di Franco Giannantoni |
Linea strategico-politica, aiuti militari, finanziamenti, vincoli politici dell’Oss verso le bande armate autonome al confine fra Italia e Svizzera (1943-1945). La ‘scuola partigiana’ filo alleata di Campione d’Italia e il ‘caso politico’ del capitano Ugo Ricci
La strategia alleata e la Resistenza italiana: l’arma della ‘doppiezza’
Quando il 3 novembre 1943 Ferruccio Parri e Leo Valiani, esponenti del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, andarono a Villa De Nobili di Certenago presso Lugano per incontrare Allen Dulles (1) e John McCaffery (2), responsabili delle Agenzie dell’Oss (Office of Strategic Services) e del Soe (Special Operation Executive), i servizi segreti statunitense e inglese, per sollecitare un sostegno militare e finanziario alla Resistenza, raccomandando “una propaganda più aderente alla realtà italiana” (3), la risposta che ottennero dal punto di vista tecnico fu interlocutoria e da quello politico lontana dalle aspettative (4). I sacri fuochi di una lotta armata con un grande esercito popolare erano apparsi in quel momento soffocati. Gli Alleati avevano preso le distanze da quella visione militare in nome di una strategia che non prevedeva cessioni di comando nella conduzione della guerra (5).
La “guerra grossa” sognata da Parri per un riscatto del Paese contro l’oppressore “sotto la spinta di irrinunciabili istanze di rinnovamento politico e sociale” (6) non rientrava negli impegni che gli Alleati avrebbero assunto nella campagna d’Italia. “Avemmo la sensazione – commentò a caldo il leader azionista – che gli Alleati cercassero di dividerci invece di aiutarci a creare un’organizzazione unitaria” (7). Una valutazione in linea con l’esito dei contatti avuti il 17 settembre e il 25 ottobre precedenti con lo stesso McCaffery da Alberto Damiani, ‘giellista’, inviato in Svizzera del Comitato militare milanese, che in alcune “relazioni organiche sulla situazione nel Nord” aveva messo in luce prevenzioni e profonde diffidenze di natura politica.
In realtà gli Alleati avevano della Resistenza una visione opposta. Ostili a una lotta politicizzata, propensi a sostenere Casa Savoia “correa della tirannide fascista” (8), contrari a bande armate irregolari alimentate dai partiti e da ideologie come quella comunista, sprezzanti, secondo lo storico americano Norman Kogan, verso i partigiani considerati al pari di mercenari e con scarse qualità militari (9), timorosi di uno sbocco istituzionale rivoluzionario al termine del conflitto, non erano disposti a mettere in gioco il controllo strategico della guerra destinata a consolidare, una volta conclusa, aree di potere e a restaurare il modello socio-istituzionale e conservatore pre-fascista.
Se le divergenze di fondo erano queste, cristallizzate in un giudizio negativo contro tutto quello che si richiamava al Clnai, ritenuto un luogo di inutili dibattiti, e contro l’attività dei partiti politici, un’intesa con gli Alleati era apparsa possibile sulla base di attività di semplice sabotaggio, intelligence, azioni armate di breve respiro, con nuclei ristretti sempre in stretto contatto con le forze anglo-americane “senza che l’auspicata collaborazione implicasse un consenso Alleato anche generico ai moventi ideali delle correnti più avanzate dell’antifascismo” (10). La diversità di giudizio nella strategia era lampante.
Edgardo Sogno, comandante della ‘Franchi’, un’organizzazione partigiana indipendente in contatto con il Soe, interprete di un modello individualistico e aristocratico del combattente e di uno scontro audace, per un ripristino delle libertà civili e politiche in chiave di una restaurazione della dignità nazionale e di un sistema politico liberal-democratico, era del parere “che la concezione della guerra partigiana come lotta a sfondo e contenuto politico comporta la tendenza a favorire la formazione di bande sempre più numerose, a ‘liberare’ e a controllare delle zone, a unificare il comando nelle mani degli organi e dei dirigenti politici, a condurre una guerra propria indipendente, anche se combattuta a fianco delle truppe alleate” (11).
