Redeker e Politkovskaya: due diversi usi della libertà d’opinione
Quattro mesi fa, dopo aver scritto un articolo dissacrante su Corano e Maometto, il professore di filosofia Robert Redeker è stato colpito da una Fatwa lanciata dello sceicco Youssef al Qaradawi. Immediatamente la polizia francese lo ha prelevato e condotto in un luogo segreto, mentre si alzava solenne l’indignazione dell’intellighenzia occidentale, sotto la bandiera della libertà d’opinione. Un argomento che si è prontamente inserito nella guerra contro il Medioriente: per quanto buona parte degli intellettuali fosse in disaccordo con i contenuti del suo articolo, è parsa una questione di rispetto accantonare ogni polemica con Redeker in nome di una causa più alta.
Sennonché, pochi giorni più tardi, quando a Mosca è stata abbattuta con quattro colpi di pistola la giornalista Anna Politkovskaya, a nessuno è sembrato interessante cogliere le analogie con la Fatwa di cui Redeker era stato vittima. Semplicemente il dito indice di intellettuali e politici si è alzato in direzione del presidente Putin, a indicare una volta di più la superiorità culturale euroamericana rispetto al resto del mondo.
In realtà, il caso Redeker e la morte della Politkovskaya sono il frutto di identiche ragioni e di differenti dinamiche, la cui costante risiede in due parole chiave: morte e Fatwa. Perché, se è vero che l’anatema lanciato a Redeker appartenga a una cultura dell’intransigenza apparentemente lontana da noi, è difficile negare che l’omicidio della giornalista russa rientri in un nostro modo, tremendamente più efficace di quello islamico, di lanciare e portare a termine una Fatwa.
Ma partiamo dal primo caso. Un articolo del filosofo francese Bernard Henry Levy, apparso tradotto sul Corriere della Sera, sintetizza buona parte degli articoli apparsi sui giornali italiani ed europei.
Nel suo intervento, l’editorialista di Le Figaro ammette la possibilità che le argomentazioni di Redeker siano “idiote e false”, tuttavia motiva la sua scelta di non soffermarsi a commentarle, perché: “Non si discute con un uomo a terra: lo si aiuta ad alzarsi. Non si apre una polemica contro chi, per aver scritto un articolo, si vede minacciato di morte, braccato, stigmatizzato: gli si tende una mano”. E decide così di assumerlo a simbolo di un valore assoluto da difendere.
Levy ha ragioni da vendere: che cosa ne sarebbe di una democrazia, nel momento in cui ci si arrendesse all’idea di poter morire per aver espresso un’opinione su un giornale?
Tuttavia allinearsi a questa logica e omettere di sviluppare ulteriori valutazioni sui contenuti dell’articolo di Redeker, comporterebbe un pericolo anche per quella stessa libertà d’opinione che, con l’appoggio acritico a un collega, si tenta di difendere. Infatti, se si legge con attenzione l’articolo incriminato, ci si rende conto delle preoccupanti condizioni di salute in cui versa il sistema d’informazione occidentale; di come la tanto decantata libertà d’opinione, in un momento di grave crisi politica del concetto stesso di democrazia, si sia rivelata per ciò che è: un servile garante delle logiche di potere.
Accettare il punto di partenza di Levy, quindi, nell’attuale congiuntura storica, non solo equivarrebbe a una censura in contraddizione con la causa ch’egli vuole portare avanti, ma contribuirebbe a far sprofondare il pensiero nel fango della propaganda di guerra. Una dialettica dell’odio costruita ad arte, tra provocazioni e reazioni, nella quale, piccola tessera dentro un immenso mosaico, rientra la stessa Fatwa lanciata a Redeker. Una trappola, quindi, nella quale bisogna a tutti i costi rifiutarsi di cadere.
L’argomento forte dell’intervento di Redeker consiste nel dimostrare, con l’appoggio di alcuni brani estratti in maniera strumentale dall’intero blocco coranico, la componente violenta del libro sacro dell’Islam, pur ammettendo che neppure la Chiesa cattolica in questo senso sia esente da critiche. Difficile in effetti non riconoscere la realtà storica dell’inquisizione, della caccia alle streghe, dell’esecuzione dei filosofi Bruno e Vanini. Sennonché, e in questo il professore trova la leva per rimuovere un simile macigno, la differenza tra il cristianesimo e l’Islam risiede nei valori evangelici, nella “dolce persona di Gesù contro le derive della Chiesa”.
Il ritorno a Cristo, quindi, alla non-violenza, si rivela, secondo Redeker, essere il rimedio contro le derive dell’istituzione ecclesiale. E conclude la propria teoria brani alla mano, sostenendo che, al contrario, il ricorso a Maometto rinforzi l’odio e la violenza. Per citarlo con esattezza: “Gesù è un maestro d’amore, Maometto un maestro d’odio”.
