, sono di conforto due romanzi come Waterland di Graham Swift (1949), pubblicato nel 1983 (un insegnante di storia ripercorre gli anni della sua infanzia nel Norfolk per ritrovare un suo nuovo equilibrio personale in relazione a eventi tragici del passato che avevano ferito un’intera comunità rurale), e Nice Work di David Lodge (1935), pubblicato nel 1989, che si ricollega idealmente al romanzo industriale di Elizabeth Gaskell e racconta le ‘due nazioni della Gran Bretagna’, ossia il sud ricco e terziario e il nord povero e industriale.
È alla luce di questa panoramica non certo incoraggiante che si può apprezzare maggiormente l’impegno di McIlvanney e Loach di concentrarsi su un’analisi sociale che forse non attira l’interesse di un vastissimo pubblico ma è il prezioso documento di un mondo di lavoratori che ancora esiste (e resiste) sebbene oggi sia colpevolmente ignorato. È in questo clima che McIlvanney ricorre allo sguardo critico e malinconico dei suoi personaggi più rappresentativi – il disoccupato Dan Scoular, lo scrittore Tom Docherty e, soprattutto, l’ispettore di polizia Jack Laidlaw che tenta disperatamente di difendere valori etici fondamentali nonostante l’indifferenza delle istituzioni e nonostante lui stesso faccia fatica a credervi ancora – per raccontare una società in cui si sono acuite differenze e ingiustizie sociali ed economiche.
Ken Loach, da parte sua, ha osservato le nuove forme di solidarietà che nascono per resistere non solo ai danni provocati da Margaret Thatcher ma anche ai colpi inferti sia dal New Labour di Tony Blair sia dal ritorno dei Conservatori e dal crescente consenso tributato allo xenofobo Nigel Farage.
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