Gli anni Ottanta e la corruzione: la complicità di banche e imprese di Stato nel giro dei fallimenti e delle tangenti, raccontata da un protagonista dell’epoca
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Scrittore e informatore decidono di mangiare al bar del Pio Albergo Trivulzio. Mentre aspettano i panini, l’informatore dice di aver saputo che hanno ristrutturato il reparto, «quello di cui ti ho parlato la prima volta che ci siamo visti. Cessi rotti e via dicendo, quello per poveri cristi, ricordi? Beh,» prosegue, e sposta la sedia avvicinandosi al suo interlocutore, «vuoi sapere chi ha pagato per ristrutturarlo?» Lo scrittore somma uno più uno e annuisce divertito. Proprio lui, dice l’informatore: l’uomo più odiato dagli italiani. E aggiunge: «Io non l’ho mai potuto soffrire; e mica da oggi, sin dai tempi di Craxi. Bada bene, è un’informazione indiretta, me l’hanno riferita altri che lavorano qui dentro. Per cui, trattala con le pinze. Ha dato una caterva di soldi, dopo la morte della madre; divisi in due blocchi. I lavori li ha fatti chi voleva lui, naturalmente, ma questo è un dettaglio. E sai perché ha donato tutti quei soldi? Perché tutti i vecchi che vengono qui dentro devono avere lo stesso trattamento di sua madre, la stessa dignità di fronte alla morte.»
Lo scrittore abbassa la testa sul bicchiere di vinaccio che hanno ordinato per indorare i panini. Ricorda una battuta raccolta di volata dentro un carcere di massima sicurezza: “Ci sono menzogne in Paradiso e verità all’Inferno”. Quindi recupera il discorso: «L’ultima volta eravamo rimasti al tuo ingresso nel giro delle aste.»
«Cosa vuoi sapere?»
«Se guadagnavi bene, tanto per cominciare.»
L’ironia spunta nella smorfia dell’informatore: «Soldi, soldi… Non si trattava solamente di quello. Anche, ma non valeva per tutto quello che facevi. A volte, semplicemente, ti mettevi a disposizione.» Si porta il bicchiere alle labbra, quindi lo riappoggia sul tavolo e sorride: «Qualcosina, ma niente rispetto ai guadagni sui lavori che ci arrivavano dal giro dei fallimenti.» E aggiunge che il cuore del business era Milano. Molto più che Roma.
«Io ero dentro un giro potentissimo che vantava il presidente di una famosa banca e un altro che ricopriva incarichi al vertice di grandi aziende controllate da un importante gruppo italiano. I nomi ormai li sai, ma te li tieni per te. Comunque, ti faccio un esempio tra i tanti che mi sono capitati per le mani. Era il Residence dei… naturalmente non ti dico il vero nome, se no risalgono subito a me. Diciamo: il Residence dei figli di Gesù Bambino, va bene? Nel paese tal dei tali. Questo era il giro: un costruttore falliva e la sua pratica finiva nelle mani del curatore fallimentare. All’epoca lavoravamo con un ragioniere (di cui non puoi, non devi scrivere il nome, ribadisce fissando lo scrittore dritto negli occhi). Quando occorreva mi chiamava per propormi un’operazione, così ci incontravamo in un ufficio in centro dove lavorava una donna, il cui marito era l’uomo degli incarichi di vertice – persona perbene, altroché, in auge ancora oggi, ogni tanto finisce inquisito ma la sfanga sempre. Era lui il punto di riferimento per le banche.»
«L’uomo di cui parli,» chiede lo scrittore, «è stato per caso indagato di recente?» La sua voce si sovrappone alla parole dell’informatore, il quale sembra – o finge di – non sentire e prosegue.