Contro questa interpretazione riduttiva aveva replicato Pietro Secchia, commissario politico del Comando ‘garibaldino’: “Le correnti conservatrici dello schieramento politico italiano agivano in sintonia con gli Alleati al fine di ridurre il fenomeno resistenziale entro i limiti di un fatto puramente militare. Si trattava anche e in primo luogo di opporsi a ogni costo al rinnovamento democratico delle strutture dello Stato” (12). Le conclusioni erano state tassative. “Noi – aveva osservato Secchia – non possiamo e non dobbiamo attenderci passivamente la libertà dagli anglo-americani, il popolo italiano potrà avere un suo governo solo se avrà lottato per la conquista dell’indipendenza e della libertà” (13). Con l’attendismo, la mala pianta che condannava alla ‘non azione’ in attesa che altri, in questo caso gli Alleati, si muovessero (“il momento opportuno”), la sinistra avrebbe rischiato l’esclusione delle masse popolari dai fatti decisivi della storia nazionale favorendo l’accordo anticomunista.
Solo nell’aprile del ’44, con l’ingresso dei partiti antifascisti nel governo del Sud, i timori furono in parte dissolti pur rimanendo una profonda diffidenza accresciuta dal timore che le unità partigiane, soprattutto quelle ‘rosse’, irrobustite dal contributo alleato, potessero confluire nell’esercito regolare condizionandone il tratto politico. La Resistenza italiana, a cui i lanci di armi erano stati dispensati con parsimonia, avrebbe dovuto rappresentare ‘una ruota di scorta’, una semplice forza di supporto, ‘un’integrazione dello sforzo di guerra’, restando inesorabilmente schiacciata nelle proprie aspirazioni libertarie, impedita a liberarsi da sola. Era frequente in quel periodo qualificare negli ambienti Oss questa condizione, come hanno rivelato le ricerche storiografiche del professor Roger Absalom dello Sheffield City Politecnic, con l’irridente espressione di kid (keep Italy dow: tenere l’Italia sotto il tallone) e in quelli inglesi con l’affermazione di Winston Churchill, solo un po’ più sfumata, di “lasciare che gli italiani si diano da fare per riguadagnare il tempo perduto”.
La verità era che il Paese avrebbe dovuto presentarsi al tavolo della pace come un Paese sconfitto, ritenuto nel corso del conflitto quale ‘cobelligerante’ e non quale alleato. Le conseguenze di questa diffidenza ideologico-politica furono duplici: se da un lato, nel momento in cui la Resistenza aveva mostrato tutta la sua forza, con gli accordi di Caserta del 23 novembre e di Roma del 7 dicembre 1944 fra Alleati e la Delegazione ufficiale del Clnai formata dal presidente Alfredo Pizzoni (prediletto dagli interlocutori perché il solo non appartenente ad alcun partito politico), Ferruccio Parri, Giancarlo Pajetta, Edgardo Sogno, i primi decisero un massiccio finanziamento, pari a una somma non superiore ai 160 milioni di lire al mese, da dover suddividere in rapporto alla consistenza delle varie formazioni (14), dall’altro, soprattutto laddove erano presenti delle formazioni militari e civili autonome svincolate dal Clnai, l’azione di controllo e di finanziamento si era mostrata sempre molto intensa.
Era la conferma della ‘doppiezza’ di una linea politica che non voleva comunque rinunciare, quando se ne fossero presentate le occasioni, a indebolire e a frantumare l’unità della Resistenza. Gli Alleati con i loro Comandi periferici, in contrasto con le intese di Caserta e di Roma, avevano continuato a guardare in questa direzione allo scopo di mantenere il più possibile il controllo del territorio e delle formazioni presenti, contenendo lo sviluppo della Resistenza di segno comunista, l’obiettivo reale delle operazioni.
Questa strategia si era affermata con particolare intensità lungo la fascia del confine italo-svizzero, dalla Val d’Ossola al Comasco sino alla Valtellina, un territorio strategicamente decisivo per la difesa del grande capitale idroelettrico, per poter muovere senza violare la neutralità elvetica le ‘missioni’ informative di agenti speciali dalla Svizzera in Italia; per alimentare con finanziamenti ‘a pioggia’ senza alcun controllo da parte del Clnai le bande presenti, in gran parte costituite da militari sbandati e da contrabbandieri; per impedire che la guerriglia garibaldina assumesse proporzioni tali da mettere a repentaglio la leadership della lotta costituendo, come nel caso della Libera Repubblica Ossolana, roccaforti bisognose, per resistere, di grandi sforzi non solo militari.
