di Erika Gramaglia |
La legge sul sistema televisivo: un sostanziale monopolio travestito da pluralismo
Il monopolio è quella situazione di mercato in cui l’intera quantità prodotta di una merce o di un servizio è controllata da un unico venditore. Quando il monopolio si intreccia con i canali dell’informazione, siamo all’alba di un regime autoritario.
La libertà d’informazione è uno dei capisaldi della democrazia, poiché garantisce il pluralismo ideologico. La libera circolazione delle idee è alla base di un corretto funzionamento delle istituzioni, poiché una società informata e vigile attua un controllo sulle istituzioni in grado di assicurare continuità tra le istanze della politica e le necessità della società civile. Freedom House – organizzazione non governativa fondata nel 1941 da Eleanor Roosvelt, la cui missione consiste nel promuovere la diffusione dei principi democratici e della libertà di pensiero – pubblica ogni anno uno studio sulla diffusione della libertà di informazione nel mondo. Per il 2006, la Finlandia risulta al primo posto in virtù della forte indipendenza dei suoi media. L’Italia occupa, assieme al Botswana, il 79° posto, rientrando nella categoria dei paesi parzialmente liberi. Nella classifica relativa ai soli paesi dell’Europa occidentale, risulta penultima, superata in negativo solo dalla Turchia.
L’art. 21 della Costituzione riconosce a tutti i cittadini la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, la scrittura e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere assoggettata ad autorizzazioni o censure. Se la ratio della norma era quella di abbattere le censure poliziesche che il regime fascista aveva imposto ai giornali – quali i controlli amministrativi e il sequestro preventivo delle pubblicazioni – in modo da rendere la stampa lo strumento di controllo della collettività sull’operato dello Stato, la sola menzione della carta stampata ne è chiaramente un limite. Esso però è emerso successivamente, con l’evolvere della tecnologia e la diffusione di altri mezzi di comunicazione, quali la radio, la televisione e, più recentemente, internet. Nella società moderna la carta stampata ha ormai ceduto il passo alla televisione, che può essere considerata, al momento, il più importante veicolo informativo e formativo della società. Il primo intervento normativo ravvisabile nell’ordinamento italiano in materia di telecomunicazioni è il Regio decreto 1067 del 1923, con il quale si affidava allo Stato l’esclusiva sulle trasmissioni radiofoniche, da esercitare tramite società concessionarie. Nasce quindi da un provvedimento normativo, con la fusione della società Radiofono di Guglielmo Marconi con la Sirac – creata dal primo ministro delle Comunicazioni d’Italia Costanzo Ciano – l’Unione Radiofonica Italiana (URI). È il 1924. Nel 1928 l’Uri viene trasformata in Eiar – Ente italiano audizioni radiofoniche.
Il 26 ottobre 1944 L’Eiar assume la nuova denominazione Rai, Radio audizioni italiane, passando alle dipendenze del ministero delle Poste. Il 10 aprile 1954, in seguito alla partenza del servizio televisivo regolare avvenuta il 3 gennaio 1954, assume la denominazione che oggi conosciamo: Radiotelevisione italiana. Il segnale arrivò a coprire tutto il territorio nazionale solo due anni dopo. Gli abbonati erano relativamente pochi, solo 360.000, a causa del costo elevato degli apparecchi. Negli anni Sessanta la crescita economica e l’aumento dei consumi favorirono la diffusione della televisione, che divenne accessibile anche alle classi meno agiate. Le trasmissioni del secondo canale Rai iniziarono nel 1961, mentre il terzo canale vide la luce alla fine del 1979, in posizione di sostanziale monopolio, almeno giuridico. Monopolio che iniziò a vacillare all’inizio degli anni Settanta, con la nascita delle prime emittenti private a diffusione locale che, alla luce della concessione esclusiva delle frequenze alla televisione di Stato, operavano in regime di illegalità.
Chiamata a risolvere la questione, la Corte costituzionale si esprimeva, con sentenza 225 del 1974, a favore del monopolio di Stato, in quanto considerato l’unica gestione in grado di garantire il pluralismo. La esiguità delle frequenze rendeva impossibile la coesistenza di un alto numero di soggetti, il che prefigurava l’affermazione di un oligopolio, che avrebbe potuto avere effetti ben peggiori del monopolio di Stato. Secondo la Corte, “la radiotelevisione adempie a fondamentali compiti di informazione, concorre alla formazione culturale del paese, diffonde programmi che in vario modo incidono sulla pubblica opinione e perciò è necessario che essa non divenga strumento di parte: solo l’avocazione allo Stato può e deve impedirlo”.