«Chiarito come fare, andavo dal curatore fallimentare e mi mettevo d’accordo. Ciò significa che mi chiedeva una fideiussione per l’importo richiesto. Per questo non c’erano problemi, visto che ne avevamo di affidabilissime, legate ad aziende di Stato.» L’uomo intreccia le dita e ruota le mani a mostrare un legame ramificato e solido. «Era tutto collegato. Scientifico.» Beve. «Quindi, entrava in gioco quel presidente del gruppo bancario, che provvedeva a erogare un importo pari al valore dell’immobile acquisito.»
«Nel caso specifico del Residence dei figli…?»
«… di Gesù Bambino? (ride) Ventisette miliardi di vecchie lire. Naturalmente veniva costituita una s.r.l. con tanto di amministratore – un vecchio pensionato con un piede già nella fossa – al quale era garantito un mensile di cinque milioni di lire. Ottenuto il finanziamento, la società iniziava i lavori, con molta lentezza, e riconosceva a ogni partecipante all’operazione il compenso pattuito. Tutti felici, quindi. A quel punto, nel giro di un paio di mesi, la società era pronta per fallire e il giochino cominciava da capo con gli stessi protagonisti.»
«E adesso,» chiede lo scrittore, «questo residence cos’è diventato?»
«Adesso è diventato case abitative. Ma ce n’è voluto di tempo perché vedessero la luce.»
Lo scrittore pensa a quei nomi entrati nell’inchiesta di Mani Pulite e usciti tutti assolti. Pensa ad altri nomi legati alla mafia, il braccio armato, senza il quale l’informatore, all’epoca, mai sarebbe arrivato a contattare uno dei tanti big che garantivano la fideiussione. Pensa che ancora oggi sono in circolo nel sistema economico del Paese e a quanto sia ingenuo sperare che l’attività capitalistica possa svilupparsi nella piena legalità. Come se corruzione e sfruttamento legalizzato non fossero le basi dell’intero impianto sociale.
E pensa alle nuove forze politiche, ai giornalisti manettari, al Papa che benedice Mario Monti per le prossime elezioni, che richiamano a una società etica senza però mettere in discussione il sistema nelle sue fondamenta, nella sua essenza. Lo spettacolo deve proseguire.
La ramificazione mimata dall’informatore, altro non è che il risultato di una struttura burocratica e intricata, costruita in modo tale da rendere disonesta buona parte dei suoi elementi. Una macchina relazionale mirata a coinvolgere persone che spesso finiscono per comportarsi illegalmente senza nemmeno più esserne consapevoli, come se queste fossero ormai legate, in un rapporto di osmosi, al sistema di elevazione dogmatica del profitto.
Una considerazione, quest’ultima, che evidenzia quanto ingenuo sia chi ancora pensa di potere aggiustare tutto questo semplicemente ribaltando una logica culturale, magari delegando in primis la scuola perché insegni agli italiani, sin da piccoli, a pagare le tasse e a non accettare o proporre mazzette. Pensa a tutto questo, lo scrittore, e quasi senza accorgersene dice: «Tutto regolare, allora, a parte la ciclica eutanasia dell’impresa edile.»
L’informatore conferma. Tutto regolare a parte, anche, altri due o tre particolari.
I soldi della fideiussione, per quanto garantiti da solide realtà istituzionali, non c’erano. C’erano però le fi rme autentiche del presidente e del vice della grande banca italiana, i quali intascavano decine di milioni, a seconda degli importi erogati. A quel punto, l’informatore tornava dal curatore per completare l’iter burocratico. Tutto a posto, dal momento che quest’ultimo non si preoccupava di controllare ulteriormente, anche perché se lo avesse fatto, sarebbe emerso immediatamente che i soldi non c’erano. Per cui si faceva bastare, primo, il documento originale; secondo, che si acquistasse il bene immobile, e, terzo, che la banca erogasse il mutuo. Grazie a questo rondò, compravi a dieci miliardi una proprietà che ne valeva venti, con l’intento dichiarato di ristrutturarla. Ricevevi dalla banca i soldi – parte dei quali serviva a ungere di qua e di là. Tecnicamente iniziavi i lavori – chiasso e polvere per un paio di giorni, magari assumendo tre operai. Facevi fallire la società appena incassato il mutuo – e, con essa, un vecchio non più perseguibile per limiti d’età. Tornavi di nuovo, lavato e asciugato, dal curatore, per fare ripartire il giro. Tanto il problema della fideiussione non esisteva, perché se non controlli subito, un domani restano le firme, e quelle sono autentiche, così come i timbri.»