Si era alzata anche la voce di Concetto Marchesi, il rettore dell’Università di Padova, rifugiato oltre confine dal febbraio del ’44 dopo aver lanciato lo storico messaggio agli studenti perché prendessero le armi contro l’oppressore, in una lettera alla Direzione del Pci del 20-24 aprile 1944, in cui aveva osservato come l’attività degli agenti anglo-americani a favore della lotta antifascista “si è sinora frantumata e dispersa in una quantità di piccoli rapporti, di stentate e meschine sovvenzioni dentro una rete di reciproche diffidenze e forse talora anche di reciproci inganni che via via hanno suscitato e accresciuto negli anglo-americani la persuasione che in Italia si faccia troppo poco e troppo male” (15).
L’attacco frontale portato da Alberto Damiani contro la strategia degli Alleati di tenere in vita le formazioni a loro più vicine era apparso in tutta la sua efficacia quando il 12 gennaio 1944 si era rivolto agli interlocutori in Svizzera con queste parole: “Mentre con noi continuate a temporeggiare in modo inspiegabile, o troppo spiegabile, date per contro con grande facilità appoggi a molte, a troppe iniziative isolate che vi costano molti milioni e vi danno ben poco, rinunciando a utilizzare e potenziare quelle forze della Resistenza che attraverso il Comitato militare del Cln sono le uniche che, se valorizzate, possono affiancarvi seriamente” (16).
L’azione dell’Oss, i servizi segreti statunitensi, la Scuola partigiana di Campione d’Italia
L’Oss (17), cuore operativo dei servizi d’informazione americani, voluto dal presidente Roosevelt, fu costituito nel 1942 dal repubblicano generale William Donovan, dopo la débacle del 7 dicembre 1941 di Pearl Harbor dove l’organizzazione informativa del COI (Office of the Coordinator of Information) era stata violata. Donovan, fra le prime decisioni assunte, aveva organizzato a Lugano, alle dipendenze dell’Oss-Europedi Berna diretto da Allen Dulles, un ufficio periferico affidato a Donald Pryce Jones, giornalista, buone conoscenze nei quartieri dell’alta borghesia e dei circoli finanziari di Wall Street, un’esperienza a Parigi prima dell’occupazione nazista (18).
A questo singolare personaggio era stato affidato il compito di informare le missioni del Quartier Generale nell’Italia liberata sull’andamento della guerra attraverso l’attività investigativa degli agenti fra cui diversi italiani (19), di far giungere i finanziamenti alle bande dell’Alta Valtellina, della Val d’Ossola, dell’alto Comasco, della Val d’Intelvi e di armarle curando che in quei territori non si verificasse l’ulteriore sviluppo dei distaccamenti garibaldini molto combattivi, fra cui la 52ª brigata d’Assalto Garibaldi ‘Luigi Clerici’ che avrebbe catturato, fra Musso e Dongo, Mussolini in fuga coi suoi ministri.
I rischi corsi a Lugano dall’agente Donal Pryce Jones (‘Zio Scotti’ per gli italiani), ‘coperto’ nelle sue funzioni dal ruolo ufficiale di vice console Usa, si dimostrarono con il passare del tempo eccessivi mettendo in pericolo la sua stessa persona. L’eventualità di poter violare la neutralità del Paese ospitante era stata pressocché quotidiana: basti pensare all’intenso via vai da villa Wesphal in località Cassarate e dalle camere d’albergo dell’Hotel Splendide nel centro città, le sue sedi operative, delle vetture di Guglielmo Mozzoni, Dino Bergamasco, Edoardo Visconti di Modrone, Stefano Porta, i famosi ‘4 moschettieri del Clnai’ da e per la Svizzera (20), cariche di mitra Hispano-Suiza della Oerlikon di Zurigo da distribuire ai partigiani autonomi, per avere un’idea delle insidie esistenti. Per evitare un possibile arresto da parte delle autorità svizzere e per non pregiudicare la sua attività, Jones aveva pensato di ‘conquistare’ l’énclave di Campione d’Italia in provincia di Como, sulla sponda orientale del Ceresio, 600 abitanti, il casinò chiuso dal ’39, sotto la giurisdizione della Rsi, circondata da ogni parte dal territorio svizzero.
Nella notte fra il 27 e il 28 gennaio 1944 Sandro Beltramini, 34 anni, milanese, comunista, l’agente ‘Como’ della Missione Oss ‘Violet’ (21), aveva ottenuto, con la collaborazione di alcuni cittadini, senza colpo ferire, la resa dei sei carabinieri reali e la liberazione della cittadina passata in un paio d’ore sotto il Regno del Sud. Nell’‘operazione Quail’, finanziata con 8.752,20 franchi svizzeri, erano stati coinvolti i servizi segreti svizzeri e la Regia Legazione Italiana di Berna. Non si era trattato di un ‘colpo di Stato’ come contrabbandato in questi decenni bensì di una più modesta ‘rivoluzione simulata’ che aveva colto il nemico alla sprovvista, coordinata sul territorio da don Pietro Baraggia, parroco di Campione d’Italia, e da Felice De Baggis, 43 anni, ex ufficiale dell’esercito regio in contatto con l’Oss.