Osserva poi che “non essendo controvertibile che il numero delle bande di trasmissione sia limitato, la liberalizzazione inevitabilmente si tradurrebbe in una effettiva riserva di pochi, comportando con ciò grave violazione di quel principio di eguaglianza che è cardine del nostro ordinamento e la cui scrupolosa osservanza si impone specialmente là dove venga in giuoco l’esercizio di un fondamentale diritto di libertà. La verità è che proprio il pubblico monopolio – e non già la gestione privata di pochi privilegiati – può e deve assicurare, sia pure nei limiti imposti dai particolari mezzi tecnici, che questi siano utilizzati in modo da consentire il massimo di accesso, se non ai singoli cittadini, almeno a tutte quelle più rilevanti formazioni nelle quali il pluralismo sociale si esprime e si manifesta. Che, anzi, è proprio questa un’ulteriore via attraverso la quale si devono raggiungere quei ’fini di utilità generale’ in funzione dei quali l’art. 43 Cost. rende legittima la riserva: il monopolio pubblico, in definitiva, deve essere inteso e configurato come necessario strumento di allargamento dell’area di effettiva manifestazione della pluralità delle voci presenti nella nostra società”.
La legge 14 aprile 1975 n. 103 recepisce tale orientamento. L’art. 1 stabilisce che la diffusione circolare di programmi radiofonici via etere o, su scala nazionale, via filo, e di programmi televisivi via etere o, su scala nazionale, via cavo e con qualsiasi altro mezzo, costituisce, ai sensi dell’art. 43 della Costituzione, un servizio pubblico essenziale e a carattere di preminente interesse generale, in quanto volto ad ampliare la partecipazione dei cittadini e a concorrere allo sviluppo sociale e culturale del paese in conformità ai principi sanciti dalla Costituzione. Il servizio è pertanto riservato allo Stato. Viene istituita la commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, composta da quaranta membri designati pariteticamente dai presidenti delle due camere del parlamento tra i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. Ben lungi dall’assicurare la pluralità nella gestione del servizio televisivo, la norma in questione alimentò la lottizzazione delle poltrone. Le forze politiche presenti in Parlamento, anziché garantire il libero accesso ai canali televisivi, li usarono come cassa di risonanza dei propri partiti, spartendosi in modo sostanzialmente equo le nomine dei dirigenti dei tre canali di Stato.
Nel frattempo l’iniziativa privata si muove. Dall’inizio degli anni Settanta, seppur nell’illegalità, essa si dà da fare con l’occupazione, spesso arbitraria, delle frequenze. Cresce anche il numero delle emittenti che trasmettono via cavo, sistema che la Corte costituzionale, con sentenza 226/1974, aveva escluso dal monopolio statale. Secondo la Corte, “giacché i canali realizzabili mediante cavo sono illimitati e di costo non rilevante, l’estensione del monopolio statale alla televisione via cavo, non potendo giustificarsi in base all’esistenza di un monopolio di fatto dovuto a ragioni tecniche, come per la televisione via etere, contrasta con gli artt. 41 e 43 Cost.”. In alcuni casi le emittenti via etere a carattere locale si associano e cominciano a trasmettere gli stessi programmi, registrati in precedenza, in leggera differita. Il volto del mezzo televisivo inizia a cambiare: dagli intenti quasi pedagogici della prima televisione, il cui obiettivo era stato quello di educare la popolazione, spesso analfabeta, e contribuire alla creazione del sentimento nazionale, si passa a un’ottica commerciale, volta alla colonizzazione e allo sfruttamento di un nuovo mercato. La pubblicità è l’arma per fare profitti, ma i costi iniziali sono molto alti e sono necessari ingenti capitali. Nel 1980 Telemilano e le sue consociate si trasformano nel network nazionale di Canale 5. Il proprietario è Silvio Berlusconi, quarantaquattro anni, imprenditore edilizio di grandi speranze convertitosi all’editoria.
Il motivo ce lo spiega lui stesso in una intervista a Capital, che gli dedica la copertina del numero di aprile del 1981.
