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Il federalismo, un’idea nata dall’incontro d’interessi tra mafia, massoneria coperta, industria e politica, in concomitanza con le stragi del ’92 e ’93
I primi anni Novanta sono stati un bell’intrigo. Tra il 1992 e il 1993, la politica italiana ha rischiato di crollare, e ci si è dovuta mettere di buzzo buono per riuscire a rimescolare le carte e porre in atto in un brevissimo lasso di tempo, un corazzato processo di restaurazione.
È occorsa tutta l’esperienza acquisita in centoquarant’anni di trasformismo, unitamene alla grande maestria nell’intrallazzo, appresa e perfezionata durante la guerra fredda, per riuscire a orchestrare una soluzione politico-economica con cui cambiare tutto pur mantenendo inalterate le vecchie e collaudate dinamiche di potere. Questo, con il supporto di qualche bomba e un discreto numero di morti, come tradizione vuole.
Nasce in quei giorni la seconda Repubblica. E nasce in contemporanea con l’apertura dell’inchiesta Mani Pulite e alle deflagrazioni in Sicilia e in continente.
Solo oggi, a distanza di diciassette anni quei fatti cominciano a divenire più chiari, grazie alla piega che stanno prendendo le inchieste di quattro procure italiane (Firenze, Caltanissetta, Palermo e Milano). Un raggio di sole che permette un’interpretazione più attendibile, benché più tragica, di quegli anni, nel momento in cui si prova a collegare le attuali politiche di governo con le logiche che stavano alla base della strategia mafiosa. Finalmente è possibile affermare, senza essere tacciati di dietrologia, che la mafia (intesa come l’alleanza tra Cosa nostra, ‘ndrangheta e Camorra) e altri poteri occulti – garantiti da uomini appartenenti allo Stato – sono i veri ‘padri costituenti’ di questo nuovo corso storico.
Massimo Ciancimino (figlio di Don Vito, ex sindaco di Palermo) e Gaspare Spatuzza hanno cominciato a parlare di due trattative dalle quali è scaturito quel processo di autoriformismo (il sistema di governo che finge di cambiare tutto per mantenere in sella le medesime logiche, rinnovate, di potere) i cui effetti solamente oggi possono essere compresi.
Si può capire la ragione che tiene lontano gli scrittori da tutto questo. Più o meno le difficoltà sono le stesse proposte dagli anni Settanta (1), per coloro che scelgono di non adagiarsi sulle verità di regime. Menzogne, insabbiamenti, falsi storici hanno sollevato una vasta cortina fumogena per fare in modo che le zone d’ombra aumentassero con il trascorrere del tempo. Si pensi solo al diverso ruolo rivestito dalla magistratura nei confronti dei politici nel corso dei due decenni: complice della ragione di Stato – coalizzata contro il terrorismo – nel Settanta, e, dopo i brevi anni di Tangentopoli, irriducibile avversaria della mafia e di nuovo della corruzione (della politica, cioè) dalla fine degli anni Novanta in poi. Tuttavia, il 1993, nel momento in cui, a quanto pare, Cosa nostra e Stato trattavano, qualcosa di strano è accaduto. Qualcosa che trova nel ritorno di alcuni protagonisti – giudici, politici… – dei cosiddetti anni di piombo, un elemento di continuità nella ragione di Stato. Come spazzini venuti a ripulire la scena da quelle scorie malavitose sacrificabili sull’altare dell’opinione pubblica – perché ritenute superflue nel nuovo equilibrio di potere – con le quali, ai fini della conservazione del sistema, politici e imprenditori si erano criminosamente alleati. Più o meno come era già accaduto negli anni Settanta ai tempi delle stragi neofasciste.
Nel 1993, se davvero c’è stata una trattativa tra Stato e Cosa nostra e tra Cosa nostra e nuovi protettori politici provenienti dal nord, il giudice Caselli, procuratore all’antimafia di Palermo, (stando alle sue affermazioni) non se n’è accorto. Vero è, però, che dopo le stragi siciliane e continentali, in tutta l’isola sono cominciati gli arresti di buona parte dell’esercito mafioso in quota alla ‘famiglia’ corleonese. Tutti al fresco, tranne Provenzano, e altri personaggi che oggi gironzolano bellamente per il Paese, quando addirittura non sono dentro la stanza dei bottoni.