Campione d’Italia, da quel momento ‘feudo statunitense’, sotto il controllo della Legazione badogliana di Berna (22), era diventata il luogo ideale per le diverse strategie partigiane in cui, accanto agli Alleati, potevano tessere le loro trame sedicenti capi banda alle cui spalle spesso prendevano forma disinvolte e anche pericolose iniziative di contrabbando di armi, di merci e di denaro. Conquistata Campione d’Italia, gli Alleati erano stati in grado d’accelerare il loro programma formativo costituendo un Laboratorio operativo per la penetrazione in Italia di agenti segreti e propaganda del PWB (23), un Centro radio trasmittenti a Villa Ghezzi collegato con il Governo del Sud e con il Quartier Generale Alleato di Siena e di Algeri e, dal 24 luglio 1944, un anomalo Centro per l’addestramento di giovani partigiani a Villa Mimosa, ex dépendance del casinò, affidato al maggiore dei bersaglieri Giovanni Battista Cavaleri ‘Gufo Maggiore’, 50 anni, monarchico, ardito nella prima guerra, esponente di rilievo della borghesia milanese (24).
Tre strumenti particolari: una fucina di ‘007’, una centrale di trasmissione e ascolto a vasto raggio e una vera e propria ‘scuola partigiana’ per affiancare alle bande presenti sulle montagne del confine gruppi filo alleati formati da giovani italiani che avevano trovato rifugio nell’énclave dopo l’8 settembre, in gran parte rampolli di agiate famiglie, qualche ex militare e qualche contrabbandiere (25). I borghesi, poco più che ventenni, animati in qualche caso da spirito patriottico, erano del tutto ignari dell’utilizzo che di loro si sarebbe fatto nella ‘scuola’ tanto che, interrogati molti decenni dopo da chi scrive, poco e confusamente avevano saputo dire di quell’esperienza assai improvvisata che, dopo un approccio “con l’istruzione sulle armi, collegamenti, lettura della carta, orientamento” (26), era iniziata con la partenza per la Val d’Intelvi il 23 settembre 1944 (la formazione fu chiamata I Gufi) quando sembrava possibile la caduta della Linea Gotica e l’avanzata decisiva degli Alleati verso il Nord (27) (il famoso momento opportuno) e che si era trasformata, per l’inesperienza dei più, fra scontri a fuoco col nemico e ritirate, in vera tragedia, sotto il peso dei rastrellamenti in Val Menaggio, Valsolda e Val Cavargna e poi in una fuga disordinata fra i monti fortemente innevati verso la Svizzera.
Un’esperienza che era stata bollata con parole severe dal nuovo Delegato Militare del Clnai di Lugano il socialista Giovanni Battista Stucchi ‘Federici’, voluta, a suo dire, da “quegli allegri americani” che lo avevano costretto a compiere un’ispezione a Campione d’Italia “per dirimere i contrasti interni e dare qualche ordine alla convivenza dei rifugiati con la comunità indigena nonché all’afflusso dei volontari alle formazioni partigiane” (28).
Da Lugano, noncurante, l’agente Jones, attraverso Felice De Baggis, aveva continuato a finanziare quel poco che era rimasto delle bande disseminate fra la Val d’Intelvi, la Menaggina, la Valsolda. Rare le azioni, condizionate fra l’altro dall’atteggiamento non sempre limpidissimo dei molti ‘partigiani-contrabbandieri’ poco propensi ad alimentare scontri a fuoco che potessero mettere a repentaglio il traffico clandestino verso la Svizzera di merce pregiata come riso, farina di mais, salumi, seta grezza, vino (29). Chi avesse violato i patti o avesse ceduto alle lusinghe di abbandonare la linea d’attesa in cui era stato costretto, agendo isolato, o stabilendo dei rapporti operativi con Comandi di segno politico diverso, si sarebbe automaticamente posto in un cono d’ombra di pesanti sospetti.