Secondo il giovane e rampante Cavaliere “l’edilizia ha troppi vincoli e impone una eccessiva lentezza”. All’epoca il suo gruppo finanziario, la Fininvest, ha partecipazioni in 44 società edilizie (con oltre 1.000 miliardi di lavori in corso), ma anche nell’editoria, nella televisione e nell’elettronica. Dalla costruzione di Milano 2 il Cavaliere aveva tratto cospicui guadagni, ma i progetti edilizi successivi, non avendo trovato sostegno nelle autorità locali, languivano da quasi dieci anni in attesa di approvazione. “Una perfetta macchina per punire”, così nell’intervista Berlusconi definisce la legislazione edilizia, che interrompendo il circolo virtuoso del reinvestimento del capitale, gli negava la possibilità di seminare la pianura padana con i suoi paesini modulari a misura della nuova piccola borghesia. Questa contingenza, si legge ancora, “lo ha costretto a impegnarsi in altri settori imprenditoriali a più rapido tasso di realizzazione: nell’editoria, acquistando il 37,5% dell’editrice di Il Giornale Nuovo e diventandone il socio di maggioranza relativa, e nel campo delle tv private, il suo Canale 5, con 300 ripetitori in Italia, si avvia a un fatturato pubblicitario annuo di 60 miliardi di lire”.
La televisione commerciale è ormai una realtà, e per quanto la normativa successiva, la legge 4 febbraio 1985 n. 10, ribadisca che la diffusione sonora e televisiva sull’intero territorio nazionale via etere o via cavo o per mezzo di satelliti o con qualsiasi altro mezzo, ha carattere di preminente interesse generale ed è riservata allo Stato, d’altra parte riconosce l’esistenza delle emittenti private. Ne riconosce la legittimità nell’ambito di un piano nazionale di assegnazione delle frequenze, e permette la trasmissione degli stessi programmi pre-registrati, da diverse emittenti, purché in tempi diversi. La legge in esame viene però resa incostituzionale dalla sentenza della Corte costituzionale n. 826/1988. Anche se il superamento del monopolio statale è ormai un dato di fatto. Tuttavia tale superamento viene subordinato all’approvazione di un corpus organico di norme inteso a stabilire forti garanzie in grado di salvaguardare il massimo pluralismo nell’informazione, evitando nel contempo derive oligopolistiche del mercato.
Le indicazioni della Corte costituzionale si sostanziano malamente nella legge 6 agosto 1990, n. 223 – cosiddetta legge Mammì. La normativa riconosce il diritto dei privati ad accedere alle frequenze su scala nazionale, previa concessione statale; viene istituito il garante per la radiodiffusione e l’editoria (art. 6), nominato con decreto del presidente della Repubblica su proposta dei presidenti delle Camere, e il registro nazionale delle imprese radiotelevisive (art 12); vengono per la prima volta fissati limiti sulla pubblicità, che non può superare il 4% dell’orario settimanale di programmazione e il 12% di ogni ora per la concessionaria pubblica (che ha una fonte di finanziamento nel canone), mentre per i concessionari privati il limite è fissato al 15% dell’orario giornaliero di programmazione e il 18% di ogni ora. La legge Mammì stabilisce per la prima volta dei limiti antitrust, stabilendo all’art. 15 primo comma, che “al fine di evitare posizioni dominanti nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa è fatto divieto di essere titolare: a) di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura annua abbia superato nell’anno solare precedente il 16 per cento della tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia; b) di più di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi l’8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia; c) di più di due concessioni per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lettera b).
Il comma 4 aggiunge che “le concessioni in ambito nazionale riguardanti sia la radiodiffusione televisiva che sonora, rilasciate complessivamente a un medesimo soggetto, a soggetti controllati da o collegati a soggetti i quali a loro volta controllino altri titolari di concessioni, non possono superare il 25 per cento del numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il numero di tre”. Già nel 1994 la Corte costituzionale, con sentenza n. 420, si esprime per l’incostituzionalità della norma: “l’art. 15, comma 4, nella parte impugnata non ha rispettato l’imperativo costituzionale sotteso all’esigenza di garanzia del valore del pluralismo (ex art. 21 Cost.), quale ripetutamente affermato dalla citata giurisprudenza di questa Corte. La necessità di consentire l’accesso al massimo numero possibile di voci non può essere intesa come mera idoneità minima di una qualsivoglia disciplina ‘anti-trust’; d’altra parte l’innegabile impossibilità di individuare una soluzione obbligata, che possa dirsi essa sola rispettosa del canone costituzionale dell’art. 21 Cost., non è di impedimento a verificare se sia adeguato, o meno, il limite ’anti-trust’ adottato e se più in generale, nel contesto delle contingenti condizioni economiche e culturali della società in un determinato momento storico, la normativa vigente effettivamente si sia mossa in direzione della realizzazione del pluralismo”.