Lo scrittore riflette un attimo, quindi chiede: «Appalti, fallimenti, ricostruzioni… c’era qualche altro modo di fare soldi?»
«Come no! Ho fatto anche il fattorino.»
«Ovvero?»
«Mi dicevano: “Prendi ‘sti quattrocento milioni e portali al casello di Verona”. Non ci mandavano mai più giù della Toscana. I soldi erano dentro una valigetta; io arrivavo lì dove incontravo un altro fattorino, e la scambiavo con la sua. Dietro a questi passaggi di mano c’erano grandi banchieri. Non guadagnavo molto, ma prestarmi a questi viaggi mi accreditava tra le persone giuste. Pensa questa: nel… (fa due conti a mente, quindi…) nel ’91, sì: nel ’91, a Milano. Ai tempi delle prime isole pedonali. Arrivo lì con il mio socio, ognuno con la propria Mercedes. Hai presente due megalomani? Le avevamo acquistate perfettamente uguali. Siamo venuti in città per partecipare a una riunione, e dal momento che la strada che conosciamo per arrivare in centro, vicino al Duomo, è bloccata, decido di chiamare…» si morde il labbro. «Certe volte avrei voglia di fartelo scrivere questo nome… A ogni modo: chiamo ‘il punto di riferimento per le banche’ per spiegargli la situazione. Credimi, nel giro di un paio di minuti arrivano da noi due poliziotti in moto che ci chiedono cortesemente di seguirli e, a sirene spiegate, ci ‘scortano’ senza ulteriori ostacoli, proprio in piazza Duomo, puntuali per la riunione. Lo vedi cosa s’intende realmente quando si afferma che il pubblico è privato e che il privato è pubblico?»
C’è un concetto che l’informatore ama ripetere spesso durante gli incontri con lo scrittore: vogliamo condannare quel sistema? Bene, condanniamolo. Peccato che oggi sia uguale ad allora. Anzi. Il sistema dell’appalto pubblico è ancora più agevole per i ‘furbi’.
«Una volta dovevi almeno fare la fatica di aprire le buste con cautela e aggirare il problema della ceralacca. Oppure diventavi ditta fiduciaria e a quel punto saltavi la gara. In quel caso, era direttamente il ministero degli Interni che ti diceva di rimaneggiare quel determinato caseggiato: “Sta crollando un poggiolo, spicchettali un po’ tutti”. E quando avevi finito ti chiedeva anche di ricostruire, e lì stava il vero guadagno, perché a quel punto staccavi ordini su ordini, finché non terminavi l’intero lavoro. Per questo i costi degli appalti aumentavano. Oggi, invece, sul regolamento degli appalti, c’è scritto che viene assegnato un punteggio in base a determinate caratteristiche. Questo cosa significa? Che se io faccio un ribasso del 15% e un altro lo fa del 16, non è detto che vinca io. La scelta del vincitore dell’appalto prevede anche un punteggio derivante da un insieme di cose. È proprio questo ‘insieme di cose’ il modo per rendere arbitraria la decisione di chi decide degli appalti. È l’azienda che si riserva la facoltà di decidere. E dove sta la differenza rispetto ad allora? Nel fatto che la specie si è evoluta.»
Nel frattempo, la stesura del romanzo prosegue. Il periodo dei fallimenti infonde nel protagonista un sentimento di onnipotenza. I soldi entrano a getto continuo, personaggi potentissimi, per un loro tornaconto personale, sono a sua disposizione. Lo scrittore vuole mostrare questo Eldorado e costruisce due scene in sequenza.