Il ‘caso politico’ del capitano Ugo Ricci
È quanto era accaduto a Ugo Ricci, 31 anni, monarchico, ufficiale del III Reggimento Autieri di Milano, salito in Val d’Intelvi pochi giorni dopo l’armistizio, tessitore di un lungo e paziente disegno di ricucitura del disperso tessuto partigiano di quella terra sino a raccoglierlo in un solo Comando. Avvicinato e finanziato dai circoli Oss di Lugano e Campione d’Italia (135mila lire in quattro mesi con quote di 15mila lire per volta), Ricci, nell’estate del ’44, spinto dal desiderio di combattere mettendo fine a un immobilismo esasperante, aveva stabilito un accordo operativo con Luigi Canali ‘capitano Neri’, 33 anni, comasco, comandante della 52ª brigata Garibaldi ‘Luigi Clerici’ in prevalenza comunista, senza rinunciare alla propria autonomia (30). La decisione apparsa agli Alleati politicamente inaccettabile, aveva provocato una progressiva chiusura degli ambienti Oss verso Ricci, compreso il rifiuto di rifornirlo di quelle armi a lungo promesse (31) che aveva indebolito la credibilità dell’ufficiale presso i suoi uomini sempre più sfiduciati e immotivati, costringendolo a uscire allo scoperto.
Ricci, dopo essere andato a Campione d’Italia e a Lugano a sostenere le sue ragioni con gli Alleati, con la Delegazione del Clnai e con il controspionaggio svizzero, (‘Gufo Maggiore’ sul suo taccuino registrerà preoccupato: “R. ha parlato molto, troppo”) (32), si era procurato le armi assaltando le caserme della X Mas e della Guardia di Finanza di Porlezza (33), per poter guidare una rischiosa impresa militare organizzata dal Comando ‘Garibaldi’ del medio Lario. L’azione fissata per il 3 ottobre 1944 aveva l’obiettivo di catturare il ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, sfollato con la famiglia a Villa Portaluppi di Lenno sulla sponda occidentale del lago di Como. Il giorno della gloria si era trasformato per Ricci e tre suoi compagni, fra cui il commissario politico Alfonso Lissi, 38 anni, dirigente comunista reduce dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nell’appuntamento con la morte.
Sullo sfondo della vicenda, celebrata in una lapide come “un sacrificio glorioso per la Patria quanto più ci sorrideva la vita”, erano immediatamente apparsi dei segnali che avevano manifestato forti dissensi e ambigui giochi di potere all’interno delle bande partigiane di segno diverso e il rilevante peso della presenza Alleata. Si era trattato con ogni probabilità di una trappola per liberarsi di un capo partigiano che avrebbe potuto ‘disturbare’ lo svolgimento del percorso resistenziale. Non era infatti tollerabile per gli Alleati che potesse proporsi un ulteriore spazio ai ‘comunisti’ che controllavano già il territorio da Como fino alla metà del lago.
Molti elementi avevano condotto in quella direzione con un’ipotesi che aveva trovato un riscontro da un elemento acquisito dai magistrati del tribunale di Como, autori dal 1947 al 1956 di una monumentale inchiesta giudiziaria nata da una denuncia di Tito Mario Ricci, padre del caduto, alla ricerca della verità dei fatti. A sparare a Lenno quel 3 ottobre 1944 non furono i fascisti. Fu il ‘fuoco amico’, esploso alle spalle, partito da fucili mitragliatori partigiani. Gli inquirenti non andarono oltre. Non sciolsero il nodo principale sui mandanti e sugli esecutori per l’impossibilità materiale di percorrere con credibilità il tragitto inquisitorio, carenti com’erano allora di notizie ‘politiche’ che potessero illuminare la loro l’indagine.
Un documento, acquisito al carteggio giudiziario, avrebbe potuto servire a chiarire l’aria che tirava. Felice De Baggis, l’ufficiale di collegamento fra Campione d’Italia e Lugano, aveva comunicato in un messaggio trasmesso a Giovanni Battista Cavaleri, comandante de I Gufi che se “la questione del Ricci non sarà risolta” e con essa chiarita la posizione del commissario politico comunista Alfonso Lissi (testualmente: “Eliminato il commissario politico”), sarebbero state “congelate” 800mila lire per le formazioni. Il significato del testo era eloquente. Restava, pesante come un macigno, la coincidenza temporale con l’azione di Lenno del 3 ottobre e il forte richiamo alla giurisdizione degli autonomi in un territorio che non avrebbe dovuto consentire presenze di segno diverso “poiché – avevano sottolineato De Baggis e Cavaleri – era nostro intendimento agire nell’interesse supremo della Patria e mai per fini politici”.