Non è semplice inquadrare gli anni Novanta incarnandoli in un unico protagonista simbolo; per quanto quel decennio sia stato dispersivo solamente in apparenza. Per raccapezzarsi occorre inquadrare il contesto storico.
Per gli italiani si può dire che il decennio sia nato nel 1992, con due date assai prossime l’una all’altra. Il 17 febbraio viene arrestato per corruzione Mario Chiesa (amministratore socialista del Pio Albergo Trivulzio) e il 12 marzo viene ucciso Salvo Lima, il viceré di Andreotti in Sicilia. I due giorni in cui sono diventate evidenti anche ai ciechi le due colonne portanti dell’economia e della politica italiana del dopoguerra: la corruzione e la mafia. E anche lo scrittore che volesse parlarne li deve prendere come punto fermo e tema centrale.
La storia che da lì è proseguita, mostra gli strenui tentativi delle mafie (in prima linea) e della politica italiana, della massoneria coperta e dei potentati economici (dietro le quinte), di conservare quel sistema di potere – quell’inestricabile collusione criminale – traghettandolo intatto, per quanto rinnovato, lungo il guado drammatico rappresentato dalle inchieste del pool di Mani pulite. Va detto per inciso che se Tangentopoli è riuscita a mostrare l’ampiezza della corruzione nei rapporti tra politici e imprenditori al centro-nord, mancando invece l’obiettivo al sud, lo si deve al semplice fatto che in quest’ultimo caso tra la concussione e la corruzione si inseriva l’elemento mafioso che non prevedeva nessun premio per chi avesse cantato davanti ai giudici. Nessuno sdoganamento politico futuro, come al contrario è avvenuto in settentrione. La paura di morire non rappresenta certo un incentivo a parlare. È stata necessaria l’ascesa politica di Silvio Berlusconi, come vedremo, e la conquista della Sicilia da parte del suo partito e del lavoro capillare di uomini come Marcello Dell’Utri, Gianfranco Micciché, Tonino D’Alì, Michele Cimino e Angelino Alfano (2), perché il processo di reinserimento di figure implicate nelle inchieste di corruzione e di mafia potesse avere luogo.
Per Cosa nostra gli anni Novanta sono iniziati invece nel 1989, con la pioggia di ergastoli comminati al Maxiprocesso, nel momento in cui si è accorta di essere stata abbandonata dai vecchi referenti politici e che era necessario costruirne di nuovi il prima possibile, essendo la propria sopravvivenza la posta in gioco. Convinzione rinforzata all’inizio del ’92 quando al processo d’appello le pene vengono confermate, aprendo la strada a un nuovo pericolo per Riina e compagni: il dilagare del pentitismo che necessariamente sarebbe seguito. Paura in seguito rivelatasi fondata. Non pochi mafiosi arrestati, tra i quali importanti uomini di vertice, pensando a una fine imminente di Cosa nostra, hanno scelto la via della collaborazione con la giustizia.
Ma lo scrittore non vuole parlare delle stragi, della trattativa tra Stato e mafia, e nel suo romanzo sfiorerà appena quella – stando alle parole di Massimo Ciancimino – tra Provenzano e Marcello Dell’Utri, il cui terminale era Silvio Berlusconi. Sono fatti che stanno emergendo finalmente, anche se i giornalisti avrebbero avuto modo di renderli noti già da qualche anno. Non mancavano certo gli strumenti per conoscerli e infatti c’era chi già ne parlava. Evidentemente allora conveniva tenerli nascosti (la governabilità?), in attesa, non fremente, del momento in cui tacere non sarebbe stato più possibile: oggi, per esempio. Le inchieste incalzano, Ciancimino canta che è una meraviglia e, allora, di scriverne non si può più fare a meno.