Secondo la Corte, la norma, che prevede la concessione di tre reti a un medesimo soggetto, inserita in un piano di assegnazione delle frequenze che ne comprende un massimo di dodici, tre delle quali assegnate al servizio pubblico, legittima di fatto un solo soggetto al controllo di un terzo di tutte le reti private, configurando una distribuzione iniqua delle risorse. La norma, volta a regolare una situazione in cui tre reti erano già controllate da un medesimo soggetto, inserito in un sistema dove la legge non limitava il numero massimo di emittenti, “anziché muoversi nella direzione di contenere posizioni dominanti già esistenti così da ampliare, ancorché gradualmente, la concreta attuazione del valore del pluralismo, ha invece sottodimensionato il limite alle concentrazioni”.
L’effetto della norma è stato di stabilizzare la posizione dominante esistente, “trascurando viceversa che il valore da tutelare era l’allargamento del pluralismo, prevalente sulla facoltà di concentrazione quale conseguenza estrema dell’esercizio della libertà di iniziativa economica: concentrazione che, pur potendo in ipotesi rispondere alla opportunità di conseguire una dimensione di impresa ottimale sotto il profilo economico-aziendale, non risponde peraltro alla preminente necessità di assicurare il maggior numero possibile di voci, in rapporto alle frequenze disponibili e all’esigenza che struttura dimensionale e forza economica delle imprese siano funzionali alla finalità primaria di garantire, anche grazie alla indipendenza delle imprese stesse, la libertà e il pluralismo informativo e culturale. All’opposto, con la normativa in esame, si è ottenuto che l’esistente posizione dominante – già rilevata dalla sentenza 826/88 – è risultata rafforzata perché, con il tetto delle nove reti private, è stata tracciata un’invalicabile soglia di ingresso che tiene fuori dalla categoria dei soggetti privati concessionari (salva la rilevata proroga del regime autorizzatorio) ogni ulteriore emittente nazionale non utilmente collocata in graduatoria.
Mentre, nella precedente situazione – proprio in ragione della mancanza di regole – non vi erano preclusioni o sbarramenti che impedissero la contestuale presenza di più di nove emittenti nazionali private. Insomma, il legislatore del 1990 ben poteva – tenendo presente la peculiarità della situazione italiana, che aveva visto di fatto l’insorgenza di una posizione dominante – operare un bilanciamento allo stato tra la necessità di allargare le voci cui assentire l’accesso all’emittenza nazionale privata e l’esigenza di tener conto di una realtà economica comunque esistente. Ma per essere rispettoso dei principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte, doveva comunque muoversi nella direzione di contenere e gradualmente ridimensionare la concentrazione esistente, e non già, nella direzione (opposta), di legittimarla stabilmente, non potendo esimersi dal considerare che la posizione dominante data dalla titolarità di tre reti su nove – resa possibile dalla norma censurata – assegna un esorbitante vantaggio nella utilizzazione delle risorse e nella raccolta della pubblicità.
La legge 31 luglio 1997 – cosiddetta legge Maccanico – non dà soluzione alle questioni proposte dalla corte, introducendo un regime transitorio che, pur riconoscendo limiti antitrust più rigidi, dispone che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, “al fine di consentire l’avvio dei mercati nel rispetto dei principî del pluralismo e della concorrenza, relativamente ai programmi televisivi o radiofonici numerici può stabilire un periodo transitorio nel quale non vengono applicati i limiti previsti”.
Nel 2002 un nuovo intervento della Corte costituzionale stigmatizza il perdurante assetto oligopolistico del mercato televisivo italiano, censurando con forza l’assenza di un limite temporale al mantenimento delle reti televisive considerate dallo stesso legislatore in posizione di violazione delle norme antitrust.