Eliminato il rischio ‘comunista’
Usciti di scena Ricci e Lissi, tramontato nel medio e alto Comasco il progetto di una lotta armata svincolata dalle interferenze alleate, falliti alcuni tentativi del Comando ‘Garibaldi’ del Centro Lario di risucchiare nella loro orbita le formazioni autonome sbandate fra la Val d’Intelvi e la Val Porlezza, la questione del ‘pericolo rosso’ si era attenuata. Il solo frutto positivo del tragico evento di Lenno era stato il precipitoso abbandono dalle ville del Lario per il timore di nuovi assalti partigiani delle famiglie dei gerarchi fascisti dirottate dal Comando tedesco a Zurs, una località invernale del Voralberg sopra St. Anton a duemila metri di altezza sotto il controllo degli ustascia di Ante Pavelic (34).
Il fronte filo alleato si era ricomposto e i timori di possibili degenerazioni, affievoliti. L’autorità dell’Oss sulle sfilacciate bande della zona del medio e alto Lario era stata ristabilita. Se la difesa dell’Ossola, per il mutamento della strategia militare, non era più rientrata nei programmi degli Alleati che pur avevano contribuito ad armarla (basti l’esempio della Divisione ‘Valdossola’ di Dionigi Superti), abbandonandola al terribile rastrellamento nazifascista dell’ottobre 1944, diverso era stato l’approccio in alta Valtellina dove l’interesse fondamentale a preservare dighe e centrali idroelettriche dalle minacce dei bombardamenti tedeschi aveva favorito l’arrivo di ‘missioni Oss’ (Spokane, Santee, Sewanee, ecc.) capaci di garantire la “difesa dell’oro bianco” a fianco della Divisione Alpina Valtellina, anticomunista, affidata alla guida del colonnello dei carabinieri Edoardo Alessi, già vice Commissario Regio di Campione d’Italia (35).
La logica era apparsa sempre la stessa. La rappresentazione della ‘doppia Resistenza’ doveva perpetuarsi sino alla Liberazione.
I ‘garibaldini’ avevano continuato a battersi e a morire. Chi, al contrario, fra i partigiani di Campione d’Italia, era finito oltre confine per salvare la vita, aveva avuto tempo e modo nei campi d’internamento di riflettere sull’esperienza vissuta, cogliendo fin dove possibile limiti ed errori. Molti di quei ragazzi, in primis Paolo Pizzoni, avrebbero voluto tornare in Italia per combattere senza i condizionamenti patiti nei mesi precedenti.
A qualcuno, per la verità, era accaduto di poter trascorrere l’insurrezione da protagonista, intruppato fra i reduci di Campione d’Italia guidati da Giovanni Battista Cavaleri con a tracolla i moderni Hispano-Suiza o nelle ‘Brigate Fantasma’ organizzate in fretta e furia dagli Alleati con i primi partigiani licenziati dalla Confederazione per partecipare alle sfilate dei primi giorni di maggio, spalla a spalla dei partigiani ‘rossi’, legittimando in quel modo a pieno titolo la loro presenza nella Resistenza (36).
Non era mancata nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra una pagina illuminante che la diceva lunga sul ruolo che avrebbe avuto l’Oss nella storia d’Italia. Alcuni marò della X Mas di Junio Valerio Borghese, fatti prigionieri nell’Italia del Nord, ed ex-agenti segreti del Governo del Sud, erano stati trasferiti a Villa Rosmini di Blevio sul lago di Como per frequentare un corso accelerato per croupier da utilizzare al casinò di Campione d’Italia, prossimo alla riapertura dopo anni di paralisi (37). L’interesse mai sopito degli Alleati e degli gnomi italo-svizzeri per il ‘tavolo verde’, si era realizzato, garante dell’operazione quel Felice De Baggis, sodale dell’agente Jones, poi sindaco dell’énclave dal 1951 per un ininterrotto trentennio.
Nelle stesse ore gli Alleati avevano aperto la caccia a Mussolini. Lo avrebbero voluto vivo per affidarlo alle Nazioni Unite, come prevedeva la clausola n. 29 del Lungo armistizio del 29 settembre 1943 firmato a Malta sulla corazzata ‘Nelson’ da Einsenhover e Badoglio, ma era loro sfuggito malgrado il massiccio impegno dei servizi segreti di Emilio Daddario e Max Corvo. Erano stati bruciati sul tempo dalla ‘missione’ del Cvl-Clnai di Walter Audisio e Aldo Lampredi. Ma questa è un’altra storia.