Tuttavia, dalle pagine dei giornali, c’è un nucleo narrativo di quest’intreccio che ancora fatica ad apparire nella sua importanza. Tacerlo comprometterebbe una corretta visione d’insieme. E dato che c’è il rischio concreto che rimanga nascosto, lo scrittore decide di incentrare la sua vicenda proprio su quel tema. Perché è un problema attuale, qualcosa di negativo e di incombente sul destino politico dell’Italia. Si tratta della questione federalista, di cui oggi si fa portatrice la politica in maniera trasversale. Qui ancora tutto tace ed è strano (o forse no).
Le inchieste in corso disvelano un fatto non marginale. E cioè che le stragi del ’92 e del ’93 erano solamente una parte del progetto eversivo messo in atto dalla mafia, e che l’altra faccia era il separatismo che, guarda caso, proprio dal 1994, con la breve alleanza tra Berlusconi e Bossi al governo, diviene discorso politico ufficiale. Il progetto separatista, in seguito stemperato nella parola federalismo, non è un’idea di Bossi. O, meglio, nella sua bocca era solo un insieme di strepiti berciati, prima che la mafia cominciasse a pensarlo come soluzione necessaria per la propria sopravvivenza. Bossi, come si vedrà, è stato uno degli strumenti, forse il più incisivo – in quale misura inconsapevole giudicherà il lettore – in quanto polo catalizzatore delle istanze federaliste e perfetta copertura degli interessi mafiosi, di parte delle istituzioni e di esponenti del grande capitale. Il punto d’incontro dei protagonisti è la massoneria coperta, un nucleo criminale in grado di radunare uomini dei servizi segreti, politici, militari, imprenditori e mafiosi. Ed è proprio al suo interno che nasce la trama, nell’idea di una separazione dello stivale in tre macroregioni.
Il sistema stava crollando. Tangentopoli era stata solo il momento terminale di un processo iniziato con la caduta dell’impero sovietico. Finita la guerra fredda non avevano più senso partiti come Dc e Pci, legati da una forma politica ‘democratica’ che impediva un’alternanza, che il politologo Giorgio Galli definisce bipartitismo imperfetto. Andavano cambiate molte cose, il capitalismo italiano aveva bisogno di un ampio restyling – che il processo di privatizzazione delle aziende di Stato avrebbe garantito – per permettere al Paese di entrare nella ‘modernità’. In quegli stessi anni in cui i compari brigavano nell’ombra, Mario Draghi, l’uomo più potente del momento, consegnava al grande capitale (per buona parte colpevole implicato nelle inchieste di Mani Pulite) le aziende di Stato, consentendo ai capitani d’industria, in un momento di profonda crisi economica, di muoversi su investimenti protetti. A completare la ‘modernizzazione’ avrebbe provveduto qualche anno più tardi l’affiatata coppia D’Alema-Bassanini, con riforme che avrebbero iniziato di fatto il federalismo, prima ancora che venisse attuata la riforma federalista.
Tornando ai problemi di Cosa nostra, la massoneria era un alleato indispensabile; questo lo aveva compreso già Bontate negli anni del suo dominio, insieme a Liggio e Badalamenti, prima di venire spazzato via dal colpo di Stato dei corleonesi. Solo la massoneria è in grado, per la sua dimensione internazionale, di mettere in moto azioni su vasta scala e ad ampio raggio in tempi brevi. Come spiega il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, molti degli uomini d’onore che diventano capi di Cosa nostra, vi fanno parte; è lì che si possono stringere i contatti con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo di Cosa nostra.
Il separatismo e, in forma meno potente, il federalismo, rappresentano una strada diretta per le mafie, di farsi Stato, di occuparsi ufficialmente dei flussi economici e rendere il sud una zona franca di traffici leciti e illeciti.
Ecco allora entrare in scena i due protagonisti. Come ogni personaggio che si rispetti devono avere un passato e quello dei nostri è talmente ricco che varrà la pena, nel corso del romanzo, di farne accenno al lettore, anche per mostrarne l’enorme spessore criminale, indispensabile per lo sviluppo della tematica, oltre che per analizzare le ragioni e la matrice del progetto federalista attualmente in corso d’opera.