Al di là del fatto che alla costruzione dell’odio contribuiscano molto di più i bombardamenti in Iraq e gli oltre 650.000 (seicentocinquantamila!) tra civili e guerriglieri morti ammazzati dalle bombe, Redeker dovrebbe sapere che nel momento storico in cui la Chiesa era al potere non c’è stato appello al Vangelo che abbia permesso di salvare una sola vita destinata al rogo. Perché? Perché allora la Chiesa era impegnata con tutti i mezzi a difendere il proprio potere dall’incalzare degli infedeli. I quali non provenivano dall’esterno, non appartenevano a impresentabili orde barbariche, bensì erano a loro volta cristiani che esprimevano una propria opinione, spesso supportata da dimostrazioni scientifiche.
Altri tempi si dirà. No. Semplicemente anche allora si trattava di potere. E il potere, per difendersi uccide.
La seconda tesi forte di Redeker mira a sostenere fallacianamente che l’Islam stia tentando di piegare l’Europa alla propria visione dell’uomo. E, una riga più in basso, con un’acrobazia concettuale, lo parifica al comunismo. Infatti, rincara il professore, come una volta con il comunismo, anche oggi l’occidente si trova sotto sorveglianza ideologica, dal momento che l’Islam si presenta come la voce dei poveri del pianeta. E accusa l’Islam di considerare, proprio come una volta (parole di Redeker!) il modello comunista, valori come la tolleranza, la morbidezza, la libertà della donna e dei costumi e la democrazia, alla stregua di segni di decadenza. Tutto qui: unico referente di se stesso, il professore non aggiunge spiegazioni o esempi pratici a supporto della propria tesi. Semplicemente il lettore deve fidarsi.
La pochezza di simili opinioni dimostra ampiamente il carattere provocatorio dell’articolo di Redeker, scritto con l’unica intenzione (e, comunque, tale è il risultato finale) di aggiungere ulteriori argomenti alle ragioni della paura. Le stesse teorizzate da Bush dopo l’11 settembre del 2001, grazie alle quali il presidente degli Stati Uniti tiene il mondo per lo scroto, e può perpetuare la mattanza in Afghanistan e in Iraq, in attesa di colpire l’Iran.
Leggere articoli di questo tenore mette tristezza. Le parole di Redeker sono lì a dimostrare come gli argomenti della propaganda di guerra abbiano ormai raggiunto il limite di convergenza e si stiano ionizzando. Non a caso l’enclave politica statunitense è costretta ad abbracciare ogni volta che può argomenti religiosi, a creare un’alleanza a distanza con la Chiesa.
Redeker quindi, purtroppo, non è il simbolo di un valore occidentale, come sostiene Bernard Henry Levy, ma di un disvalore; di una decadenza del pensiero di cui l’editoria occidentale è oggi responsabile.
Redeker, per via del dramma di cui è vittima, è il simbolo della crisi dei giornali e della letteratura europei, oggi sempre meno in grado di esprimere delle idee e un pensiero che superino l’elementare e semplicistico appello alle viscere di chi legge.
E’ il simbolo del rifiuto, quando non di un’incapacità, di riflettere, oramai divenuta cronica, in una parte di mondo che da tempo ormai considera le fatiche e le contraddizioni del pensiero alla stregua di un’inutile e insopportabile soma.
E’ il simbolo del più totale disprezzo delle parole e della scrittura, e della totale dimenticanza del fatto che ogni volta che si prende in mano una penna, ne va della dignità di chi scrive, e del rispetto per chi legge.
L’uccisione di Anna Politkovskaya assomiglia a un omicidio di stato per tre caratteristiche: l’abbondanza di prove lasciate dal sicario sul luogo del delitto; la certezza, in chi ha premuto il grilletto, di non venire perseguito da quella istituzione che, uccidendo, in realtà ha servito; e il bersaglio abbattuto: una giornalista tenace e fastidiosa che, con i suoi reportage dalla Cecenia, era diventata anche una pericolosa testimone contro lo Stato Maggiore russo.
A queste caratteristiche ne va aggiunta un’altra: l’isolamento cui la giornalista era condannata.