(1) Allen Dulles, avvocato, ex diplomatico, fratello minore del futuro segretario di Stato John Foster Dulles. Nel dopoguerra, capo della Cia che sostituì l’Oss. Giunse a Berna dall’estate del 1942
(2) John McCaffery, cattolico scozzese, per anni lettore di lingua e letteratura inglese all’Università di Genova, prese possesso dell’ufficio di Berna dal febbraio del 1941
(3) cfr. Nota sul lavoro attivistico: Memorandumdi Ferruccio Parri a J. Mc Caffery del 31 ottobre 1943 in Pietro Secchia e Filippo Frassati, La Resistenza e gli alleati, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 28-32
(4) cfr. Pietro Secchia e Filippo Frassati, op. cit., pag. 34
(5) ibidem, pp. 33, 34. Secondo il pensiero di Parri “l’accordo era tecnico e richiedeva da parte nostra rifornimenti di armi, indumenti e viveri. Esso poneva le premesse di un coordinamento di azione militare e dichiarava, senza reticenze, agli Alleati il carattere politico oltre che antigermanico della nostra guerra”
(6) cfr. Pietro Secchia e Filippo Frassati, op. cit., pag. 28
(7) cfr. Ennio Caretto, Bruno Marolo, Made in Usa. Le origini americane della Repubblica Italiana, Rizzoli, Milano 1996, pag. 99. Una fra le prime circolari che i servizi segreti statunitensi inviarono a Washington sottolineava come gli obiettivi politici del Cln fossero molto più ambiziosi di quanto gli Alleati stessi erano disposti ad accettare. “Nel governo di domani – era scritto – questo è certo: operai, contadini, artigiani, tutte le classi popolari avranno un peso determinante e un posto adeguato a questo peso sarà occupato dai partiti che le rappresentano”
(8) cfr. Nota per il Ministro degli Esteri inglese A. Eden e per l’Ambasciata americana in Svizzera del 26 ottobre 1943 del socialista Rodolfo Morandi, del comunista Sante Massarenti, dell’azionista Alfredo Tino e di A.G. Damiani come Delegato del Comitato Militare del Clnai in Pietro secchia, Filippo Frassati, op. cit., pp. 25-27
(9) cfr. Norman Kogan, L’Italia e gli Alleati, Lerici, Firenze 1973, pag. 30; Tommaso Piffer, Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, il protagonista cancellato della guerra di Liberazione, Mondatori, Milano 2005, pp. 108-109. In un rapporto del Soe di Londra a una base dell’Italia del sud dell’ottobre 1943 si diceva fra l’altro: “[…] Qui noi abbiamo dei dubbi sulle effettive capacità militari di questi gruppi partigiani […]. Le truppe italiane inquadrate non sono composte da buoni combattenti perciò ci si domanda quale possa essere il comportamento di gruppi raccogliticci. Non possiamo permetterci di sprecare materiale e aerei in cambio di un vantaggio che è solo ipotetico”
(10) ibidem, pag. 27
(11) citato in Renzo De Felice, Mussolini l’Alleato. II. La guerra civile. 1943-1945, Einaudi, Torino 1998, pag. 214
(12) cfr. Pietro Secchia, Filippo Frassati, op. cit., pag. 179
(13) cfr. Pietro Secchia, Perchè dobbiamo agire in La nostra lotta, novembre 1943
(14) cfr. Tommaso Piffer, op. cit. pp. 164-165. L’accordo di Roma prevedeva che a guerra finita il governo italiano rimborsasse agli Alleati la somma anticipata al Clnai. Garante dell’operazione fu Alfredo Pizzoni, presidente del Clnai e banchiere del Credito Italiano
(15) cfr. Francesca Minuto Peri (a cura di), Uomini liberi, scritti sulla Resistenza, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1993, pp. 128-132
(16) cfr. Risposta di A.G. Damiani a J. Mc Caffery del 12 gennaio 1944 in Pietro Secchia, Filippo Frassati, op. cit.