È proprio in quel periodo, infatti, che comincia a muoversi il primo dei due, una vecchia conoscenza italiana: Licio Gelli. La sua loggia massonica coperta, meglio nota come P2, è l’esempio di come la massoneria ospiti molteplici anime. Basti pensare che al suo interno vi erano 52 ufficiali dei Carabinieri, 50 dell’Esercito, 6 della Pubblica sicurezza, 9 dell’Aeronautica, 37 della Guardia di finanza e 29 della Marina. C’erano giornalisti, due tra i più noti: Maurizio Costanzo e Roberto Gervaso, e imprenditori tra cui Silvio Berlusconi il quale, anche se ha un ruolo marginale nel nostro romanzo, sicuramente, dal corso che stanno prendendo le indagini della magistratura, può aspirare al ruolo di protagonista in un prossimo, magari insieme a molti dei protagonisti di questo.
Riguardo a Gelli, occorre dire che, mentre si muoveva tra il 1990 e il 1993 spalla a spalla con esponenti delle varie mafie – in particolare quella calabrese – per mettere in atto quel piano che disarticolasse il vecchio quadro politico e istituzionale, era sotto processo per cospirazione politica mediante associazione per i fatti della P2.
Questo romanzo mai scritto potrebbe iniziare con tre rapide scene ambientate tra il 2008 e il 2009. La prima in Sicilia, nei giorni infuocati della campagna elettorale. Raffaele Lombardo, il leader del neonato partito autonomista Mpa, e Roberto Calderoli, l’uomo della Lega nord impegnato a stilare la bozza della riforma federalista, parlano di un progetto comune. Nella scena successiva, il Popolo della Libertà ha vinto le elezioni, il ministro del Tesoro Giulio Tremonti definisce il federalismo ‘la madre di tutte le riforme’; qualche riga più tardi appare in televisione il governatore della Lombardia Roberto Formigoni e si esprime anch’egli positivamente a tale proposito. Lo si vede nel mezzo di un’azione propagandistica per una Milano pulita, caschetto in testa, giacchetta da operatore ecologico vestita sopra il doppiopetto, dichiarare: abbiamo bisogno di costruire con i cittadini un legame ancora più forte.
A questo punto la narrazione compie un salto indietro per spostarsi agli inizi degli anni Novanta. La mafia è in fermento. Durante una riunione tenuta nelle campagne di Enna, alcune figure progettano un piano eversivo: tra loro Riina e Nitto Santapaola. Qui viene deliberata la decisone di chiamare lo Stato a trattare allo scopo di trovare un nuovo equilibrio, e si decide di farlo attraverso un certo numero di attentati da rivendicare con la sigla ‘Falange armata’. Tutti i partecipanti sono d’accordo.
Riina ne parla giorni dopo con Liborio Micciché. La Campania, la Sicilia, la Calabria e la Puglia hanno bisogno di sganciarsi per creare uno Stato proprio. Al nord, qualcuno si sta già muovendo. Non tanto Bossi, che il corleonese considera poco affidabile – Bossi è solamente un ‘pupo’, dice – quanto il senatore Miglio, espressione della Dc e della massoneria che fa capo all’onorevole Andreotti e a Licio Gelli. Dopo la Lega nord, prosegue, nascerà una Lega sud al servizio di Cosa nostra. Apparentemente questo partito sarà una sorta di risposta naturale del meridione di fronte agli strepiti di Bossi; in realtà tra le due fazioni la contrapposizione sarà solo di facciata. Il progetto è stato concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere, e coinvolge oltre alla criminalità organizzata, anche esponenti della politica, delle istituzioni e di forze imprenditoriali. Mille miliardi sono pronti per finanziarlo. La stessa Lega nord è supportata economicamente da forze imprenditoriali che hanno interesse a dividere l’Italia in tre Stati separati.
Il 13 luglio del 1991, la Lega sud Sicilia invita Bossi per una manifestazione elettorale durante la quale il senatur viene pesantemente contestato da uomini appartenenti al Fronte della gioventù capeggiati da Gianni Alemanno, al grido di ‘Bossi razzista’. Una provocazione, spiega quest’ultimo, fare venire qui un uomo che sul pregiudizio antimeridionalista ha raccolto le sue prime fortune.