Da tempo ormai Anna Politkovskaya era considerata nel suo ambiente un cadavere ambulante. Nel 2006 il suo nome figurava bene in vista in una specie di lista nera di nemici dello Stato russo. Gli stessi suoi colleghi occidentali, insorti contro la Fatwa lanciata a Redeker, ne erano abbondantemente al corrente. Anche perché gli spari che l’hanno freddata costituiscono il momento terminale di una lunga storia fatta di minacce e attentati. Nel 2001 una bomba artigianale era esplosa davanti alla sua casa; in seguito era sfuggita fortunosamente a un agguato davanti alla redazione del giornale per il quale lavorava. E, in ultimo, nel 2004, sull’aereo che la conduceva a Beslan, era stata avvelenata e costretta in ospedale per diversi giorni. A questo vanno aggiunte le telefonate nel cuore della notte e gli insulti sistematici inviatele al suo indirizzo di posta elettronica.
Ce n’era abbastanza per pensare che una delle tante Fatwa, simili a quelle che, nella storia occidentale, rientrano nella Ragione di Stato, fosse stata lanciata. Certo, non ufficializzata; ma si sa bene come i servizi segreti sappiano portarle a termine con ridottissime percentuali di fallimento. Malgrado ciò, gli organi di stampa, indignati e furenti dopo la sua morte, non si sono mobilitati come invece hanno fatto per Redeker. Persino l’indignazione, seguita all’omicidio della giornalista, non sembra nascere sotto un cielo puro. Sollevatasi in modo unanime dalle pagine di tutti i giornali, è parsa più una favorevole occasione per attaccare il Cremlino e creare una linea di sbarramento a Putin, in tempestiva sintonia con le attuali esigenze politiche ed economiche euroamericane, che non il sincero tentativo di analizzare la vicenda.
Un’analisi della parabola politica del presidente russo, vista attraverso lo sguardo dei media, può aiutare a comprendere cosa si intenda, di fatto, per libertà d’opinione nelle democrazie occidentali.
Putin è sempre stato un alleato imbarazzante per Unione Europea e Stati Uniti. Simbolo del nuovo processo di democratizzazione dei paesi dell’est e baluardo attendibile della spinta ultraliberista là dove fino a ieri imperava la logica statalista, si è sempre rivelato un collega politico scomodo per la sua personale concezione del potere. Definirlo antidemocratico, vista la nuova costituzione Russa e i poteri di cui gode, affatto diversi da quelli a disposizione del suo parigrado statunitense, non è mai parso un affare conveniente. Semmai, per parlarne male, ogni tanto si è provato a citare la mafia russa come un apparato esogeno allo Stato, il che è tutto da discutere. Lo stesso suo operato in Cecenia non può certo considerarsi meno sanguinario e cruento di quello espresso dagli Stati Uniti in Medioriente o da Sharon, prima, e da Olmert, poi, in Palestina. Meno pubblicizzata, la sua guerra la si è sempre potuta passare come una linea di continuità della politica estera intrapresa dagli Stati Uniti dopo l’attentato dell’11 settembre 2001: un lavoro di bonifica dal terrorismo islamico-musulmano, indistintamente inteso. Così è stato, dal 1999 e per alcuni anni, fino a quando alcune scelte politiche, in aperto contrasto con le politiche statunitensi, hanno raffreddato questa amicizia. Da qui si è assistito a un’inversione di tendenza; dapprima attraverso messaggi in codice, in seguito in maniera sempre più incalzante, governanti e stampa occidentali, forti del supporto di un improbabile Bush, con singolare sincronia di tempi e intenti hanno cominciato a denunciare la lesione dei diritti umani in atto in Cecenia. Riesumata ad hoc, come d’incanto è riapparsa la salma dello stalinismo accanto all’immagine internazionale di Putin, fino a quando l’omicidio della Politkovskaya si è presentato come l’occasione ideale, facilmente assimilabile anche dall’opinione pubblica (particolarmente sensibile all’evocativo richiamo della parola comunista), per additarlo come un antidemocratico a capo di una nazione ancora immatura di fronte alla libertà da poco acquisita. E, al solito, gli avvoltoi si sono radunati sul cadavere.
Come nel caso di Redeker, una tragedia personale si è trasformata nella teorizzazione di una divisione del mondo in due spazi geometrici: un Qua e un Là di matrice falsamente etica e morale. Un confine definito politicamente, sotto la cui gonna ideologica nascondere i reali interessi economici. Un simbolo prontamente utilizzato per un massiccio attacco mediatico alle politiche di Putin, attraverso il richiamo (retorico negli intenti) al mancato rispetto dei diritti umani. Se solamente lo si fosse voluto, da tempo migliaia di morti ceceni sarebbero stati un motivo sufficiente per inchiodare il Cremino alle responsabilità dei suoi crimini. Ma allora c’era l’amicizia! Adesso che i rapporti sono cambiati, ogni spunto è divenuto occasione per attaccarlo.
