La bellezza è politica: forza contrapposta alla mercificazione e alla (il)logica neoliberista
“La bellezza salverà il mondo.” Fëdor Dostoevskij, L’idiota
Che cos’è la bellezza? Come si manifesta? È possibile trovare parametri di misura oggettivi, che la descrivano, o la sua individuazione resta necessariamente un fenomeno arbitrario? Insieme a quello dell’essere e del tempo, la bellezza, sotto i suoi vari aspetti sia etici sia edonistici, è stato uno dei temi più dibattuti dai filosofi di ogni epoca. Ma in che modo essa ha a che fare con la politica?
Per iniziare, citeremo una poesia di Pier Paolo Pasolini, Marylin, dedicata a quella Marylin che tutti conoscono – la Monroe – scritta a un anno dal suo suicidio. Di seguito, alcuni dei versi più significativi: “Del mondo antico e del mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu / […] quella bellezza l’avevi addosso umilmente / […] perché altrimenti non sarebbe stata bellezza. / Sparì, come un pulviscolo d’oro. / Il mondo te l’ha insegnata. / […] e così la tua bellezza non fu più bellezza. / […] Ora sei tu, quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso, / sei tu la prima oltre le porte del mondo / abbandonato al suo destino di morte”. Si capirà nel corso della lettura – e, in particolare, verso la fine – che cosa si intende per “destino di morte”.
In secondo luogo, è necessario definire che cos’è la politica. La risposta è semplice e complessa, allo stesso tempo. Tutto ciò che ci circonda, in qualche modo, è politica. Sicché si può parlare di quest’ultima come dell’unica dimensione attraverso cui l’essere umano entra in contatto col mondo e agisce su di esso, trasformandolo e lasciandosi trasformare, a sua volta. Dacché scegliamo di perseguire un particolare stile di vita, stiamo facendo politica. Il problema si pone nel momento in cui ci chiediamo quanto tale scelta sia effettiva.
Tutti noi conosciamo il significato della parola conformismo – o, addirittura, come sostiene Günther Anders, congruità. Qualcuno avrà anche letto Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, oltre alla sua opera più famosa Modernità liquida, e saprà che l’uomo non è in grado di applicare il proprio senso morale a situazioni eccessivamente più grandi di lui – soprattutto se queste sono ‘legittimate’ da un apparato burocratico di potere, la cui funzione è, appunto, conformare la vita a una serie di regole e compiti, attraverso cui si attua la deresponsabilizzazione.
Da qui, si spiega come un operaio addetto alla costruzione delle camere a gas, sotto il regime nazista, potesse sentirsi moralmente ‘puro’, nonostante partecipasse attivamente al genocidio. Si tratta di un dislivello tra la facoltà umana di immaginare il dolore altrui e la sua effettiva capacità di produrlo. E ciò accade ancora oggi, a maggior ragione, dacché l’epoca postmoderna ha visto l’esuberante sviluppo della tecnica – simboleggiata, nel pensiero andersiano, dal fuoco di Prometeo – e, quindi, delle possibilità dell’uomo di plasmare la realtà che lo circonda. Questo ha determinato un aumento esponenziale di ciò che Foucault definisce dispositivi, ovvero tutto quell’insieme di elementi eterogenei, che hanno una funzione strategica e concreta, all’interno di una relazione di potere. Potenzialmente ogni cosa è un dispositivo: da una sigaretta, a una proposizione filosofica, fino a un iPhone. Per capire quanto incida sulla nostra vita soprattutto quest’ultima categoria prettamente tecnologica, basti pensare a quanto tempo passiamo davanti a uno schermo – o vediamo gli altri farlo.
Allora, dovrebbe provocarci un ulteriore brivido ricordare quanto andava affermando la Thatcher già negli anni Ottanta: “L’economia è il mezzo, l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima”. Sicché diventa evidente come la produzione dell’uomo-massa si compia attraverso il rituale del falso edonismo, che è il consumismo applicato a ogni frangente della vita. In questo senso, la merce è il dispositivo per eccellenza. Qualunque sia la sua natura particolare (uno stuzzicadenti, un abbonamento a Sky, un cocktail o un romanzo), oggi rappresenta l’unica ontologia davvero riconosciuta. La forma mentis mercantilistica ci permea a tal punto, che tutto ciò che esula – o vorrebbe esulare – da essa muore o viene sopraffatto, fino a essere inglobato da questo tipo di sistema. Se un’entità non è monetizzabile non viene neanche riconosciuta come ‘vera’.