(17) cfr. Roberto Faenza, Marco Fini, Gli Americani in Italia, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 3-5. L’Oss, strutturato come un superdipartimento di Stato attrezzato per la guerra, era diviso in diverse sezioni operative fra cui le più importanti erano il Secret Intelligence Branch (SI); lo Special Operations Branch (SO); il Moral Operations Branch (MO) con 13mila uomini a disposizione in servizio permanente. Aveva l’obbligo di riferire al Joint Chief of Staff l’organo supremo di controllo militare. I componenti erano valutati preventivamente dallo Psycological Staff incaricato di studiare la psicologia, le abitudini e le attitudini. L’Oss venne disciolto dal presidente Truman alla fine del 1945. Ricostituito nel 1946 il nuovo servizio verrà chiamato GIG (Central Intelligence Group) per diventare nel 1947 l’attuale CIA (Central Intelligence Agency). Il Soe (Special Operation Executive) del tutto autonomo dai servizi informativi militari e direttamente responsabile verso lo Stato Maggiore britannico fu costituito nel 1940 come sezione segreta del ministero della Guerra economica ed ebbe il compito di stimolare e potenziare ogni forma di resistenza attiva nei Paesi nemici e nei territori invasi
(18) cfr. Franco Giannantoni, L’ombra degli americani sulla Resistenza al confine tra Italia e Svizzera, Arterigere Editore, Varese, 2007, pag. 64
(19) fra i più noti Mario Tognato, Pino Miotti, Giuseppe Romano, Guido Dario
(20) Guglielmo Mozzoni, il più esperto del gruppo, compì ben 85 passaggi clandestini da e per la Svizzera. Noto architetto, è il marito di Giulia Crespi, fondatrice del Fai
(21) ibidem, pp. 59-66
(22) era retta dall’ambasciatore Massimo Magistrati, cognato di Galeazzo Ciano (poi sostituito da Alberto Berio). Delegato Militare era il generale Tancredi Bianchi. Entrambi erano legati al regime fascista e in contrasto con la politica del Clnai
(23) cfr. Roberto Faenza, Marco Fini, op. cit., pag. 28. I primi agenti Oss furono introdotti da Max Corvo prima dello sbarco alleato in Sicilia nel luglio 1943 entrando in stretto contatto con famiglie mafiose. Le prime indagini ‘sul campo’ riguardarono il Partito comunista italiano. La Sezione R&A (Research and Analysis) dedicò all’argomento fra il dicembre 1943 e l’aprile 1945 una serie di 30 rapporti. Il Pci fu schedato provincia per provincia, sezione per sezione, con esiti nei toni delle elazioni sempre meno concilianti
(24) era anche collaboratore con il nome di ‘Nado’ della rete ‘Nell’ dello Stato Maggiore svizzero
(25) fra i civili Paolo Pizzoni, figlio del presidente del Clnai, Edoardo Sacchi, Vincenzo Borioli, i fratelli Leone ed Edoardo De Filippi, i fratelli Ettore e Luciano Daneri; fra i militari Santino Varanini, Corrado Campeis, Luciano Miserocchi; fra i contrabbandieri Giuseppe Cola e Antonio Rita
(26) cfr. Franco Giannantoni, op. cit., pag. 97
(27) ibidem, pag. 135-137
(28) ibidem, pag. 96
(29) cfr. Bruno Soldini, Uomini da soma, contrabbando di fatica alla frontiera fra Italia e Svizzera, 1943-1948. Gli anni del riso, Edizioni Giornale del Popolo, Lugano 1985; Erminio Ferrari, Contrabbandieri. Uomini e bricolle fra Ossola, Ticino e Vallese, Tararà Edizioni, Verbania 2000, pag. 79 e segg.; Adriano Bazzocco, L’epoca del riso. Il contrabbando degli affamati alla frontiera italo-elvetica 1943-47, Università di Zurigo, 1996. Interessante registrare come nella Val d’Intelvi nell’autunno 1944 avesse operato con alcuni marò del Nucleo N.P. (Nuotatori paracadutisti) il tenente della X Mas Osvaldo Valenti. Questi aveva avuto il compito di contrabbandare negli stessi territori del contrabbando indigeno verso la Svizzera merce sequestrata alle comunità israelitiche o razziata nei rastrellamenti per conto del sottosegretariato della Marina della Rsi. L’esperienza terminò nel dicembre 1944. Il Valenti fu fucilato con la sua amante l’attrice Luisa Ferida il 30 aprile 1945 a Milano dai partigiani
(30) cfr. Franco Giannantoni, op. cit., pp. 85-92
(31) ibidem, pp. 72-80. Fa fede di questo rapporto una fitta serie di brandelli di carta utilizzati come messaggi e affidati ai contrabbandieri per la consegna
(32) ibidem, pp. 110-114
(33) ibidem, pp. 138-142
(34) ibidem, pp. 39-40
(35) ibidem, pag. 288, nota 40
(36) ibidem, pp. 218-221
(37) ibidem, pag. 225