Durante un’altra riunione avvenuta tra ottobre e novembre del 1991, i capimafia si incontrano con uomini di una certa importanza. Ci sono grossi esponenti delle istituzioni dello Stato, giudici, prefetti, gente del mondo economico e alcuni ministri in carica. Focus dell’incontro, trovare il modo di aggiustare o rigettare la sentenza del Maxiprocesso, per fare uscire i mafiosi detenuti in carcere. L’altra ragione è la separazione della Sicilia.
Lo scrittore deve stare attento alla cronologia. Il tessuto narrativo prevede due azioni separate nello spazio ma contemporanee nella tempistica con cui accadono. Egli sa bene che buona parte di ciò che narra su quanto accaduto in Sicilia è sconosciuto al lettore, ma sa anche di entrare in una zona vuota della sua testa. Nessuno ne ha mai parlato, ma nemmeno ne ha dato una falsa versione, e questo è un vantaggio. Durante la ricerca ha trovato documenti ufficiali delle procure giudiziarie che riportano dichiarazioni di pentiti di mafia ritenuti molto attendibili, quindi sa bene come portare avanti la trama; ma deve tenere conto che della storia della Lega nord esistono versioni ben diverse da quella che si accinge a narrare. Per scelta decide di non parlare, oltre che delle due trattative separate della mafia, anche dello scambio tra Provenzano e lo Stato culminato con la vendita di Riina e l’arresto di Bruno Contrada, massone e uomo dei servizi segreti al soldo di Cosa nostra.
Nel 1993, Tullio Cannella e Leoluca Bagarella fondano il movimento ‘Sicilia Libera’ con l’appoggio ideativo di Provenzano, della Lega meridionale di Vito Ciancimino, e della ‘ndrangheta calabrese. Non tutti sanno che la vera massoneria è in Calabria; è là che ha appoggi a livello di servizi segreti. Proprio a Lamezia Terme, Tullio Cannella incontra in una riunione altri movimenti leghisti meridionali e diversi esponenti della Lega nord. Di questi ultimi, prende la parola un giovane sui 33-34 anni, alto, di corporatura media, capelli castano chiari. È un uomo del direttivo con una carica pubblica. Dice che gli interessi della Lega nord e quelli dei movimenti del meridione coincidono. Si deve dare all’esterno una sensazione d’antagonismo, ma in realtà si deve agire di concerto per realizzare la divisione politica dell’Italia tra nord e sud.
Nello stesso contesto viene deciso di unire tutti i movimenti del sud nell’unica Lega meridionale, proprio come accaduto nel settentrione, dove le varie e numerose leghine, a un certo punto, dopo l’ingresso in scena di Gianfranco Miglio, sono magicamente confluite nella Lega lombarda, in seguito diventata Lega nord.
A questo punto è importante che lo scrittore mostri la contrapposizione all’interno di Cosa nostra. Bagarella è proiettato sul progetto separatista, mentre Provenzano e i Graviano, pur coltivando lo stesso progetto, ritengono che i tempi di realizzazione siano troppo lunghi. Il loro suggerimento consiste nel non abbandonare il progetto, cercando tuttavia di creare nell’immediato una soluzione politica di risposta alle loro esigenze vitali: i processi, i magistrati, i pentiti e il carcere.
Questa seconda fazione impegna gli sforzi in favore e in appoggio dell’ascesa di un nuovo partito politico: Forza Italia. Il progetto può tranquillamente proseguire su due binari, anche se la separazione dell’Italia in tre macroregioni rimane comunque il fine ultimo.
* questo articolo trae spunto dalla Richiesta di archiviazione del Procedimento penale n. 2566/98 denominato ‘Sistemi criminali’, tribunale di Palermo
(1) Il romanzo mai scritto sugli anni Settanta, Walter G. Pozzi, PaginaUno n. 3/2007
(2) Amici come prima, Francesco Forgione, Editori Riuniti, 2004
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Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 1/5), Walter G. Pozzi
Il federalismo, un’idea nata dall’incontro d’interessi tra mafia, massoneria coperta, industria e politica, in concomitanza con le stragi del ’92 e ’93
Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 2/5), Walter G. Pozzi
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Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 3/5), Walter G. Pozzi
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