Un giorno, al culmine della fortuna, l’uomo, ormai quarantenne, entra in una nuova filiale appartenente al grande gruppo bancario il cui presidente è suo amico. Forte di questo contatto, chiede un fido di duecento milioni di lire. Come da prassi, il direttore domanda garanzie e lui, senza stare lì a perdere tempo, gli risponde di lasciar perdere. Così esce e da un bar chiama il presidente. Gli dice che quel rincoglionito di direttore gli ha chiesto delle garanzie.
«Adesso dove sei?» chiede il presidente.
«Dentro un bar.»
«Dammi dieci minuti e ti richiamo sul cellulare. Rimani in zona.»
All’ora di chiusura della banca, il direttore della filiale lo chiama, chiedendogli di andare da lui, anche subito. Il protagonista, con faccia tosta, gli fa notare che ormai è tardi, che a quell’ora la
banca è chiusa.
«Non si preoccupi, l’aspetto!»
Il protagonista torna in banca e nel giro di un quarto d’ora apre due fidi da duecento milioni l’uno.
La seconda scena è ancora più rappresentativa del momento in cui il successo arriva all’apice e assume risvolti psicologici.
Da bambino il protagonista sognava di comprare una Mercedes. Lo sognava. Era la sua Rosebud. Nella seconda metà degli anni Ottanta entra in una concessionaria d’auto e chiede di vederne una. Inizia con una piccolina, una 240. Però la voglio in due giorni!, dice. Ma non riesco in due giorni, risponde il venditore. Non mi interessa, se vuoi che la compri, due giorni! E dopo due giorni l’auto arriva.
Passano due, tre mesi e ritorna: “Caro mio, che razza di macchina… è un chiodo, non va, è troppo lenta…”
Nell’arco di un anno e mezzo arriva a possedere la 5000 presidenziale. Nella concessionaria ormai gli fanno gli inchini. E così i bancari. Se anche va in rosso non ci sono problemi, basta che faccia circolare i soldi. È convinto di vivere in un pozzo senza fondo, di indossare la giacca magica di buzzatiana memoria.
«Le fatture erano firmate dai vari ministeri, le banche per me aprivano anche alle cinque del pomeriggio, mi stendevano davanti la passiera rossa. I funzionari venivano in cantiere a proporre mutui. Lavoravo con San Paolo, Banca nazionale del Lavoro, Credito italiano. Poi Cariplo. Allora si sporcavano volentieri le scarpe nel fango dei cantieri, per venirmi a trovare.»
La miniera sputa oro: l’impresa va avanti, l’attività all’estero anche e si apre un mondo in cui gira denaro contante, valigette con dentro 400 milioni, il sistema di telefonate, “alle due stanotte devi essere al casello di Pisa nord”, scambi di valigette con sconosciuti… finché…
«Quando ti sei accorto che stava per finire tutto?»
«Che la situazione fosse grave l’ho capito a metà del ’93. Per chi c’era dentro era ormai chiaro perché alle prime notizie dello scandalo, i funzionari di Roma non firmavano più. Al sesto piano del ministero del Tesoro, un giorno sono entrato, in jeans e maglietta, e ho detto a un tal geometra che l’avrei buttato giù dalla finestra. Era una carogna che fino ad allora aveva sempre intascato bei soldi da me. Sapeva, come molti altri come lui (ed erano tanti!), di essere colpevole. Aveva sempre firmato i Sal (Stato di Avanzamento Lavori, n.d.a.) senza battere ciglio, e adesso aveva tirato giù la clér. Dalla sera alla mattina avevano smesso e il problema diventava tutto dell’imprenditore. Mi hanno chiamato loro, ero in vacanza nel sud Italia e quando sono arrivato mi hanno dato la bella notizia: il giochino era finito e stava per cominciare il fuggi fuggi generale, lo scaricabarile, il salviamo il salvabile. Io avevo tirato fuori 70 milioni ed ero andato in rosso, la banca aveva dismesso sorrisi e gentilezza e così mi sono trovato nei casini. Quello è stato il primo caso: dopodiché non ha firmato più nessuno. Infatti lo Stato ci ha guadagnato bene in tutto questo casino, perché non ha più regolarizzato i numerosissimi appalti in essere. Ma certo nessuno imprenditore a quel punto si sarebbe sognato di andare a lamentarsi.»