La Corte fissa un termine massimo al 31 dicembre 2003, con la sola subordinata legata all’eventuale “diverso futuro assetto che potrebbe derivare dallo sviluppo della tecnica di trasmissione digitale terrestre, con conseguente aumento delle risorse tecniche disponibili”.
Di questo si occupano la legge 3 maggio 2004 n. 112 – cosiddetta legge Gasparri – e il relativo testo unico della televisione, di cui al decreto legislativo n. 177/2005. Il combinato delle leggi in questione è un capolavoro del paradosso. Per quanto riguarda la pubblicità, vengono mantenuti i limiti precedenti, ma le telepromozioni, quali offerte dirette al pubblico, non vengono assimilate alla pubblicità, dando la possibilità di estendere la durata massima dei messaggi pubblicitari dal 18% al 20% di ogni ora di trasmissione. Viene poi introdotto il “sistema integrato delle comunicazioni” (SIT), definito come “il settore economico che comprende le seguenti attività: stampa quotidiana e periodica; editoria annuaristica ed elettronica anche per il tramite di internet; radio e televisione; cinema; pubblicità esterna; iniziative di comunicazione di prodotti e servizi; sponsorizzazioni”.
L’estensione illimitata del Sit rende sostanzialmente inefficace il limite giuridico legato al concetto di posizione dominante, definita come la posizione di un soggetto che sia titolare di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20% dei programmi televisivi o più del 20% dei programmi radiofonici irradiabili su frequenze terrestri in ambito nazionale mediante le reti previste dal medesimo piano, oppure consegua ricavi superiori al 20% dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni. Come aveva giustamente fatto notare la presidenza della Repubblica nel suo messaggio alle Camere del 15 dicembre 2003, “il sistema integrato delle comunicazioni potrebbe, a causa della sua dimensione, consentire a chi ne detenga il 20% di disporre di strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di posizioni dominanti”. Ad analoga conclusione è giunta la Commissione europea che, con lettera di messa in mora del 19 luglio 2006, ha aperto una procedura di infrazione in capo allo Stato italiano, contestando in particolare il contrasto di taluni aspetti fondamentali della legge 112/2004 e del testo unico della televisione di cui al dl 177/2005, con il quadro delle regole comunitarie in materia di gestione efficiente dello spettro e di accesso non discriminatorio alle risorse frequenziali e ai relativi diritti d’uso, con connessi ripetuti rilievi in ordine alle barriere esistenti all’ingresso di nuovi operatori e all’esigenza di rimuovere sollecitamente tale situazione.
Il governo italiano, da parte sua, ha dichiarato la volontà di adeguare la legislazione interna alle disposizioni dell’ordinamento comunitario violate con una nuova normativa. Il disegno di legge Gentiloni, “Disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale”, presentato alla Camera dei deputati il 16 ottobre 2006, ha concluso l’esame in commissione ed è al momento in stato di relazione. I punti qualificanti della proposta sono: l’adozione di misure intese a contenere la raccolta di risorse pubblicitarie nel settore televisivo in capo a ciascun soggetto entro limiti idonei a contrastare il consolidamento di posizioni dominanti e la frapposizione di insuperabili barriere all’ingresso dei nuovi operatori; il superamento delle barriere normative e regolamentari all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato della televisione digitale terrestre, in funzione della massima apertura del mercato; l’uso efficiente dello spettro elettromagnetico; l’adozione di misure idonee a consentire la deconcentrazione del mercato delle reti radiotelevisive, la liberazione di frequenze e l’assicurazione di generali condizioni di obiettività, trasparenza, proporzionalità e non discriminazione nell’accesso e nell’uso delle risorse frequenziali, secondo quanto richiesto dalla Commissione europea.