Di tutto ciò, come ben sappiamo, Expo è l’emblema. Basti pensare alle numerose pratiche di cosiddetta ‘riqualificazione urbana’, che sono servite a snaturare ulteriormente zone già devastate dalle cattedrali del divertimento programmato, come quella della Darsena. Tutto in nome dello sviluppo. Al di là del fatto che anche un bambino capirebbe che non è possibile crescere infinitamente su un pianeta dalle risorse limitate (viene in mente l’affermazione di Goethe, secondo cui “lo stile sta nel limite”) e che, se il 20% della popolazione mondiale detiene il 90% delle risorse esistenti, forse, un problema sussiste, il cortocircuito mentale, come rileva Latouche, sta nel definire il Pil come il parametro di misura della felicità.
Ecco, dunque, che ci ricolleghiamo al discorso sulla bellezza, come forza contrapposta alla (il)logica neoliberista, dove tutto è commercio e sopraffazione. Riconoscere la bellezza significa emanciparsi da tutti quei dispositivi che vorrebbero annichilire le nostre facoltà davvero creative, riducendo l’esperienza umana a semplice mezzo per servire il nuovo Dio – quel Moloch assetato di sangue che è la macchina economica neoliberista. Riconoscere la bellezza significa contrapporsi a quel particolare tipo di dittatura praticato attraverso il biopotere, dove il confine tra individuo e istituzione si assottiglia sempre di più, fino a sparire del tutto, nel momento in cui ognuno diventa ‘controllore’ dell’altro.
Riconoscere la bellezza significa andare oltre il luogo comune (il ‘Si dice’ heideggeriano) e amare la propria individualità sfuggita alla campitura castrante del conformismo (o congruità). Riconoscere la bellezza significa anche accorgersi degli altri e capire che ogni libertà non è mai effettiva finché non è condivisa in un’ottica di giustizia egualitaria. Riconoscere la bellezza significa, infine, ricordarsi che tutto ciò è possibile.
La bellezza, dunque, è politica per sua stessa natura, dacché rifiuta di diventare merce. Se è vero che un romanzo, un film o qualsiasi prodotto realmente artistico assume anche questo ruolo (Illusioni perdute di Balzac, in questo senso, ci fa capire come ciò sia sempre avvenuto), è altrettanto vero, infatti, che almeno una componete di queste opere sfugge a tale riduzione in quanto esse si fanno portavoce, in un modo o nell’altro, di una diversa possibilità di esistenza. In altre parole: non si tratta di semplice intrattenimento, ma di dispositivi (sempre loro), in grado di determinare la vita e le scelte degli esseri umani, rendendo queste ultime davvero consapevoli e cambiando le modalità con cui la realtà viene percepita. Così si può dire, con una certa soddisfazione, che la bellezza è rivoluzionaria e di sinistra.
Nella poesia di Pasolini, Marylin muore perché ha offerto interamente la sua bellezza al potere, che, appropriandosene, l’ha distrutta. La bellezza, infatti, è tale solo al suo stato brado. Nel momento in cui viene messa in cattività, essa scompare. Ciò ci dà la misura di quanto la bellezza sia fragile, imponendoci la necessità di una sua strenua difesa, soprattutto se si tiene conto dell’enorme crisi culturale avviatasi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, i cui momenti fondamentali sono stati il 1989 (anno del crollo del Muro di Berlino) e il periodo 1991-93 (nel corso del quale l’Unione Sovietica si dissolve definitivamente, la Comunità europea si trasforma in Unione europea e, conclusa l’esperienza di Tangentopoli, l’Italia entra ufficialmente nella Seconda Repubblica).
Tutti gli avvenimenti sopracitati hanno contribuito alla colonizzazione incontrastata del pensiero economico neoliberista, diventato l’unica ideologia imperante in un mondo ormai completamente globalizzato. Perciò, assistiamo, tra le altre cose, a una sempre minore capacità di risposta da parte del proletariato postmoderno (composto, allo stesso modo, da operai, impiegati e precari di ogni genere) ai continui attacchi perpetrati a danno dei loro diritti.
In una situazione di crisi come questa, che dovrebbe favorire logiche di resistenza, pare che la preoccupazione maggiore sia ancora quale squadra vincerà lo scudetto (viene in mente il finale del film In nome del popolo italiano di Dino Risi) o se un personaggio X del Grande Fratello verrà o meno eliminato. Tutte prove tangibili di ciò che Pasolini definiva, in rapporto al passaggio da ‘popolo’ a ‘massa’, una vera e propria mutazione antropologica. Sicché il piano culturale diventa un terreno di scontro imprescindibile, se si vuole contribuire alla ‘rinascita’ di un pensiero di sinistra, dove la bellezza funga da conduttore per una presa di coscienza direzionata a un reale edonismo – che non tradisce in alcun modo un approccio etico, ma, al contrario, lo incentiva – in cui l’uomo, per dirla con Kant, sia il fine e non il mezzo.