Finché, in una delle ultime scene, il protagonista comprende che la faccenda si sta aggravando. Esattamente quando, una domenica mattina («In seguito sarebbe diventato un classico»), lo Stato si incarna in un paio di personaggi in borghese. Suonano e si trova davanti due… «Hai presente il Monnezza, in jeans… abbigliamento informale, per intendersi. Era la polizia giudiziaria: possiamo entrare?, possiamo appartarci? Io andavo di là e svegliavo le mie figlie. Dobbiamo farle delle domande, e poi, alla fine, cercavano di farti parlare. Quando vedevano che su certe cose non mollavi, ti lasciavano l’avviso di garanzia.»
Terminati i loro panini, i due si alzano. L’informatore tiene ancora nascosto dentro il taschino il registratore. Camminano lungo i corridoi della casa di riposo, nel viavai di medici e infermiere.
Una volta, un famoso avvocato milanese ha raccontato allo scrittore un aneddoto dei tempi di Tangentopoli. Pare che un giudice incoronato con onori e gloria durante quel periodo, avesse l’abitudine di tenere sulla scrivania due faldoni, uno a destra e uno a sinistra, con l’inquisito che gli stava seduto di fronte.
Lei, gli intimava il magistrato, ha due possibilità. Rientrare in questo incartamento (mano sul faldone di destra) e allora se la sbriga velocemente. Oppure rientrare in quest’altro (mano sul faldone a sinistra), e qui la cosa rischia di diventare più lunga assai.
«Io ho ricevuto ventinove avvisi di garanzia» sta dicendo adesso l’informatore. «Credo di aver perso in fotografia con Poggiolini, sai quello dei soldi nascosti nel puff. Avevo smesso di girare l’Italia per fare i lavori e adesso cominciavo a percorrerla in lungo e in largo passando da un tribunale all’altro. Perché gli appalti allora li prendevi a Bolzano come a Palermo. Spesso sono stato chiamato a testimoniare in un caso in cui ero anche inquisito. In una situazione del genere, puoi avvalerti della facoltà di non rispondere. Così mi capitava di trottare per chilometri e chilometri, di arrivare in tribunale, aspettare, quindi sedermi davanti al giudice, pronunciare la famosa formula: mi avvalgo della facoltà… E arrivederci e grazie, ripartivo. E mi rimborsavano anche le spese.»
Nell’ultima scena del romanzo, il protagonista è chiamato in una città del nord per rispondere come testimone in un’inchiesta in cui non è indagato. Non può quindi rifiutare di rispondere. È lì, perché ha svolto dei lavori alla scuola militare, agli alloggi degli uffi ciali. In più ne ha fatti altri da quelle parti, nell’hinterland, per le gare delle case popolari.
Il giudice, oggi magistrato famoso, gli pone una semplicissima domanda: “Ma come ha fatto, lei, da piccola impresa artigiana a trasformarsi nella grande azienda con sessantadue operai e tredici impiegati?”
L’uomo ci pensa sopra un attimo. Risponde: “Si vede che ero bravo”. Nell’aula scoppia la rabbia del magistrato. “O forse ero bello. O forse, chissà, ho avuto culo”.
Il magistrato allora si alza, va da un agente. Torna con un paio di manette e le lascia cadere sul tavolo. Dice: “L’avviso: se continua così, io la sbatto dentro”.
L’informatore solleva le spalle. Non ha fatto nomi ed è uscito da quel periodo senza un soldo in tasca.