Il decreto Gentiloni si pone quale prima fonte normativa del futuro assetto del mercato televisivo, convertito definitivamente al digitale terrestre – secondo le previsioni – dal 30 dicembre 2012. Esso delinea dapprima una normativa antitrust intermedia secondo la quale, durante il passaggio dall’odierno al nuovo assetto, il conseguimento, anche attraverso soggetti controllati o collegati, di ricavi pubblicitari superiori al 45% del settore televisivo, riferito alle trasmissioni via etere terrestre in tecnologia analogica e digitale, via satellite e via cavo, costituisce posizione dominante; assimila le telepromozioni alla disciplina degli spot pubblicitari per quanto riguarda la normativa in materia di limiti agli affollamenti pubblicitari (art 2); ridefinisce l’ampiezza del sistema integrato delle comunicazioni, limitandolo al solo settore delle comunicazioni (art. 6); inibisce la possibilità di ulteriori acquisizioni di impianti e di frequenze da parte di soggetti titolari di più di due reti televisive via etere terrestre in ambito nazionale su frequenze analogiche e al contempo ammette tale possibilità per tutti i soggetti nuovi entranti in possesso dei requisiti previsti dall’ordinamento, secondo una logica di abbattimento delle barriere giuridiche all’ingresso sul mercato, in funzione di stimolo della concorrenza; impone al 30 novembre 2012 e, comunque, a decorrere dalla data della completa conversione delle reti televisive, ai soggetti autorizzati a fornire contenuti in ambito nazionale che svolgono anche attività di operatore di rete, la separazione societaria; prevede limiti per i fornitori di contenuti in ambito nazionale, che non possono utilizzare più del 20% della capacità trasmissiva complessiva del sistema (art.3).
Per capire l’effetto dirompente che la normativa avrebbe sull’assetto del mercato televisivo, e sui profitti che da esso derivano, dobbiamo fare riferimento all’attuale assetto del mercato pubblicitario. Nel 2006 questo particolare mercato ha generato, sulla base dei dati Nielsen, una raccolta complessiva pari a 8.713 milioni di euro, con una crescita percentuale del 2,6%, pari a 224 milioni di euro.
Un’indagine dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha evidenziato come il settore sia caratterizzato da un assetto oligopolistico con due operatori, Fininvest e Rai, che ne controllano la parte maggioritaria. In particolare, Fininvest opera in posizione dominante e Rai raccoglie la quasi totalità della parte residuale del mercato. Publitalia, la società del gruppo Finivest che si occupa della raccolta pubblicitaria, detiene il 64% del mercato, mentre Sipra, concessionaria per Rai, raccoglie solo il 28%. Di conseguenza, il mercato nazionale della raccolta pubblicitaria televisiva è contraddistinto, a differenza degli altri mercati pubblicitari, da elevate rendite monopolistiche, che non hanno riscontro negli altri paesi europei. Rai e Fininvest dispongono di una struttura verticalmente integrata, in termini di offerta di contenuti televisivi e vendita di spazi commerciali, e detengono congiuntamente una quota pari al 80-90% dei principali mercati che compongono la filiera del settore televisivo italiano.
Il fatto che essi dispongano del controllo congiunto della società che svolge in Italia la rilevazione degli ascolti televisivi – Auditel S.r.l – dalle cui rilevazioni dipende la valorizzazione degli spazi commerciali, completa la presenza attiva dei due gruppi in tutti i mercati della filiera televisiva. Il concetto di televisione ‘pubblica’, volta alla concretizzazione dei principi costituzionalmente riconosciuti della libertà di espressione e di informazione, è ormai lettera morta; sostituito dalla ricerca del profitto, anche a costo dell’impoverimento intellettuale e culturale della società italiana.
Nel dipanarsi delle fonti giuridiche fin qui citate emergono due aspetti del settore televisivo. Il primo si riferisce all’interesse generale che esso rappresenta in termini di affermazione della libertà di espressione; il secondo alla sua capacità di generare profitti economici. Le legislazioni che si sono succedute fino a quella tuttora in vigore, hanno progressivamente privilegiato il secondo aspetto rispetto al primo, spesso intervenendo a posteriori, riconoscendo realtà nate nel più assoluto vuoto normativo. Non solo. Nulla è stato fatto, nonostante i continui richiami della Corte costituzionale, per estirpare l’oligopolio che si è di fatto impadronito del mezzo televisivo. Il fatto che il proprietario della società che monopolizza il mercato televisivo, in termini di fatturato e di produzione di contenuti, sia da oltre quindici anni uno dei più attivi personaggi politici e che, in precedenza, si sia avvalso dei favori degli ultimi governi della Prima repubblica, può forse spiegare come mai, nonostante i numerosi interventi legislativi, la questione sia ancora aperta e con essa il più ampio argomento del conflitto di interessi tra politica, economia e informazione. In questo deserto, il disegno di legge Gentiloni è un’oasi di pluralismo. Speriamo non sia solo un miraggio.