Lo stesso richiamo al recente passato di Putin, ricordare i suoi trascorsi nel Kgb, rientra nel consueto gioco della strumentalizzazione della storia. Come se, nella transizione di uno Stato da una dittatura a un regime democratico, non fosse prassi comune ripulire uomini del vecchio regime, per sdoganarli nel nuovo, e presentarli al mondo nelle vesti di campioni della democrazia. Come scordare le immagini delle visite di Putin in pompa magna a vari capi di Stato, nei ranch americani; le vacanze nelle ville in Sardegna, le dichiarazioni di stima, i pettegolezzi giornalistici sugli abiti della sua signora e delle figlie, la Gran Croce della Legion d’onore con cui Chirac l’ha insignito pochi giorni prima dell’assassinio della Politkovskaya?
Che piaccia o meno, a chi oggi ha tutto l’interesse a indicare Putin come un anomalo presidente-zar, la democrazia russa è concepita e organizzata sul modello economico occidentale. E, come accade in qualunque sistema di ordine capitalistico, il controllo dell’informazione è, direttamente o indirettamente, nelle mani di chi detiene il potere. C’è da dubitare quindi che un giornale di opposizione, una voce solitaria come la Novaya Gazeta, potesse, nell’immenso bailamme di quotidiani e riviste in larga predominanza filo governative, procurare grattacapi a Putin né tanto meno contribuire a far cadere lo Stato Maggiore impegnato a calmierare la Cecenia.
In democrazia la libertà d’opinione non è il vero problema; tant’è che la Politkovskaya pubblicava tranquillamente i suoi articoli. Semmai, in discussione, sono i criteri di accesso agli strumenti di produzione dell’opinione che permettono ad alcune idee di circolare relegando il dissenso all’invisibilità. Stando così le cose, uccidere un cronista per ciò che scrive non ha più senso per il potere, a meno che questi, durante il proprio lavoro, abbia raccolto prove tali da costituire un pericolo giuridico ben più tangibile che non poche parole scritte su un giornale. Il che, con tutta probabilità, era il caso della Politkovskaya. Che la giornalista non corresse meno rischi di quanti ne corra in questo momento Redeker era evidente, e il tempo alla lunga lo ha dimostrato. Ma è altrettanto evidente che, per una stampa mondiale smaccatamente mobilitata in appoggio alla guerra contro il terrorismo, la Politkovskaya ha sempre remato controcorrente. Documentare i crimini perpetuati in Cecenia, oltre che un’importante testimonianza, era per i colleghi un insinuante invito a fare altrettanto; a mostrare, per esempio, l’orrore dei massacri e la falsità di buona parte dei concetti con i quali i politici e la maggioranza dei giornalisti li giustificano. Era implicitamente un invito ai colleghi a fare altrettanto in Iraq e in Palestina. A parlare di Guantanamo e dei vari Abu Grahib operativi in tutto il mondo.
Sui giornali italiani, lo spazio riservato alla Cecenia è persino inferiore di quello dedicato al campionato di pallamano. Tuttavia si può giurare che, se in Russia oggi ci fosse ancora il comunismo, la guerra privata di Putin avrebbe ben altro risalto. Così come, se i rapporti tra Francia e Medioriente fossero gli stessi di qualche anno fa, il direttore di Le Figaro si sarebbe preoccupato di convocare Redeker per chiedergli di circostanziare con maggiore serietà le argomentazioni del suo articolo. D’altro canto, è probabile che allo stesso Redeker non sarebbe nemmeno venuto in mente di scriverlo. Gli editorialisti sanno bene quanto la visibilità di uno scritto e la sua diffusione siano legate al valore d’uso che può ricavarne il potere.
Scegliere di non tenerne conto, per molti direttori di testate e telegiornali, che pagano con la reticenza il privilegio della visibilità, sarebbe un’improponibile questione etica. Come mai a nessun opinionista famoso, visto il pericolo che correva la giornalista russa, è venuto in mente di lanciare, approfittando della propria notorietà, una campagna stampa in suo favore, tanto da rendere il nome Anna Politkovskaya talmente famoso da impedire che qualcuno potesse ucciderla come un cane?
Rispondere a un simile interrogativo equivarrebbe a scoperchiare un vaso di Pandora; a comprendere che nel mondo dell’informazione, sempre, il chiasso nasconde un silenzio; a chiedersi, per esempio, quale funzione sociale abbiano quegli opinionisti che da anni foraggiano, senza flessioni né dubbi di sorta, la logora ideologia di guerra americana, e che adesso, improvvisamente svegliati da quattro colpi di pistola, hanno capito senza porsi troppe domande che è giunto il momento di screditare Putin, nel nome dell’unica libertà di opinione che conoscono: l’osso da rosicchiare che la democrazia lancia ai Redeker.